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 2025  giugno 08 Domenica calendario

Il disastro dimenticato della Val di Stava

Borotalco. Dovete pensare al borotalco.

 

La fluorite raffinata al 97 per cento, che si produceva a Stava, era una polvere bianca. 

Chi non ne ha mai sentito parlare, sappia che i chimici la chiamano CaF2. Che è lo stesso elemento contenuto nei dentifrici al fluoro. Che serve per rendere più malleabili le plastiche, per la fabbricazione di vetri, lenti e ceramiche, per fondere le scorie dell’industria metallurgica. È una sostanza che non si trova in natura: ma questo, anche chi di queste cose non ha mai sentito parlare, lo capisce al volo.

Bisognava produrla, e lo si faceva sul posto. Le rocce estratte dal monte Prestavèl erano fatte passare attraverso tre frantoi, prima a secco, poi con l’aggiunta di acqua. Al primo frantoio, le rocce diventavano ghiaia. Al secondo frantoio, la ghiaia diventava sabbia. Al terzo frantoio, la sabbia diventava polvere. Solo a quel punto, si aggiungevano sostanze chimiche: dal brodo di acqua e polvere, emergeva la fluorite pura, circa 400 chili per tonnellata, che veniva filtrata e immagazzinata. Tutto il resto – un ammasso di sabbia, acqua e fango – non serviva più: veniva depositato in una discarica in località Pozzole, 400 metri più a valle. Ecco. È da quell’ammasso di sabbia, acqua e fango, che bisogna partire, per capire tutto.

«Nel 1961 la Montecatini aveva richiesto al Genio civile l’autorizzazione per una discarica alta 9 metri», spiega Michele Longo, della Fondazione Stava, che guida le visite guidate sui luoghi della catastrofe. «Nel 1985 i bacini erano due, uno sopra l’altro, per 60 metri complessivi, e 300 mila metri cubi di fango». Per non parlare del fatto che, già all’epoca, la buona prassi prevedeva di costruire le discariche minerarie in zone asciutte, piane, a valle dei centri abitati. Mentre le Pozzole – e già il toponimo lo dice – sono una zona acquitrinosa, in pendenza del 25 per cento, e proprio sopra case e alberghi. «Non è strano che sia venuto giù, è strano che non sia venuto giù prima».

Quarant’anni dopo, della tragedia che sconvolse il Trentino, quasi non rimane traccia. Oggi alle Pozzole c’è un prato grande come un campo da calcio: solo l’occhio attento nota che gli alberi in fondo sono più giovani, e di una tonalità di verde più chiaro rispetto a quelli intorno. Subito sotto, c’è un maneggio per cavalli. Tante seconde case. I tre alberghi distrutti nel 1985 – l’Erica, lo Stava e il Miramonti – sono stati ricostruiti e ora ne è nato un quarto.

Quarant’anni dopo, la Val di Fiemme aspetta le Olimpiadi. I Giochi ufficialmente si chiamano «Milano-Cortina», ma le gare di fondo e combinata nordica si terranno proprio a Tesero, quelle di salto con gli sci nella vicina Predazzo. A ogni lampione, un bandierone ricorda a chi sale lassù che il 2026 è vicino. I paesi sono tirati a lucido. I bed and breakfast stanno spuntando come funghi. Il visitatore ignaro, della tragedia del 1985, potrebbe non rendersi neanche conto.

«È uno sforzo grandissimo, tenere viva la memoria» dice Graziano Lucchi, una vita all’Ufficio stampa della Confcommercio di Bolzano, presidente della Fondazione Stava, entrambi i genitori persi nella tragedia. Certo, non è facile. A Stava è mancato un Marco Paolini, che con la sua orazione civile sul Vajont tenne milioni di persone incollate alla tivù. «C’è stata anche una volontà di rimozione», continua Lucchi. «Da parte della politica, perché quel che è successo era imbarazzante. E, in fondo, anche nostra: per molti, dopo un trauma del genere è fisiologico voler dimenticare».

E pensare che, nei primi anni Sessanta, quando a Stava partì l’attività industriale, erano tutti contentissimi. La Val di Fiemme era poverissima – le vacche nella stalla, il fieno nel sottotetto – si viveva di polenta e formaggio, si emigrava all’estero o verso l’Alto Adige. Bisogna immaginarsi le trattative tra questi uomini, piegati da secoli di miseria, e i dirigenti di Milano, Foro Buonaparte. La Montecatini assunse un centinaio di lavoratori locali, i terreni le furono venduti per 35 lire al metro quadro (mentre il prezzo di mercato era 1000 lire al metro quadro). Furono costruiti acquedotto e allacciamento elettrico. I minatori salivano in miniera con la seggiovia. Gli appartamenti per i dirigenti, venuti dalla Toscana e dall’Agordino, oggi convertiti nel Residence Lagorai, furono le prime case di Tesero con riscaldamento centralizzato. I bambini del paese, a scuola, strabuzzavano gli occhi quando vedevano i figli dei foresti. «Hanno le scarpe belle!». «Hanno il panino con il prosciutto!».

Nell’1985 le cose erano già cambiate. Stava era luogo di villeggiatura. I morti uccisi dalla colata di fango riposano in 64 cimiteri di dieci regioni d’Italia. A Tesero sono seppelliti i fiemmesi, spesso tutta una famiglia sotto una sola tomba. E, in tre fosse comuni, i 71 morti mai identificati.

«Questa storia ci parla del rapporto tra uomo e natura. Ma anche del rapporto tra uomini e altri uomini», conclude Graziano Lucchi. «Noi avevamo il diritto di vivere tranquilli. Tutti hanno il diritto di vivere senza che la superficialità, l’incuria e l’interesse economico prevalgano sul rispetto della vita umana». Quel che non è successo quel maledetto 19 luglio.

Alle 12 e 22 minuti e 55 secondi il sismografo della stazione di rilevamento di Cavalese prese a vibrare, come se vi fosse un terremoto.

I testimoni ricordano un cupo boato, uno spostamento d’aria fortissimo, i tetti delle case che volavano. L’odore acre dell’olio di lino, una sostanza usata nella lavorazione della fluorite, che si sprigionava per tutta la valle. Poi un surreale silenzio di morte. Rotto, dopo pochi minuti, dal rumore delle pale degli elicotteri.

 

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Il disastro del 19 luglio 1985 a Stava di Tesero, in Val di Fiemme, costituisce una delle più gravi catastrofi industriali mai accadute in Italia.

 

Alle 12.22 la discarica delle Pozzole, dove venivano ammassati gli scarti della lavorazione della fluorite estratta della miniera del Prestavèl, cedette, e circa 180 mila metri cubi di sabbia, acqua e limi collassarono verso valle. Fu questione di secondi. La colata di fango provocò la morte di 268 persone; la distruzione completa di 3 alberghi, 53 case e 6 capannoni; lo sradicamento di centinaia di alberi; 8 ponti furono demoliti; 9 edifici gravemente danneggiati. Troppo, perché non vi fossero conseguenze.

La Giunta provinciale, allora presieduta da Flavio Mengoni, e composta da Dc, Pli e Pri, fu immediatamente chiamata in causa. Il 21 luglio il giornalista Franco De Battaglia scrisse sull’Alto Adige: «La staffilata di fango segnerà a lungo una ferita profonda per il Trentino, uno schiaffo bruciante per una terra che risulta così diversa da quel che dice di essere». Il 22 luglio il giornalista Giorgio Dal Bosco scrisse su l’Adige che la comunità trentina doveva reagire «con determinazione e dignità, perché tanti anni di buona reputazione non siano andati perduti in quei tremendi secondi».

 

Il 23 luglio a Trento si tenne una seduta decisiva del Consiglio provinciale. Il presidente Mengoni si difese: «Sa il Cielo se esiste presso di noi alcuno che sia mai stato sfiorato dall’intento di essere pigro, o negligente, o addirittura inadempiente a fronte di un’ipotesi anche remota di un rischio così orrendamente disumano». Ma al termine del dibattito Gianni Bazzanella, assessore all’industria e all’artigianato, e Remo Jori, assessore all’agricoltura e alle foreste, rassegnarono le dimissioni. Il 9 di ottobre la Giunta provinciale e il suo presidente rinunciarono al mandato.

 

A fine mese, con un colpo di scena, la Democrazia cristiana candidò alla presidenza Pierluigi Angeli, che diede vita a una giunta con Pri, Pli e, dopo un’assenza durata dal 1964, anche dal Psi. Proprio al socialista Walter Micheli vennero assegnati la vicepresidenza e l’assessorato al territorio, all’ambiente e alle foreste, con il preciso compito di portare una nuova sensibilità al governo della Provincia. «Bisogna tutelare il territorio anche a costo dell’impopolarità», diceva Micheli. Fu grazie a quella svolta che si arrivò a riforme come la revisione del Piano urbanistico (con voto del Consiglio del 7 ottobre 1987), la nascita dei Parchi naturali (legge 6 maggio 1988), l’istituzione della Valutazione di impatto ambientale (legge 29 agosto 1988).

 

Nel frattempo, le responsabilità del disastro venivano accertate anche nelle aule di giustizia. Il procedimento penale toccò il Tribunale e la Corte d’Appello di Trento, la Corte di Cassazione, la Corte d’Appello di Venezia, di nuovo la Cassazione. Nel giugno 1992 i giudici supremi condannarono dieci imputati per disastro colposo e omicidio colposo plurimo: gli ingegneri Alberto Bonetti, Alberto Morandi, Giuseppe Lattuca, Sergio Toscana, Antonio Ghirardini e il perito minerario Fazio Fiorini, dei gruppi Montedison, Egam e Eni, che costruirono la discarica e la ebbero in gestione fino al 1980; il perito minerario Vincenzo Campedel, direttore del sito al momento del crollo, e Giulio Rota, presidente e legale rappresentante della Prealpi Mineraria S.p.a., che dal 1980 aveva preso in concessione la miniera del Prestavèl; infine, gli ingegneri Aldo Currò Dossi e Giuliano Perna, funzionari del Distretto minerario della Provincia autonoma di Trento, che nello stesso periodo omisero i controlli. Nessun imputato, salvo che nelle prime fasi di avvio dell’indagine, fece un giorno di carcere.

 

Nel 2004 il risarcimento dei danni a favore delle 739 parti lese per complessivi 132 milioni di Euro è stato liquidato quasi per intero in via transattiva dalle società coinvolte e dalla Provincia. La Prealpi Mineraria, nel frattempo fallita, non ha versato alcuna somma ai danneggiati.

 

 

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Anche Sergio Mattarella il 19 luglio salirà a Stava per commemorare i 268 morti della tragedia del 1985.

 

La notizia era nell’aria da tempo, l’invito era stato fatto mesi fa dal presidente della Provincia Fugatti, dalla ormai ex sindaca di Tesero Elena Ceschini e dalla Fondazione Stava 1985. La conferma ufficiale, per ora, ancor non c’è: l’agenda pubblica del Quirinale è definita solo fino al 23 giugno. Ma si tratta solo di una formalità. Tanto che, negli ultimi giorni, in val di Fiemme, è arrivata una telefonata del commissario del governo: «Sì, il presidente ci sarà!».

 

Già dieci anni fa, per il 30° anniversario, il capo dello Stato aveva indirizzato un messaggio alla comunità trentina. «Stava» scrisse «è simbolo di un modo gravemente sbagliato di concepire l’attività economica, il profitto, il rapporto con l’ambiente, la valutazione del rischio». A dieci anni di quelle parole, salirà a rendere omaggio ai morti direttamente nel cimitero di Tesero. Al mattino il presidente sarà al colle di Miravalle, a Rovereto, per i cento anni della Campana dei Caduti. Poi proseguirà il viaggio per la val di Fiemme.

 

Una novità che forse costringerà gli organizzatori del quarantennale a modificare la scaletta che hanno messo a punto. 

 

Come ogni anno, la commemorazione incomincerà già il 18 luglio, un venerdì. A partire dalle 20.30 don Albino Dell’Eva, parroco di una dozzina di parrocchie della valle, guiderà una via Crucis. La processione partirà dalla località Pesa, sulla strada che da Tesero sale verso Stava, e terminerà alla Palanca, la chiesetta uscita miracolosamente indenne dalla colata di fango, e dove si fermò a pregare Giovanni Paolo II. A ogni stazione, saranno scanditi i nomi degli 89 uomini, delle 120 donne, dei 31 ragazzi e dei 28 bambini che persero la vita quarant’anni fa.

 

Sabato 19 luglio, alle 10, l’arcivescovo di Trento mons. Lauro Tisi celebrerà una messa in suffragio delle vittime a Tesero, nella chiesa di sant’Eliseo. Poi si terrà una seconda processione, fino al cimitero monumentale di San Leonardo. Il corteo sarà accompagnato dalla banda Erminio Deflorian di Tesero. Le lapidi saranno benedette. Le autorità deporranno una corona di fiori.

 

Alle 15, nel teatro di Tesero, avrà luogo la cerimonia civile. Saranno presenti il giornalista Alberto Faustini; il presidente della fondazione Vajont, Roberto Padrin; la presidente della fondazione Alex Langer, Christine Stufferin; il presidente della fondazione Stava 1985, Graziano Lucchi, che quel giorno perse entrambi i genitori. Alle 15.30, salvo cambiamenti di programma dovuti all’arrivo di Mattarella, è in agenda una lectio magistralis di Stefano Zamagni, già presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, che quest’anno ha tenuto un corso sul rapporto tra moralità e comportamento economico all’università di Bologna.

 

Alle 18, alla chiesetta della Palanca, i sindaci di Tesero e di Longarone deporranno un mazzo di fiori ai piedi del monumento donato a Stava dalle popolazioni ferite dal disastro del Vajont. Infine, domenica 20 luglio, alle 21, nella chiesa di Sant’Eliseo, la Scuola musicale “Il Pentagramma” di Fiemme e Fassa e la corale “Canticum Novum” eseguiranno il Requiem di John Rutter e altri pezzi di musica sacra.

 

Dal 4 al 23 luglio, a palazzo Trentini, in via Manci, a Trento, sede della presidenza del Consiglio provinciale, si terrà una mostra sul disastro curata del collettivo Alte Terre Arte. La mostra sarà inaugurata alle ore 17.30.

 

Il 4 luglio, alle 10 del mattino, il presidente della Fondazione 1985 Graziano Lucchi terrà una conferenza su genesi, cause e responsabilità della tragedia valida per i corsi di formazione dell’Ordine dei giornalisti. La conferenza sarà replicata a palazzo Trentini il 15 luglio. Chi vi ha già assistito in anteprima assicura: la passione che Lucchi mette nel tener viva la memoria è capace di tenere il pubblico con il fiato sospeso.