Avvenire, 9 luglio 2025
I traffici chimici tra Italia e Israele Il sospetto che servano per le bombe
«Oggi sono qui come voce di tutti i palestinesi che hanno perso ogni cosa. Sono qui per testimoniare quello che ho vissuto anch’io, quando mi trovavo in mezzo al fumo, le macerie e la paura», Aia è una giovane di Gaza accolta in Italia. Ha lasciato la propria casa, come tanti palestinesi «costretti a fuggire dai bombardamenti o per necessità mediche». Insieme ad altri due testimoni palestinesi, ieri è intervenuta al convegno Altro che “Food for Gaza”, organizzato in una sala del Senato su iniziativa del senatore Avs Tino Magni. Fulcro dell’incontro sono state due inchieste di Altraeconomia che hanno reso evidente come anche l’Italia abbia delle responsabilità nelle situazioni vissute dai tre testimoni e da tanti altri che non si sono salvati o sono ancora sotto le bombe: «Non parliamo di numeri, ma dei nostri cari, ognuno con un nome, una vita, un sogno». A spezzare alcuni di quei sogni potrebbe essere stato anche un ordigno realizzato grazie a materiali inviati dall’Italia. La prima delle due inchieste mostra che il nostro Paese ha inviato a Israele materiali chiave per la fabbricazione di esplosivi e armi nucleari. Si tratta di materiali a doppio uso, militare e civile, come nitrato di ammonio, cordoni detonanti e trizio. L’Italia sarebbe diventata uno dei principali esportatori verso Israele. Per fare un esempio, avrebbe esportato quasi 6mila tonnellate di nitrato di ammonio solo tra novembre 2023 e marzo 2025, usato sì come fertilizzante, ma anche per le miscele di esplosivi. E ancora, sono aumentate le esportazioni di trizio, un isotopo radioattivo impiegabile nel campo medico, ma anche nella produzione di armi termonucleari. La mole di esportazione di questi materiali, secondo quanto ricostruisce l’inchiesta, non sarebbe giustificabile se non per il loro utilizzo a fini bellici. L’Italia avrebbe anche beneficiato delle sospensioni decise da altri Paesi come Spagna e Turchia, rimpiazzandoli di fatto nelle forniture a Israele di cordoni detonanti, inviando circa 140 tonnellate di questi componenti chiave per innescare esplosivi. Se da una parte queste ipotesi mostrano tutti i limiti della legge 185/90, che regola in modo stringente le esportazioni militari, ma non vieta esplicitamente l’esportazione di materiali “dual use”, dall’altra la seconda inchiesta accende i riflettori su una triangolazione che avrebbe permesso di aggirare la legge. Come è noto, dal 7 ottobre 2023 l’Uama, ente preposto a concedere i permessi, ha sospeso il rilascio di nuove licenze verso Israele. E qui, secondo la procura di Ravenna, nascerebbe la triangolazione tra un committente israeliano, due società che producono e un’azienda che figura come quella che spedisce. Il caso oggetto di indagine risale al 4 febbraio scorso, quando l’Agenzia delle Dogane al porto di Ravenna ha fermato un cantainer con oltre 13 tonnellate di lavorati metallici, destinato alla compagnia israeliana Israel Military Industries Ltd, con una commessa che era intestata alla Valforge Srl, azienda del Lecchese che produce componenti meccaniche per usi civili. Dai documenti emergerebbe però che i pezzi sarebbero stati realizzati in realtà da due aziende lombarde, la Stamperia Mazzetti Srl e la Riganti Spa, entrambe attive nel comparto militare e regolarmente registrate presso il ministero della Difesa per operare nel settore dell’armamento. Gli inquirenti ipotizzano dunque che sia stata “usata” un’azienda non soggetta ai controlli dell’Uama proprio per evitare i controlli.
L’inchiesta ha ricostruito almeno altre quattro spedizioni simili di Valforge verso Israele. Il timore è dunque che il caso di Ravenna sia solo la punta di un icerberg con una modalità assodata. Una questione «che merita sicuramente una risposta del governo», hanno commentato i parlamentari di Avs presenti al convegno: oltre Magni, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni.