La Stampa, 7 luglio 2025
L’Italia riapre le miniere. Litio, grafite e antimonio è caccia ai minerali del futuro
L’Italia torna nelle miniere, a caccia di tesori. Cerca di cavalcare la competizione globale del Ventunesimo secolo, la corsa a terre rare e minerali critici strategici usati per l’industria.
Un mercato dominato dalla Cina, (che copre il 98% della domanda europea di magneti composti da terre rare), che vede gli Usa pronti ad approfittare dei giacimenti della Groenlandia e la Francia capofila in Europa (con nove dei 47 progetti per i minerali critici Ue, più di qualsiasi altro Stato membro). Ora l’Italia tenta di inserirsi nella partita ma sconta risorse limitate e decenni di abbandono delle miniere. Dopo 30 anni dall’ultimo investimento pubblico nel settore, il Comitato interministeriale per la Transizione ecologica ha approvato il Programma nazionale di esplorazione mineraria generale (Pne): 14 progetti di ricerca distribuiti sul territorio nazionale.
Un investimento da 3,5 milioni di euro per la prima fase, che coinvolgerà 15 unità operative e 400 specialisti coordinati dal Servizio geologico d’Italia dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). Un progetto di cui si parla da almeno due anni e che mira «a dare un contributo per far conquistare una quota di indipendenza all’Italia», che però non ha una filiera per l’estrazione né per la raffinazione delle materie prime.
Durante la prima fase del programma verranno utilizzate tecnologie avanzate come la radiografia muonica (attraverso raggi cosmici) e software di intelligenza artificiale per elaborare dati. I risultati confluiranno nel database minerario nazionale Gemma. Le esplorazioni, che dovrebbero partire a settembre, si concentreranno su Lombardia, Piemonte, Trentino-Alto Adige, Liguria, Toscana, Lazio, Campania, Calabria, Emilia-Romagna, Marche e Sardegna. La caccia sarà a materie prime critiche come litio e grafite (usati per le batterie), rame (elettronica e Ai), antimonio (semiconduttori), tungsteno (acciai speciali), titanio (aerospazio), terre rare (per l’hi-tech), fluorite (vetro, acciaio, elettronica), feldspato (per la ceramica). La mappatura interesserà quasi tutto il Paese. Dal Nord-Est per fluorite e terre rare, al Centro per litio e antimonio, fino al Sud per grafite e feldspati e minerali metalliferi. «Sarà una ricerca di base per comprendere il potenziale minerario nazionale secondo il regolamento europeo – spiega il ricercatore di Ispra Fiorenzo Fumanti, coordinatore del progetto –. Non faremo attività invasive, ci limiteremo all’analisi bibliografica, al rilevamento geologico, ai campionamenti superficiali e all’indagine geofisica e geochimica».
Nonostante le potenzialità, l’obiettivo di una maggiore autonomia nelle materie prime critiche appare lontano. Maurizio Mazziero, analista finanziario e autore con Paolo Gilo del libro La mappa del tesoro (Hoepli), vede tre criticità principali. La prima: «Competere al livello globale sembra difficile per la conformazione del territorio. L’Italia potrà eccellere solo in alcune materie specifiche, come fluorite e feldspati, con produzioni rilevanti su titanio, litio e antimonio», spiega Mazziero.
Il secondo limite è l’assenza di una filiera industriale. «Oggi non abbiamo esperienza in Italia, perché tutto è abbandonato – dice Mazziero –. Una volta identificati ed estratti i minerali, bisognerà capire come affrontare la raffinazione, manca un apparato industriale di raccolta dei materiali e di trattamento. Se estraiamo antimonio e poi andiamo a raffinare in Cina per poi ricomprare antimonio da Pechino, non risolviamo il problema dell’indipendenza».
La terza ragione è la mancanza di fondi, un ostacolo che vive la stessa Ispra: «Il programma di esplorazione dura cinque anni ma ora è finanziato solo per la prima fase – dice Fumanti –. Al termine del primo anno sarà fatta una revisione sulla base dei risultati ottenuti e saranno pianificati gli altri quattro anni». In più c’è il nodo dei tempi: «Dal momento in cui si individua del rame nel sottosuolo a quando si tira fuori il primo grammo intercorrono tra i 12 e i 16 anni», sottolinea Mazziero. Un’incertezza, di risorse e burocrazia, che ha già spinto aziende straniere a rallentare progetti in fasi avanzate, come Altamin. La società australiana al 2024 aveva già investito 20 milioni in Italia, in particolare a Gorno, in Lombardia, e aveva puntato i siti di Piemonte e Lazio.
Di fondo c’è la carenza di professionisti. «Uno degli obiettivi del Pne è iniziare a ricostruire un ecosistema minerario basato sulla sostenibilità, abbiamo attivato una specifica Summer school e corsi di formazione e-learning», dice Fumanti. Un problema che vive in prima persona anche Mariachiara Zanetti, vicerettrice delegata alle Materie prime critiche e alle Tematiche ambientali del Politecnico di Torino: «Fino a 30 anni fa c’erano cinque scuole di Ingegneria mineraria in tutta Italia, ma negli anni ’90 buona parte delle miniere nazionali è stata chiusa e la disciplina trasformata in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio». Oggi solo il Politecnico di Torino mantiene un corso specifico, con circa 15 iscritti al primo anno, al 60% stranieri, che per lo più fanno ritorno nei Paesi d’origine finiti gli studi. «Non vedo un’attività mineraria realistica immediata – dice Zanetti –. Il piano di Ispra è in fase iniziale. Parliamo di attività che possono diventare concrete, se c’è una forte volontà del governo, non prima di 10 anni e che hanno bisogno di seri investimenti pubblici».
Dove non arriva l’Italia arriverà la Cina, che, sottolinea Mazziero, «Domina le materie prime critiche perché ha cominciato a investire sulla filiera oltre un quarto di secolo fa». Oggi Pechino controlla la lavorazione della maggior parte dei minerali, la raffinazione di terre rare, litio e cobalto, ma importa gran parte delle materie prime grezze. Per questo, le acquisizioni minerarie cinesi all’estero hanno raggiunto il livello più alto degli ultimi dieci anni, con dieci operazioni sopra i 100 milioni di dollari nel 2023. Pechino corre per assicurarsi le materie prime anche in questi mesi, approfittando di quella che gli analisti definiscono una «finestra temporale», prima di una possibile escalation geopolitica in grado di rendere ancora più difficili gli investimenti in Paesi come Canada e Stati Uniti.