Robinson, 6 luglio 2025
Intervista a Benedetta Centovalli
Dopo un paio d’ore di conversazione capisco che a Benedetta Centovalli – saggista, critica e editor – piacciono certe case. Le rivelano mondi che le persone non sempre sanno di stare ad abitare. E allora eccola intrattenersi sulla casa “letteraria” di Emily Dickinson (su cui ha da poco ripubblicato Nella stanza di Emily,edizioni La Tartaruga), su quella “caotica” di Alda Merini e l’altra, nella quale soggiornava in gioventù, di Romano Bilenchi. In fondo, come lei stessa dice, c’è chi frequenta poeti e scrittori attraverso le parole e chi vi aggiunge il pellegrinaggio nel giardino, sulla tomba o appunto nella casa: «Decisi di visitare la casa in cui nacque Emily Dickinson e nella quale trascorse l’intera vita nel 2019. Vi andai senza pregiudizi, senza curiosità turistiche, solo per trovare un fantasma, e con esso, le parole che l’avevano generato. Giunsi ad Amherst, nel profondo New England, un pomeriggio di settembre. Ero partita da New York. Fu un viaggio in autobus di quasi sei ore. Ero stata più volte a New York per il mio lavoro di editor ma non conoscevo il paesaggio monotono della provincia. Per tutto il tempo ascoltai con gli auricolari la voce di qualcuno che sciorinava i versi di Emily, producendo in me un effetto stordente».
Una specie di trance?
«Più che una modifica della coscienza direi l’attenuarsi della percezione. È come se davanti al grande enigmadella letteratura reagissi immaginando di trovarmi sulla soglia di un mondo nuovo, quello che la Dickinson aveva costruito con la sua devozione assoluta per la poesia. Ed è lì che l’ho incontrata».
Non c’è il rischio di cadere in una sorta di feticismo letterario?
«Il feticismo è attratto dalle cose inerti e fredde. Mentre io ho sentito quella casa come un posto vivo, non un museo dove ciò che vedi è morto. Somigliava alla stanza delle meraviglie, stupefacente come la sua immaginazione».
Com’era invece la tua casa?
«Un luogo semplice, ordinato, senza libri. Ho incontrato i libri autonomamente e fatto letture assurde in anni in cui non si dovrebbero fare. Ricordo un’estate, potevo avere 13 anni e andavo al mare con le suore, e leggevo i gialli Mondadori: erano in un piccolo scaffale, dove in mezzo c’era Delitto e castigo. Lo leggo e mi appassiono».
I tuoi cosa facevano?
«Il babbo era un piccolo commerciante, la mamma faceva la bambinaia. Prima che nascessi aveva lavorato come governante in case importanti, acquisendone i modi. Il babbo aveva fatto la guerra in Africa. Ricordo un uomo buono e semplice. La guerra in Africa lo aveva segnato in modo irrimediabile. Capitava che ricordando ciò che gli era accaduto piangesse e mi commuovevo davanti alle sue lacrime. Erano venuti a Firenze nel dopoguerra cercando una vita migliore, un mondo diverso dalla povertà contadina. Da loro ho appreso il senso del dovere e la necessità dello studio. Per tutto il resto ho dovuto arrangiarmi con le mie forze. E poi ho avuto la fortuna di trovare dei buoni professori al liceo e all’università».
Con chi ti sei laureata?
«Con Piero Bigongiari sulle lettere di Camillo Sbarbaro.
Pensavo di fare una tesi sul Gruppo 63, ma più lo studiavo e meno mi piaceva. Negli anni Ottanta c’era ancora la moda della semiologia, ho avuto un maestro nella figura di D’Arco Silvio Avalle. Frequentare i corsi di Avalle era un’emozione. Conosceva l’arte di sedurci e di accendere luci nella nostra mente. Il giardino incantato nel quale ci aveva fatto entrare era il miraggio della semiotica».
Un’illusione?
«Era il tentativo di spiegare l’impossibile, cioè sondare il mistero della poesia. Tuttavia, per chi come me proveniva da una famiglia modesta, quel miraggio voleva dire che il riscatto in letteratura poteva passare dal dominio della ragione e dal rifiuto che l’artista fosse come un mago, un demiurgo. Quell’insegnamento contribuì a spezzare la gabbia sterile delle storie letterarie. Ma sentivo anche lì un limite».
Quale?
«Il limite del testo stesso, accorgermi che a forza di analizzare il processo creativo avevo dimenticato la cosa più importante: la creazione. Per questo fu per me fondamentale l’incontro con Romano Bilenchi. Il periodo in cui lo conobbi non usciva più di casa. Si era recluso da anni, ma aveva aperto la casa agli amici, quelli antichi e ai più giovani».
Chi frequentava la sua casa?
«Claudio Piersanti, Giorgio van Straten, Goffredo Fofi e Grazia Cherchi. Lì ho conosciuto Vanni Scheiwiller. Fu Vanni a indirizzarmi su Sbarbaro. Immancabile era la presenza di Luzi che a volte si addormentava sulla grande poltrona del soggiorno. Per me quella casa è stata la vera università».
Bilenchi com’era?
«Intanto era un uomo malato. Soffriva da alcuni anni di una polineuropatia diabetica che gli impediva di muoversi liberamente. E poi, dietro il fumo delle sigarette, intuivo l’uomo tormentato, sempre più taciturno. Ancora lì a rimuginare e a espiare le sue scelte politiche giovanili».
Alludi al periodo fascista?
«Era stato un fascista di sinistra, con tratti tipicamente anarcoidi, per poi passare, come altri, al comunismo.
Forse la migliore definizione l’ha data Corrado Stajano: “Un fascista bolscevico e poi un comunista liberale”».
L’esperienza più importante di Bilenchi comunista è stata la direzione del “Nuovo Corriere”.
«Fu Togliatti in persona ad affidargli quel compito. E a detta di molti, gli anni in cui lo ha diretto sono stati importanti per sprovincializzare Firenze. Ma poi fu lo stesso Togliatti a uccidere quel giornale».
Perché?
«Dopo i fatti dell’Ungheria del ’56, Bilenchi e il giornale si schierarono dalla parte degli operai e degli insorti di Poznan, delle vittime che l’invasione sovietica aveva provocato. Il Pci decise allora la soppressione del giornale, mascherando la scelta dietro le difficoltà finanziarie».
Enrico Mattei provò a salvarlo.
«Provò ma ebbe contro il fuoco di sbarramento dell’Unità che cercò di intimidire e richiamare all’ordine il capo dell’Eni».
Quell’esperienza, come racconta lo stesso Bilenchi in “Autobiografia di un giornale”, fu a suo modo straordinaria.
«Era – come disse Bilenchi – una palestra quotidiana, uno scontro di libere opinioni. Credo che soffrì molto per quella inattesa chiusura».
Uscì dal partito.
«Restituì la tessera nel 1957. Motivandola non perché gli
avevano soppresso il Nuovo Corriere e neppure a causa dei fatti di Ungheria. Uscì dal partito, disse, perché era stato trattato bestialmente».
Come scrittore che giudizio dai?
«Grande, anzi grandissimo. È un peccato che oggi siano in pochi a leggerlo».
Definisci grande.
«Ci sono varie sfumature. Intanto, come pochi della sua generazione, sa raccontare infanzia e adolescenza. Il romanzo Il gelone è la costruzione perfetta che regge il confronto con L’isola di Arturo della Morante. Scrivere dell’infanzia era per Bilenchi un modo per occuparsi non tanto della realtà ma del reale».
Cioè?
«La realtà lo avrebbe obbligato alla rappresentazione, il reale invece ha liberato la sua potenza creatrice».
Ha influito sulla sua scrittura la politica?
«Indirettamente sì. Vi sono racconti e scritti dove è evidente l’impegno civile. Ma spesso quelle prove erano il modo per riscattare la sua storia politica. Da questo punto di vista è emblematico Il bottone di Stalingrado, romanzo storico-politico che racconta la formazione del protagonista che passa dall’adesione al fascismo alla Resistenza e alla Liberazione e infine ai conflitti sociali del dopoguerra. L’anno in cui uscì il romanzo, era il 1972, coincise con il suo rientro nel Pci».
Per te cosa è stato Bilenchi?
«Nella sua scelta di autoescludersi da tutto, è stato per me un maestro nascosto. Capace di toccare i vertici del
romanzo, come nel caso del Conservatorio di Santa Teresa e della straordinaria raccolta di ritratti che è Amici, un libro che piacque enormemente a Gianfranco Contini.
Dopo la sua morte continuai a frequentare la casa e la moglie Maria».
Ti piaceva la sua casa?
«Molto. Era accogliente, ricordo i libri, i quadri di Rosai e soprattutto la gente che la frequentava: Landolfi, Garboli, Maria Corti».
Hai appena curato la riedizione di un romanzo di Corti, “Cantare nel buio” (La Nave di Teseo). Non è molto risaputo che questa letterata e filologa si fosse dedicata al romanzo.
«È il suo tormentatissimo esordio narrativo con un romanzo scritto nella seconda metà degli anni Quaranta.
Lo scrive quando ancora non ha nella testa il cammino da critico».
Tormentata perché?
«Non riesce ad accettare la forma conclusa. È lì che scrive e riscrive nel corso degli anni. È come combattuta tra due fronti. Tra il mestiere di scrittrice e quello di critica.
Proverà a pubblicarlo con Einaudi ma Calvino le scriverà una lettera di rifiuto. Alla quale Corti risponde molto risentita. Il romanzo vedrà infine la luce nel 1991».
Perché ripubblicarlo oggi?
«La ragione sta tutta nella sua dissociazione dal clima di neorealismo imperante alla fine degli anni Quaranta».
Ti sei spesso occupata dei libri degli altri.
«L’ho fatto per mestiere, come editor in diverse case editrici, trascorrendo un quindicennio alla Rizzoli. Venni a Milano, perché erano lì le occasioni editoriali. Cominciai alla Bompiani, nel settore scolastico. Poi passai alla Einaudi, sempre nello scolastico, di nuovo alla Bompiani, ai tascabili e poi alla Rizzoli come editor della narrativa italiana, dove sono rimasta per 15 anni. Poi altre realtà, piccole case editrici che ho diretto divertendomi. Alla fine ho messo un punto. E ho aperto una piccola agenzia letteraria. Anche questo è un modo per amare i libri degli altri».
Nella “Stanza di Emily” scrivi che «non essere compresa è stata la mia opera».
«Un modo per sottolineare la distanza dagli altri, spogliarmi della gente intorno e vestirmi di libri.
Occuparmi non delle persone fisiche ma delle storie che sanno raccontare e scrivere. Per me è stato un modo per vincere la paura della morte che ogni sera ghermiva la mia mente».
In che senso?
«La mia vita, se ha un centro, è intorno alla paura. La paura di perdere quello che amo. E allora da piccola ho immaginato che la sola risposta possibile era di fare ogni giorno l’esperienza della mia morte. Qualunque pretesto – dal cibo pensato come avariato alla puntura di un insetto velenoso – era buono per scalzare il timore che fossero gli altri a morire. È stata un’ossessione che mi ha accompagnata a lungo».
Ti ritieni una persona complicata?
«Per lungo tempo lo sono stata. I libri mi hanno aiutato a contrastare questa condizione. Ho sempre pensato che i libri siano la vita vera. Ed è anche quello che mi ha spinto al viaggio verso Emily. È stato come entrare da una porta stretta».
C’è un libro di André Gide con quel titolo.
«È il libro che ormai ragazza mi consigliò Bilenchi di leggere. Ed è il libro che ho portato con me durante il viaggio».
Perché pensi sia importante?
«Apparentemente non c’è una ragione precisa.
Appartiene a quelle letture ormai remote, nel mio caso fatta sulla soglia della giovinezza. Per anni mi sono trascinata appresso la sensazione di un libro che mi rivelava qualcosa intorno alla giovinezza, al desiderio, alla seduzione. Ma cosa voleva dire? Che direzione dare a quelle parole?».
Che risposta ti sei data?
«Ho pensato al versetto di Luca “Sforzatevi di entrare per la porta stretta”. Non dunque la porta larga dove tutto è prevedibile. Ma scegliere la via difficoltosa. La porta stretta che si attraversa passando dall’età dell’adolescenza a quella adulta. Attraversare un territorio che ti metta alla prova. Solo così la porta stretta diventa una porta spalancata sul mondo».