la Repubblica, 7 luglio 2025
Intervista a Giulio Scarpati
Nella casa affacciata sui tetti, al centro di Roma, semplice e elegante, le foto dei figli Edoardo e Lucia, due Telegatti sul camino, i libri, Giulio Scarpati racconta 50 anni di carriera. Il dottor Lele Martini di Un medico in famiglia ora ha una gran chioma argentata e i baffoni. «Porto in giro lo spettacolo Qualcosa di nuovo nel sole dedicato a Giovanni Pascoli in cui il poeta dialoga con Gulì, il cagnolino morto, e ripercorre la sua vita. Il 10 agosto sarò a Ponte di legno, a novembre a Barga. Pascoli va riscoperto, ha avuto una pessima stampa» dice l’attore sorridendo «penso alla poetica del fanciullino: non è un bambino cretino, ma il recupero della curiosità. Amava gli animali e la natura, un verde ante litteram». Interpreta la terza stagione di Cuori di Riccardo Donna, con Pilar Fogliati e Matteo Martari, nei panni di un sensitivo che ricorda Gustavo Rol. Ed è nel cast della serie Estranei, su Rai2.
Col ruolo di Lele ha conosciuto il divismo tv. La fermano ancora?
«Sempre “Sono cresciuto con te”. Ero uno di famiglia, mi piace il rapporto d’affetto. Un successo inimmaginabile, difficile fare la spesa, andare a prendere mio figlio a scuola. Le mamme mi mettevano il numero di telefono in tasca».
Pensa di essere stato penalizzato al cinema?
«Prima c’era un po’ di snobismo. Sono il primo a autodenunciarmi. Quando mi dissero che in Un medico in famiglia ci sarebbe stato Lino Banfi rimasi perplesso. Venivo dal teatro e dal cinema d’autore. Lino era pop, ecco il pregiudizio scemo. Recitando insieme, sembrava mio padre davvero, era tutto naturale, commovente. C’era verità e si è creato un rapporto bellissimo».
Famiglia borghese, lei decide di fare l’attore. Reazioni?
«Non mi hanno mai ostacolato. Mamma, insegnante, poi lavorò al ministero dell’Ambiente, papà era avvocato. Da ragazzo ero, insieme, timido e pazzo: recitare fu la mia valvola di sfogo. Il teatro va portato nelle scuole, per aiutare gli adolescenti a riconoscere le emozioni e i sentimenti».
Un maestro?
«Sergio Fantoni, con cui recitai in Orfani di Ennio Coltorti con Ennio Fantastichini. Era un signore, salutava i tecnici per nome. Mi ha insegnato che se si rispettano le persone, tutti lavorano meglio».
Michele Placido girerà per la Rai la serie “Il giudice e i suoi assassini”, su Rosario Livatino; lei nel 1994 ha interpretato “Il giudice ragazzino” di Alessandro di Robilant.
«È stato uno dei momenti più emozionanti della mia carriera, peccato che i genitori non ci siano più, la beatificazione sarebbe stata un conforto. Andai a conoscerli mentre giravo. Ero pettinato come Rosario, mi scompigliai i capelli. Il padre era estroverso; la madre non disse una parola. Ma a un certo punto si alzò e mi sfiorò la fronte: “Rosario i capelli li portava così”».
Un altro ruolo che l’ha segnata?
«Monsignor Luigi di Liegro, fondatore della Caritas. Celebrò un matrimonio misto. Giovanni Paolo II gli chiese: “Allora, com’è questo imam?”. “Un bravo cristiano”».
È legato a sua moglie Nora Venturini, regista e scrittrice, da una vita. Com’è lavorare insieme?
«Nora non conosce pause, prova per ore. Finiamo, torniamo a casa e ricomincia. È fatta così».
Il rapporto con Ettore Scola?
«Era geniale, girai con lui Mario, Maria e Mario. Conservo ancora un ritratto che mi fece in trattoria: “Scarpati, in un’espressione intensa”. Era ironico. Avevo sempre lavorato con registi coetanei. Un giorno, a sproposito, lo affrontai: “Il nostro rapporto non funziona”. Lui: “Non sapevo che fossimo fidanzati”. Andammo insieme a vedere Marcello Mastroianni che a Napoli recitava a teatro Le ultime lune, mi colpì. Era così affaticato, morì poco dopo. Ci tenevo tanto che Ettore vedesse la versione teatrale di Una giornata particolare con la regia di Nora. Morì il primo giorno di prove, venne la moglie Gigliola».
Che ha pensato delle dichiarazioni del ministro della Cultura Giuli sugli attori?
«Quelli famosi guadagnano; c’è una notevole differenza tra i primi e gli ultimi nomi. La malattia di questi anni è il narcisismo, chi ha potere cerca solo uno specchio. Ho nostalgia di una politica che studiava i problemi e cercava di comprendere. Oggi la prima cosa è fare dichiarazioni, e dilaga la superficialità. Vorrei chiedere a Pannofino di doppiare Trump».
Ha dedicato a sua madre, che è scomparsa dopo essersi ammalata di Alzheimer, il libro “Ti ricordi la casa rossa?”.
«L’Alzheimer è classista, la sanità pubblica è svenduta. Per i malati ci vogliono i soldi, bisogna aiutare le famiglie. Ai parenti dico sempre: non bisogna offendersi se non vi riconoscono. Scrivere, mettendo insieme i ricordi, è terapeutico. Ti devi affidare alla parte emotiva, la razionalità serve a temperare le matite e a prepararti agli eventi».
Rapporto con l’età?
«Ho 69 anni, sono vecchio. A colazione inforco gli occhiali e leggo il giornale. Ho il tablet, ma preferisco il cartaceo. Il piacere del giornale tra le mani non me lo leva nessuno».