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 2025  luglio 08 Martedì calendario

"Nureyev mi consigliava il diadema per i capelli Ma era capace di prendere a schiaffi le colleghe"

Telefoni a Liliana Cosi, noti che la sua foto profilo su Whattsapp è un cigno bianco e ti trovi immersa in una potente atmosfera di simboli e richiami spirituali: «Ma lo sa che giorno è oggi? Precisamente sessant’anni fa debuttavo al Bolscioj nel Lago dei Cigni. Ha fatto bene a chiamarmi». La signora è un caso unico nel mondo della danza internazionale. Cresciuta alla Scala di cui poi diventerà étoile, perfezionatasi alla scuola russa in piena guerra fredda, partner amatissima di Rudolf Nureyev, è una fervente cristiana convinta che Gesù s’incontra in ogni essere umano e che il suo esempio possa essere seguito anche danzando sulle punte, «per regalare al mondo bellezza». Ma Cosi è stata anche la prima e la sola a licenziarsi dalla Scala, per inseguire un suo sogno. Domani le consegnano a L’Aquila il premio alla carriera “Cento passi”.
E i primi di quei cento, che poi sono stati forse cento milioni?
«Sulle piastrelle di casa, in via Vanvitelli a Milano. Avevo otto anni e per la prima volta mi ero messa le punte. Siccome alla fine mi hanno chiesto il bis, i miei si sono convinti a farmi fare il provino alla scuola della Scala. Su 350 ci hanno scelte in una ventina, e alla fine ci siamo diplomate in cinque».
Anni di ferro.
«Ma se fosse stato tutto quel sacrificio mica ci sarei rimasta. A me piaceva, piaceva moltissimo. Però crescendo mi sentivo come divisa a metà: quando ballavo ero felice, completa, e in Chiesa, io che non venivo da una famiglia di credenti, trovavo pace. Ma fuori facevo fatica a legare con gli altri. C’era un ragazzo che mi faceva la corte, ogni tanto pensavo che sarebbe stata quella la mia strada, una famiglia e dei bambini, ma poi me ne stavo per conto mio. Mi chiamavano la superba. No che non lo ero. Ma distaccata, certamente sì. Pensavo a quella frase di San Paolo, “la divisa del cristiano è la gioia”, e mi ci sentivo così lontana. La lettura di Santa Caterina, del “Dialogo della Divina Provvidenza”, mi ha aperto una prospettiva diversa: Dio aveva scelto una persona umana e parlava con lei. Poi è arrivata la Russia».
Quella atea degli Anni Sessanta. E lei che aveva appena trovato Dio, un bel paradosso.
«Il diavolo e l’acqua santa, proprio. Arrivo su segnalazione della mia insegnante alla Scala, Esmée Bulnes, per un programma di scambio culturale. Da ballerina di fila mi trasformano in prima ballerina, mi assegnano il Lago che del repertorio è il top. Imparo il russo in un attimo, mi sento a casa. Sono “la milanesina del Cremlino”, e lei non sa che dolore provo, oggi, quando al telegiornale vedo che al Cremlino ci sta quello là, e penso al dramma dei russi e degli ucraini. Ma Putin non è la Russia. Prego ogni giorno per la conversione del patriarca Kirill, conosco anche un pope ortodosso convertito al cattolicesimo che si è rifiutato di schierarsi per la vittoria, di benedire le armi, come vuole Kirill. Ma torniamo a quei tempi lontani. Ogni giorno andavo a messa nella chiesina di San Luigi dei Francesi. Proprio vicino alla sede del KGB. Chissà quanto mi hanno spiata».
Già, non è che l’Urss fosse il paradiso.
«Io non ho conosciuto l’Urss, ma i russi. Gente naturalmente cristiana, spirituale, attenta al prossimo. Ti prendono in casa anche se hanno un letto solo da condividere. Ed è a Mosca che ho trovato una soluzione. Non riuscivo a capire come Gesù si conciliasse con la danza e con un mondo così difficile e pieno di invidie. Ma la mia insegnante mi ha portato al club degli artisti e mi ha citato una frase di Stanislavskij: “L’arte eleva lo spirito dell’uomo"».
E tutti i pezzi si sono ricomposti.
«Chi me li ha ricomposti davvero, però, è stata Chiara Lubich».
La fondatrice del movimento dei Focolari. Come l’ha conosciuta?
«Merito di un maglione che ho portato, in montagna, in una delle loro prime comunità, a mia sorella. È stata Chiara a convincermi che il mio mondo era la danza e che lì avrei potuto fare molto».
Arrivano i grandi successi, le Giselle, le Giuliette. Arrivano le leggende. Rudolf Nureyev?
«Prima di tutto un professionista eccellente. E poi, con me, sempre gentile. È stato lui a scegliere di danzare con me, di solito lo faceva con Carla Fracci che era più grande (classe 1936, la Cosi è del 1941). Andiamo alla Rai per registrare il pas de deux della Bella addormentata e mi consiglia quale diadema indossare nei capelli: questo ti sta meglio. Mai successo fra primi ballerini».
Eppure aveva una fama terribile.
«Ero a Trieste quando diede uno schiaffo a una ragazza che sul palco gli aveva inavvertitamente tolto spazio. Ma con me è stato sempre affettuoso. Evidentemente mi stimava, mi rispettava».
Maurice Béjart?
«Un genialaccio. Ho danzato lo Scherzo dalla sua Nona di Beethoven. Magnifico, ma non tutto nelle sue creazioni mi convinceva».
E poi Marinel Stefanescu, il danzatore e coreografo rumeno con cui ha aperto una fase diversa della carriera. Ha lasciato la Scala. Come mai?
«Sentivo che il balletto bisognava farlo conoscere a tutti, mi aveva impressionato quello che avevo visto in Russia, la gente del popolo che conosceva a memoria il Lago dei Cigni e arrivava in teatro con le scarpe di ricambio. Ci voleva una compagnia itinerante e ne parlai con Paolo Grassi che allora era sovrintendente alla Scala. Mi disse: “Non siamo pronti. Faccia lei, vedrà che l’aiuteranno”. Marinel intanto aveva lasciato Zurigo ed era venuto in Italia con sua moglie che era inglese. Ci siamo lanciati, ci siamo trasferiti a Reggio Emilia, prima con l’Ater e poi autonomamente. Abbiamo fondato una compagnia che andava dappertutto, da Trieste a Canicattì. Calendari da vertigine, anche 25 spettacoli al mese. Ma era necessario, è necessario, anche se in Italia la cultura incontra tante difficoltà. Un ragazzo non deve mica andare solo in birreria. La bellezza deve diffondersi».
Come vive, ora?
«Insegno tutti i giorni, qui a Reggio Emilia. E trovo sempre qualcosa di bello da fare. Una ragazza che ha cominciato da noi, e che poi ha trovato la propria strada altrove, ha girato un film su di me, l’ha comprato la Rai e spero si possa vedere a febbraio. Lei si chiama Camilla Ferranti e il titolo è “Antidiva”. Mi definirono così tanti anni fa su un giornale. Credo che ci avessero visto giusto».