repubblica.it, 8 luglio 2025
Intervista a Luca Barbareschi
Per Luca Barbareschi lo stato d’animo non è dei migliori. Forse anche per questo l’attore e regista è incline ai bilanci: 50 anni di carriera e 70 di vita, l’anno prossimo. Che momento è per lei? «Pieno di lavoro. Quest’anno, tra Ballando con le stelle, i film, le produzioni delle fiction, il tentativo di tenere in piedi l’Eliseo e anche alcune questioni di salute, è stato faticoso. Ho avuto quattro fratture alla spina dorsale e mi sono dovuto fare una protesi al ginocchio».
Soffriva già alla schiena o è stato un incidente improvviso?
«Sono caduto in moto. Io sono un motociclista appassionato. Ho dovuto rifare la protesi a un ginocchio che avevo usurato da giovane a forza di sport, quattro settimane fa. Non lo auguro a nessuno, è un dolore terribile».
Sarà al cinema da regista il 24 luglio con “Paradiso in vendita”, a teatro con “November”. Cosa significa, per un artista, questa immersione nel dolore, nella fragilità del corpo?
«Significa riflessione, tempo per pensare, maggiore solitudine. Perché nei momenti di fatica, quando stai male, ti rendi conto di quanta gente hai aiutato. Io, da quarant’anni, offro lavoro a tutti: ho prodotto una media di due film all’anno, due-tre fiction, migliaia di persone. Ma la gente si fa viva solo quando le offri qualcosa da fare. Li ho abituati male: non pensano che tu possa avere bisogno. Nemmeno le figlie: non “ciao papà, come stai?”, ma “quanto mi dai?” o “cosa mi fai fare?».
Tutto questo la porta a fare un bilancio?
«Con questo 2025 sono più di cinquant’anni di carriera, e l’anno prossimo compio settant’anni. Penso a molte cose. Alla fatica, a quanto sono stato discriminato in questo paese. Tanto. Che io faccia C’eravamo tanto amati, o i cinque film di Polanski che ho prodotto, i documentari, i film di Brizzi, di Resinaro, di Pompucci, metto sempre lo stesso affetto. Non sono uno snob, non ho mai usato la politica. Non faccio parte della politica, è chiaro: se no mi vedreste pieno di cariche. Sono scomodo perché sono una persona onesta e indipendente. I colleghi, che spesso sono rosiconi, mi hanno usato tutti per fare i film: da Sergio Castellitto a Sergio Rubini. Ma quando ho avuto difficoltà, mai una telefonata di conforto».
Non si sente uno splendido settantenne?
«Sì, ma io non misuro la mia carriera con il successo o i soldi. La misuro con l’amicizia e l’affetto».
In “November”, la pièce di Mamet che porta a teatro, c’è una battuta in cui lei, che interpreta un presidente americano, dice: “Cosa c’è di me che non piace alla gente?”.
«Quel presidente potrebbe essere sia Trump che Biden: è un mondo di politica infantile. Come bambini, vogliono tutti i giocattoli, li rompono, li lanciano contro il muro, poi dicono: “Perché siete tutti arrabbiati? Cosa ho fatto di male?”. E l’altro risponde: “Hai trasformato questo Paese in uno sfacelo”. Ecco, questa scena è stata scritta ventisei anni fa. È straordinario. Come quando ho fatto Oleanna, sul politicamente corretto, era il 1990. Mamet vedeva le cose prima».
E lei, si è posto quella domanda, cosa c’è in me che non piace alla gente?
«Credo di saperlo. Sono profondamente ebreo. E noi ebrei abbiamo un modo di pensare che è, per natura, divisivo. Nell’ermeneutica, a una domanda intelligente devi rispondere con un’altra domanda, per non offendere l’intelligenza dell’interlocutore con una risposta troppo semplice. Ogni parola della Torah, con il Talmud, dice una cosa e subito l’opposto. Sei costretto a non accontentarti della semplificazione. Non è Milan o Inter. Tu, di default, dici: il Chievo? E stai subito sulle scatole».
La sua carriera lunga cinquant’anni: qual è il momento che considera l’inizio?
«Avevo 18 anni, facevo l’Enrico V con Puecher, leggevo la musica. Mi disse: se mi raggiungi a Chicago facciamo I racconti di Hoffmann con Placido Domingo. Vendetti la Vespa. Due sere dopo ero a cena con Saul Bellow, David Mamet, Puecher, Domingo. Catapultato in un mondo straordinario».
Il momento più importante?
«Forse l’anno dopo. Facevo interviste per la Rai, per mantenermi. Andai a trovare Steven Spielberg, stava montando Incontri ravvicinati del terzo tipo a casa. Avevo 19 anni, lui 29. Gli chiesi: “Come faccio a diventare come te?”. Mi disse: “Tu sei come me. Devi solo decidere quando diventare ciò che pensi di poter essere. Sei intelligente. Vuoi fare un film? Prendi carta e macchina da scrivere. Scrivilo”. Così scrissi Summertime, in cui un ragazzo a New York va in cerca di una ragazza di cui innamorarsi e passa la notte abbracciato a una trans. Vinse a Sydney, a Londra, Annecy. Da lì è iniziato tutto».
I film d’attore che ricorda con più orgoglio, e quelli da dimenticare.
«La mia è stata una carriera zigzagante. Ho sempre cercato ciò che mi insegnasse qualcosa. Certo, Via Montenapoleone e Bye bye baby, Oldoini e Vanzina, sono diversi da Magni e Risi, o da Nel nome del popolo sovrano, Teresa, Mamet, Polanski. Film importanti per me sono Romance, con Walter Chiari e Mazzucco, Summertime e The penitent, anche quello uscito a maggio e distrutto in Italia. Come succederà a Paradiso in vendita, che esce il 24 luglio dopo due anni di lavoro».
L’idea del film?
«È una metafora politica su come l’Italia si sia svenduta alla massoneria francese, che si è comprata il mondo a pezzi. Volevo raccontare una storia in cui un gruppo di isolani si rifiuta di vendersi. Ed è anche una storia d’amore: c’è un francese potentissimo che arriva sotto mentite spoglie, seduce un’isolana… Ma l’isola deve salvarsi, resistere. Secondo me è anche un film che ti fa stare bene, ti fa sorridere. C’è qualcosa di divertente, anche per chi guarda. Poi certo, qualcuno mi ha detto che è il film più brutto della storia del cinema. E parliamo anche di uno che produce film».
Qual è stato il set più avventuroso che ha vissuto? Quello che ricorda come il più folle?
«Sicuramente il più folle è stato The Palace. C’erano tutte le star, John Cleese dei Monty Python, Mickey Rourke che distruggeva la stanza, Fanny Ardant, straordinaria ma dal carattere non facile. E poi Polanski, che ha novant’anni. Non è stato semplice».
E in passato?
«Summertime. Ho attraversato New York legato al tetto di una macchina con la cinepresa, con Charles Rose e Massimo Mazzucco, per fare delle riprese notturne. Rischiavamo di essere arrestati. E siamo entrati a Disneyland con una macchina da presa su cui avevamo scritto Super8, anche se era evidente che fosse una 35mm, per fingerci turisti».
L’attore più bravo con cui si è confrontato o che ha diretto?
«Tanti. Sergio Castellitto è un buon attore, Sergio Rubini. Walter Chiari, che era il più ingestibile in assoluto: faceva dei “take” che duravano venti minuti. Parlava d’altro, poi ricominciava, gli venivano in mente cose. Sordi, Manfredi… In Nel nome del popolo sovrano erano molto bravi, ma meno amabili. Direi più aridi e non generosi con la nuova generazione. Molto egoriferiti. Manfredi voleva avere sempre l’ultima battuta. Era scritto nel contratto. Gli dissi: “Nino, ma se la scena finisce qui?” E lui: “Beh, allora la scena è sbagliata”. Portai anche Mamet a trovarlo, voleva proporgli delle cose. Ma Nino gli disse: “O lavori con tutta la mia famiglia o io con te non lavoro”. E Mamet: “What’s wrong with this guy?”. Sordi era simpatico, un grande attore, ma delle nuove generazioni non gliene fregava nulla. Non era curioso. Io invece, a settant’anni, sono curioso dei ventenni. Ho sempre dato opportunità a tutti. Di recente mi ha chiamato Valsecchi perché c’era un ragazzo a cui era morto il padre. L’ho preso per November. Mi ha aiutato molto, il suo entusiasmo era contagioso».
Tra le attrici?
«La coprotagonista di The penitent, Catherine McCormack. Elena Sofia Ricci, con cui ho fatto cinque film, molto simpatica. Meno attrice ma molto simpatica Serena Grandi: abbiamo fatto insieme Teresa. Ero molto giovane e pazzo di lei. Le facevo una corte terribile. Forse è successo qualcosa tra noi, ma non ricordo. E poi Chiara Noschese, una fuoriclasse. È incredibile che non diriga un teatro».
Com’è stato essere diretto da lei in “November”?
«Tra noi c’è un affiatamento jazz. All’inizio era un po’ impaurita da Mamet. Le ho detto: fallo tu, io devo stare in scena due ore, parlare senza sosta, è troppo faticoso. Ha fatto sia l’attrice che la regista. Ha funzionato, perché io e Chiara piangiamo per le stesse cose».
Che regalo si farebbe per i settant’anni?
«Vorrei la salute. Perché senza quella non funziona nulla. E poter continuare a suonare. Studio pianoforte, direzione d’orchestra, musica, da dieci anni. Non dirigerò mai ma tengo allenata la testa, per restare lucido e performante. Sono molto contento di Il Talmud per tutti, il podcast Rai che ha avuto un grande successo. Credo che la funzione di un uomo sia crescere i suoi figli e sé stesso, non invecchiare inutilmente».
Luigi Comencini diceva: “Prima la vita”. Lei?
«Concordo. L’arte è un’espressione della vita. Quando hai tante cose belle nella vita, puoi esprimerti. Picasso era un uomo straordinario nella vita, nell’intelligenza, nella coerenza morale, nella passione per i figli e per la donna che amava. Poi certo, si fanno errori. Ma da lì nasce un linguaggio. Può essere musica, pittura, scrittura, cucina. Ma se uno è arido dentro, lo vedi anche nelle opere. Io vedo cinismo in certi artisti famosi. E mi interessano meno».
Chi la fa ridere?
«Checco Zalone. È riuscito a fare film del tutto politicamente scorretti, dire ai lavativi italiani con il posto fisso che sono coglioni e farli ridere, portandoli al cinema. Un genio assoluto. Ha inventato una maschera. Quando l’ho portato a Parigi con Polanski, volevo che fosse nel film The palace. Luca non parla inglese, ma si fa capire. A un certo punto dice: “Che ci faccio nel tuo film? Io sono Checco Zalone. Checco è come Pulcinella, Arlecchino, è una maschera. Non posso entrare nel 1999, perché non c’era. Rovinerei il film”. Abbiamo foto bellissime a Parigi. Poi, al momento del commiato, guarda Polanski e fa: “Molestie a parte, sono anch’io un bravo regista”. Io rabbrividisco e traduco una frase diversa ma Roman mangia la foglia, Luca sbianca, Roman lo guarda negli occhi e gli dice: “You are a great guy”».
Che parte avevate pensato per lui?
«Una specie di cameriere goffo, che girava come Peter Sellers in mezzo a miliardari, sbagliando tutto. Poi il personaggio è stato cancellato e fuso con altri: una parte è andata a Fortunato Cerlino, che faceva il portiere, un’altra all’attore tedesco con gli occhialini, quello che truffa Mickey Rourke. Ma l’idea era bellissima».
Lei con chi vorrebbe lavorare, da attore?
«Solo con registi che amano gli attori, come Paolo Virzì e Sergio Rubini. E tanti registi internazionali, ma ormai è tardi, sono vecchio».
Con Polanski state ancora parlando di un progetto futuro?
«Lui ormai è molto stanco, ha 93 anni. Ci sentiamo ogni domenica. Io avevo un’idea: era una specie di “taglio di fontana” di Polanski, l’ultimo segno. Un film di quaranta minuti. Ma uno statement importante, perché Roman è stato l’uomo più geniale, affettuoso, gentile, corretto che abbia mai conosciuto. E a cui hanno distrutto la vita. Quegli stronzi di francesi, a cui lui ha dato tanto, gli hanno fatto i picchetti davanti alle sale, per non far entrare la gente a The palace e J’accuse. Imperdonabile».
Un provino tragicomico?
«Quello che non sono mai riuscito a fare in America, con Ron Howard. Mi dava gli appuntamenti e poi non c’era mai. Arrivavo e mi dicevano: “Ron purtroppo è dovuto partire”. Un’altra volta: “Ron è sul set”. L’ultima volta finalmente si presenta, e io gli dico: “Mi dispiace, ma non posso fare il suo film”. Era Angeli e demoni. E lui: “Perché?’”. Io: mi candido alle elezioni e cambierò il Paese. Mi guarda e dice: “Sei pazzo, non farlo, butterai via cinque anni della tua vita”. Chiama Clint Eastwood davanti a me, prima di passarmelo gli dice “Clint, ti prego, convinci questo ragazzo di talento a non buttare via cinque anni in politica, raccontagli com’è stata la tua esperienza”. E Clint, che è stato sindaco di Carmel, mi dice: “Luca, it’s a disaster. You are gonna waste your time”. Ron mi dice: “Sei perfetto per la parte”. E io: “Ormai sono al servizio dello Stato”».
Lei dice di essere stato il primo a portare l’informatica in Italia.
«Ho fatto una società che gestiva i siti di Vaticano, Enel, Eni, il gruppo Testa, il gruppo Berlusconi, tutto. Ero amministratore delegato del più grande gruppo informatico italiano, che avevo fondato nell’89. E mentre gestivo tutto, uscì una mia foto completamente nudo su Repubblica. Ero affetto da narcisismo, anche per colpa di Lucrezia (Lante della Rovere, ndr), che amavo molto e mi diceva “sei bellissimo nudo”. Era una provocazione. Solo che ero amministratore delegato di un gruppo con 70 dipendenti, e la mattina dopo mi chiama Navarro Valls: “Ma l’ho vista in vestito adamitico…”».
Come reagì?
«Mentendo: “È una vecchia foto”. Ma era come parlare con la Cia. Allora mi dice: “Le spiace se la faccio chiamare da una delle suore Paoline?”. Dopo tre secondi, mi chiama la superiora: “Buongiorno, ha mai visto il Vaticano all’alba? La Cappella Sistina?”. Rispondo di no, e lei mi convoca per il mattino dopo alle cinque. Mi fa visitare la Cappella Sistina deserta, mi racconta cose affascinanti e trasgressive, Michelangelo, i papi, i cardinali. Poi mi accompagna all’uscita e le chiedo: “Ma non mi doveva dire qualcosa sulla foto uscita su un quotidiano?”. Lei mi guarda e dice: “Lei è un uomo intelligente. Le ho spiegato: si può fare tutto. Ma dobbiamo proprio dirlo ai giornali?”».
Quanto tempo ha vissuto in America?
«Stabilmente dai 18 ai 23 anni, poi ho fatto la spola fino alla nascita dei miei ultimi due figli. Avevo casa a New York, ma andavo spesso a Los Angeles. A un certo punto ho capito che stavo invecchiando. Per montare un progetto, devi stare lì fisicamente. Devi fare il salto, come ha fatto Dino De Laurentiis. Io non potevo fare tre vite contemporaneamente».
Dove immagina di festeggiare i settant’anni?
«A Filicudi o a New York. Forse in tutti e due i posti: d’estate a Filicudi e poi d’inverno a New York. È lì che sono cresciuto, mi sono formato. Ho visto il più bel teatro, ho studiato, sono entrato all’Actors Studio a diciannove anni con Strasberg. I miei insegnanti erano Eli Wallach, Shelley Winters, Ellen Burstyn, Frank Corsaro. Quando preparavo le scene, ero seduto accanto a De Niro, Al Pacino, Christopher Walken e tanti altri».
L’errore più grande, qualcuno a cui vorrebbe chiedere scusa?
«Ne ho fatti tanti, soprattutto da giovane. A volte, per arroganza, per intelligenza, per velocità, sono stato spietato. Se devo chiedere scusa, devo farlo con tutti i miei figli. Perché c’è stato un momento della mia vita… Io sono nato povero, vivevo al quartiere Comasina, a Milano. Tornato dall’Uruguay, non avevo soldi. Mio padre, quando gli dissi che volevo fare l’attore, mi disse: “Buona fortuna, ciao”. Ho dovuto mantenermi da solo. Ero sempre in partenza. Ho dedicato tanto tempo a me stesso e poco ai figli, soprattutto ai primi tre».
Vorrebbe festeggiare con tutti e sei i suoi figli?
«Sì, ma soprattutto vorrei festeggiare con Angelica: la più geniale, la più simile a me. Che mi odia, mi manda strali di morte. Se sapesse quanto la amo… Io voglio che lei sia felice, ma che si mantenga. Perché a trent’anni bisogna mantenersi. Ognuno è l’artefice della propria vita».