La Stampa, 7 luglio 2025
Mai più in canotta e infradito alla Scala La lunga storia del dress code ignorato
Uno dei Grandi Problemi Italiani non è che non ci sono le regole, che anzi sono troppe. È che vengono fatte rispettare sempre meno, finché nessuno si ricorda più che esistano. Vale a tutti i livelli, anche per quello (apparentemente) frivolo di come vestirsi a teatro, anzi a Teatro, il più prestigioso delle amate sponde: la Scala. Così dal Piermarini hanno deciso di ricordare a chi se l’era dimenticato che esiste un dress code, rilanciando una regola che per la verità non era mai stata abrogata. Testuale: «La Direzione invita il pubblico a scegliere un abbigliamento consono al decoro del Teatro, nel rispetto del Teatro stesso e degli altri spettatori. Non sono ammessi spettatori che indossino canottiere o pantaloni corti; in questo caso i biglietti non sono rimborsabili», e qui sta il capolavoro, perché l’eventuale smutandato non solo viene rimbalzato all’ingresso, ma non può nemmeno farsi ridare i soldi. E i biglietti della Scala non sono esattamente a buon mercato: trovandola, una poltrona di platea di zona 1 per la Norma attualmente in cartellone costa 300 euro.
La storia della norma, con la minuscola, è lunga. Fino a non molti anni fa, erano richieste giacca e cravatta per accedere a platea e palchi, e abito scuro per le prime rappresentazioni (il 7 dicembre fa regola a sé: lo smoking non è obbligatorio, ma se qualcuno si presenta senza si condanna da solo alla pubblica riprovazione. Quanto alle signore, meglio una milanese, armaniana sobrietà, e in effetti su altre piazze operistiche gli outfit da prima di parata sono più clamorosi e sberluccicanti). Poi arrivò l’Expo, e si pensò che la cravatta fosse troppo per le torme di turisti accaldati. Da qui il divieto di canotte e bermuda (e gli infradito? Boh). Questo comportò, per dirla con Paolo Besana, capo della comunicazione del Tempio, «un po’ di lavoro in più per le maschere, qualche scenata sporadica e qualche incasso per i negozi di abbigliamento della zona che hanno fornito pantaloni lunghi a tempo di record a turisti trafelati, e nel complesso ha posto un argine allo stile «Scala-camping o Scala-rave». Adesso il problema si ripropone e quindi il nuovo sommo sacerdote del Tempio, il sovrintendente Fortunato Ortombina, ha deciso che fosse cosa buona e giusta ricordare le regole. Certo, dovrebbe bastare il buonsenso, perché è chiaro che qualsiasi persona che l’abbia non va alla Scala (s)vestita da spiaggia. Ma si sa che il buonsenso è più estinto dei dinosauri, e non si può pretendere che tutti abbiano la sensibilità in materia del principe di Lampedusa, che dovendo chiedere la mano di Angelica per conto di Tancredi non indossò l’abituale redingote nera, ma una di un lillà ritenuto più adatto all’occasione presunta festiva.
In realtà, il vero problema è che la Scala è infestata di turisti che la considerano un’attrazione turistica, ci vanno per vederla, selfarsi e andarsene al primo intervallo. Infatti è più facile incontrarli overdressed più che sbragati, tipo le americane in lamé lungo alle matinée della domenica pomeriggio che tentano di entrare in sala con la flûte di champagne in mano, bloccate dalle maschere con la consueta cortese inflessibilità. E poi ci sono quelli che non spengono i cellulari e anzi li fanno precipitare dal palco in platea contundendo uno spettatore, com’è successo in una recente memorabile occasione: cose turche (si dava infatti Il ratto dal serraglio). Ci sono anche i fotografi compulsivi, nei casi peggiori con il flash. Tipo la mentecatta seduta davanti a me che alla prima della Gazza ladra si mise a sparare flash alla primadonna che stava attaccando la cavatina: per sfortuna (sua) la stronza era italiana, quindi capì perfettamente dove subito la mandai. Delle ravanatrici nella borsetta, delle tintinnatrici di gioielli e delle scartocciatrici seriali di caramelle inutile parlare perché infestano tutti i teatri del mondo, non solo la Scala. Adesso si spera che ricordare poche semplici regolette d’abbigliamento serva a far rispettare anche quelle di comportamento. Non bisogna però essere pessimisti. I ragazzi, che a differenza di quel che si pensa alla Scala ci vanno, sono per lo più impeccabili, ingiaccati e incravattati, e mediamente meno rompiscatole dei diversamente giovani. Era Paolo Grassi, il più grande uomo di teatro che l’Italia abbia avuto nel Dopoguerra, a insegnare che il teatro è un rito, e che comincia ben prima di andarci: davanti allo specchio di casa. —