La Stampa, 8 luglio 2025
Francesco Bianconi: "Sono un antidemocratico non c’è altro modo di far funzionare una band"
Francesco Bianconi ha 52 anni ma dice già «sono un cinquantatreenne» quando parla di sé. Vive nel futuro, ha la moda del lento. «Punto all’eternità piuttosto che alla rapina», dice, poi ride.
Da 25 anni è la voce, il frontman, il paroliere dei Baustelle, la band indie rock che esordì nel 2000 lasciando tutti di stucco e aprendo un varco nel rock alternativo che si muoveva nel solco degli Afterhours e che, pochi anni dopo, si sarebbe in larga parte spostato verso il pop. Loro no. I Baustelle sono rimasti i Baustelle, il duo Bianconi più Rachele Bastrenghi, cantautrice geniale, i provinciali elegiaci autori di concept album, immuni ai featuring, al rap, a Sanremo, al «fuori ovunque».
Quest’anno, in primavera, hanno pubblicato il loro ultimo disco, El Galactico, che parla della fine dell’orizzonte, e riprende il suono del folk californiano degli anni Sessanta. A fine anno, festeggeranno i 25 anni di carriera con due concerti a Roma e Milano, ed è la prima volta si concedono un anniversario.
È tempo di bilanci?
«Come sempre, come ogni giorno. Tutto quello che scrivo e compongo è sempre una riflessione su chi sono, inserito in un dato tempo e momento della mia esistenza, quindi mi richiede un bilancio continuo».
C’è mai un bilancio negativo?
«Certo. Sempre. Ed è per questo che mi somministro il veleno dell’autocritica a piccole dosi, giorno per giorno».
In 25 anni, non ha mai litigato con Rachele?
«Certo che sì, nelle band si litiga moltissimo. E io non sono bravo a chiedere scusa, neanche quando ho torto».
E quando ha torto?
«A volte eccedo nel fare il direttore dei lavori: sono prepotente, e mi è successo di voler imporre una mia idea anche quando non era la migliore».
Non è prepotente, è maschio.
«No, credo di essere semplicemente antidemocratico. Non c’entra l’essere maschio, e ci tengo a ribadirlo, perché in una band la democrazia non funziona, c’è un insieme di egocentrismi che non reggerebbero al tempo, e c’è sempre bisogno che qualcuno li tenga insieme con una dose massiccia di dirigismo».
Qual è il più grande talento di Rachele, a parte sopportarla?
«È sincera. Nel nostro lavoro è fondamentale».
Lei è insincero?
«No, ma di strati ne indosso parecchi».
Come ha fatto a non finire mai travolto da una polemica?
«Le possibilità di inciampare in incidenti di quel tipo sono direttamente proporzionali al livello di libertà e di non regolamentazione del tuo comportamento. Io ho un codice, che definirei senza problemi “morale”, che mi impone delle regole di auto contenimento dell’espressione. Chi decide di non averne, perché crede che stare sui social significhi poter dire tutto, allora deve accettare che prima o poi dirà qualcosa che verrà frainteso o che sarà sbagliato. Mi sembra più grave eccedere in esposizione che in suscettibilità, almeno visto dalla mia parte, che è quella di chi è esposto».
Niente shitstorm, scissioni, insuccessi: 25 anni senza problemi, voi Baustelle?
«Diciamo che gli diamo il peso che hanno: poco. Vedo che si porta molto l’ostensione del problema, più che il problema, e questo ha completamente sballato la capacità di misurarne l’entità. Sono un accanito lettore e noto che in letteratura, da anni, c’è una ossessione per il racconto del dolore e del trauma, che però sono sempre generati da cose non dico minime ma normali, ostacoli della vita di tutti. Sarà che sono un ragazzo di campagna ma non riesco a non sorridere quando leggo la messinscena di traumi e guai in un romanzo contemporaneo, soprattutto se poi la paragono a quella di un romanzo di Faulkner. E mi dispiace molto che questa esagerata drammatizzazione sia vincente».
Non mi dica che siamo diventati mollaccioni, la prego.
«Ma no. Viviamo un momento di smarrimento tale che funzionano meglio le cose che ci fanno riconoscere, quelle che ci fanno dire “è successo anche a me": i piccoli traumi sono successi a tutti, tutti abbiamo litigato con mamma e papà, tutti siamo stati presi in giro a scuola, tutti siamo stati abbandonati. Sono i traumi piccoli di chi vive nella parte privilegiata del mondo. E li raccontiamo perché sappiamo che siamo tutti così senza direzione che preferiamo sentirci uguali che essere diversi. Lo vedo anche nelle canzoni: la gente vuole cerca espressamente quello che è uguale a un’altra cosa»
Però la gente cerca anche le canzoni dei Baustelle.
«È la ragione per la quale, quando ci hanno proposto di festeggiare i nostri 25 anni, abbiamo pensato che forse aveva un senso: volevamo ribadire che intorno a noi s’è radunata gente magnifica, che ha riconosciuto che esiste anche un altro modo di fare musica e stare in questo mondo. Noi abbiamo un pubblico fantastico, che si riconosce in noi perché noi non lo tradiamo, e nel quale noi ci riconosciamo».
E com’è quel pubblico visto dal palco del vostro tour in corso (stasera sarete a Collegno, al Summer Live)?
«I corpi che vengono ai concerti dei Baustelle non sono mai una massa: continuo a vederli con i loro caratteri ben disegnati. E questa è una delle più grandi soddisfazioni che ho. Ci credo ancora: il pubblico te lo crei e ti può somigliare, e può essere il pubblico che vuoi se lo costruisci e lo educhi. Il corpo del pubblico di massa, invece, è smaterializzato e per questo non mi interessa».
Cos’è la coerenza?
«Non significa dire o fare sempre la stessa cosa nello stesso modo, bensì fare e dire per un motivo che non cambia».
E qual è quel motivo?
«Nel mio caso, nel nostro caso, dare al pubblico ciò che non trova altrove e che vorrebbero che qualcuno gli dicesse. Io ero così da piccolo. Mi piacevano gli Smiths perché nei loro testi trovavo una estensione di quello che scrivevano i poeti che a scuola non facevamo mai in tempo a studiare, come Gozzano, e che però mi andavo a cercare e mi studiavo da solo. Ecco, credo che nelle canzoni dei Baustelle si trovi una curiosità simile, un desiderio come quello».
Avete un pubblico di secchioni.
«Di intenditori. Palati esigenti. Ma io so anche che se fai canzoni non facili, arrivi anche alle persone meno esigenti, che riconoscono a un certo punto qualcosa che non hanno mai ascoltato: credo nel potere dell’originalità, e nel fatto che la canzone popolare, fatta bene, è il suo mezzo più potente».
Cosa pensa degli artisti che hanno ritirato i loro dischi da Spotify quando è venuto fuori che il ceo ha investito 600 milioni di euro in una startup che produce armi?
«Sono contro la guerra e quindi mi sembra corretto. Tuttavia, le nostre banche e moltissime multinazionali di cui compriamo i prodotti finanziano il traffico d’armi. Ho letto con interesse la lettera che Brian Eno ha scritto a Microsoft per “dimettersi” e mi è sembrata perfetta. Però mi chiedo: dove eravamo dieci anni fa? Tutti, e mi ci metto anche io, avremmo dovuto opporci allora, quando già sapevamo che in quella company c’era dell’oscuro, e le guerre c’erano anche dieci anni fa. Invece, fintanto che ci abbiamo guadagnato, siamo rimasti tutti zitti».
Forse è diventata impossibile la protesta.
«Lo penso anche io. Perché è diventata un fatto di propaganda. E poi perché la fanno spesso degli improvvisati poco informati. Ma per protestare ci vogliono i coglioni, non basta la voglia di comunicare. Il mondo crollerà su se stesso per colpa della voglia inusitata di libertà e di comunicazione che abbiamo».
Cos’è una cosa viscerale?
«Una cosa detta scritta o comunicata in una maniera che assomiglia a quel concetto che noi conosciamo come verità. Quindi è ciò che non esiste. È viscerale uno stile. Viscerale è un aggettivo che stilisticamente indica qualcosa che sembra venire dal di dentro senza troppi filtri. Non so, non mi convince. Tutte le viscere che ci sono nelle mie canzoni o dei Baustelle sono sempre un atto intellettuale: non esistono le viscere vere, mai. A me piacciono le cose pensate, costruite. L’arte è così, è un filtro, non è la viscera diretta».
Una volta ho letto un articolo che diceva che i Baustelle sono viscerali.
«Accidenti. Sulla mia lapide accetto tutto meno che la parola “viscerale"».