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 2025  luglio 08 Martedì calendario

Intervista a Berengo Gardin

Maestro Berengo Gardin, a ottobre saranno 95.
«La vecchiaia fa schifo».
La spaventa?
«No, di morire non me ne frega niente. Ma perdere i miei appunti, gli oggetti comprati in ogni parte del mondo, le foto e le migliaia di libri, mi seccherebbe eccome».
Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930.
«Per caso. Mio padre era andato a lavorare lì e un giorno trovò sulla spiaggia un sacchetto con gioielli. Andò nell’albergo vicino per restituirli e chiese della direttrice».
Sua madre.
«Colpo di fulmine. Io sono nato in Liguria, cresciuto tra Roma e Venezia, folgorato da Parigi e da tempo milanese».
Ricordi della guerra a Roma?
«Conservo ancora la tessera annonaria, mangiare era un lusso».
Un ricordo preciso?
«Mi promossero a scuola e per regalo chiesi a mia madre un panino al prosciutto. Ricordo ancora oggi il sapore».
Era dura?
«Una volta i partigiani assaltarono un carico di farina a San Lorenzo, ci precipitammo per saccheggiare il bottino. Vedemmo passare dei treni carichi di persone: lanciavano bigliettini, non capivamo che cosa stava succedendo».
Le retate degli ebrei?
«A scuola avevo due amici, Romolo e Remo, gemelli che più romani di così non si può. Ma un giorno scomparvero. Gli insegnanti facevano i vaghi, noi giovani non potevamo sapere che erano ebrei».
Lei fotografava già allora?
«No, ma quando arrivarono i tedeschi tra le cose che requisirono c’erano anche le macchine fotografiche. Io feci in tempo a fotografare i cartelli minacciosi affissi in città. Poi consegnammo la macchina. Ce la restituì la questura dopo la guerra».
Bravo a scuola?
«Dimenticavo tutto. Facevo fatica e mio padre mi disse: “Allora vai a lavorare”. Partii emigrante per la Svizzera. Lugano, mi presero come bagnino nel lago. Ma non sapevo nuotare, così quando ci fu da soccorrere una donna aggredita da un cigno io corsi a nascondermi in cabina. Alla fine mi spedirono a portare gli ordini in cucina».
E niente foto.
«Dopo aver fatto il cameriere, il raccoglitore di mele e il finto bagnino, finalmente Parigi. Lavoravo in un hotel dalle sei a mezzogiorno e così avevo tutta la giornata per esplorare la città. Fu lì che diventai fotografo. Conobbi Doisneau, ma anche Jean-Paul Sartre: era fissato con i western, ne vedeva uno alla settimana».
Ad oggi quanti negativi ha raccolto?
«Due milioni».
Le sue foto sono asciutte, realistiche, nitide.
«Infatti quando una volta in tv Mauro Corona disse che gli piaccio io come fotografo perché sono “un poeta”, mi misi a ridere. Corona mi sta simpatico, ma io sono tutt’altro».
E l’altro Corona, Fabrizio?
«Stiamo parlando di fotografi, no? Che c’entra lui?».
Oliviero Toscani.
«Convegno a Gorizia, lui sul palco e io in platea. Ad un certo punto lui sbottò: “Mica sono come quel fotografo di piccioni di Venezia”. Mi alzai e esclamai: “Ecco il fotografo di piccioni, signori sono io”».
Ma poi vi siete chiariti?
«Anni dopo Oliviero mi disse che non voleva offendermi e che mi apprezzava».
Ugo Mulas.
«Se gli dicevi che una sua foto era “bella” minacciava di toglierti il saluto. Voleva che si dicesse che era “buona”».
Che cosa è per lei una «foto buona»?
«Non una foto artistica o retorica, ma un racconto. Di vita, di persone, di situazione sociale. Per me fotografare vuol dire raccontare».
Mario Dondero.
«Amavo il suo giubbotto di pelle, in stile aviazione americana, che lui sosteneva fosse appartenuto a Robert Capa. Me ne procurai uno uguale da un amico pilota Alitalia».
La celebre foto di Capa, quella del soldato ucciso, è vera?
«Secondo me sì».
Ferdinando Scianna.
«Uno dei miei più cari amici, fu grazie a lui che conobbi il più grande di tutti, Cartier-Bresson».
Lei è stato quello che ha fatto conoscere il fenomeno delle grandi navi a Venezia.
«Da veneziano adottivo non sopportavo le navi da crociera nel Canale della Giudecca. Scattai una serie di foto che poi sarebbero dovute andare in mostra a Palazzo Ducale. Ma il sindaco Brugnaro bloccò tutto e sul Gazzettino, riferendosi al mio doppio cognome, tuonò: “Questi nobili che si mettono a fare i socialisti”. Ma quali radici nobili, io sono comunista da una vita!».
Però la mostra si fece in piazza San Marco.
«Grazie al Fai. E la notizia rimbalzò in tutto il mondo».
Vota ancora comunista?
«Voto Pd, anche se non sono entusiasta. Ma vado a votare, astenersi vuol dire lasciare spazio a tutto il resto».
La differenza tra un dilettante e un vero fotografo?
«Il dilettante ha una passione quasi feticistica per le apparecchiature, che per un vero fotografo sono solo strumenti. Infatti un giorno, per dimostrare a me stesso che mi stavo allontanando da questa ossessione, orinai su un costoso teleobiettivo».
Il vero fotografo scatta poco?
«Cartier-Bresson diceva: massimo tre scatti per soggetto. Ecco perché fotografare in digitale non è fotografare, in quanto fai milioni di scatti senza pensare».
«Morire di classe» è uno dei suoi lavori più famosi, le foto nei manicomi prima della riforma Basaglia.
«Insieme a Carla Cerati partimmo per Gorizia. Non volevamo ferire i malati, volevamo documentare. Rimanemmo sconvolti, così come ci colpì la situazione di altri manicomi in Italia. A Firenze, quando andammo a prendere il treno per tornare a Milano, sbagliammo e finimmo a Roma. Tanto eravamo scioccati».
Il personaggio fotografato che di più l’ha delusa?
«Fellini. Per me era un mito, ma mi ricevette in un freddo ufficio, volle farsi fotografare dal lato migliore e fece diverse telefonate sbrigative».
Donne?
«Oriana Fallaci. Per tre volte le chiesi di farsi ritrarre e per tre volte mi disse di no. Poi un giorno cedette. Che fatica».
Com’è la sua giornata?
«Mi devono svegliare alle 8 perché vado a letto tardi. Cappuccino, brioche e giornali. Pranzo e cena leggeri, ma ogni santa sera mangio una Coppa del nonno. Se state ridendo, sappiate che fino a qualche tempo fa era peggio: divoravo chili di cioccolato».
Un desiderio, oggi?
«Non voglio funerali».
Me la farebbe una foto?
«Con il telefonino?».
Sì...
«E come diamine si fa?».