La Stampa, 7 luglio 2025
Anche i nuovi italiani lasciano il Paese Un terzo di chi espatria è nato all’estero
Scelgono di partire in cerca di un riconoscimento e un futuro lavorativo migliore, ma spesso la spinta all’espatrio è motivata anche dalla delusione di sentirsi cittadini di serie B. Sono sempre di più i ragazzi di seconda generazione che emigrano verso altri Paesi europei alla fine del percorso di studi. Per molti di loro l’Italia non è più quell’Eldorado che avevano inseguito i genitori, ma un luogo in cui sentono sulla pelle forme più o meno esplicite di discriminazione costante. E mentre per la seconda estate di fila si torna a parlare di riforma della cittadinanza e di ius scholae, con le timide aperture del ministro Antonio Tajani e lo stop netto di Giorgia Meloni e tutta la Lega, i ricercatori lanciano l’allarme su un fenomeno sommerso che incide sul futuro del Paese. Se fino a pochi anni fa si vedeva nelle nuove generazioni di italiani una speranza per compensare almeno in parte l’inverno demografico, ora si scopre che sono anche loro parte dei cosiddetti “cervelli in fuga”.
Stando ai dati, infatti, negli ultimi anni c’è stato un significativo aumento dell’emigrazione dei giovani con background migratorio: tra il 2023 e il 2024 su circa 270mila espatri complessivi di cittadini italiani, ben 87mila hanno riguardato persone nate all’estero e successivamente naturalizzate italiane. Una quota rilevante, pari a circa un terzo del totale. Secondo il Centro Studi e Ricerche Idos, che ha elaborato la stima basata sui dati Istat in un report inedito che La Stampa ha potuto visionare, si tratta di un dato comunque parziale. Il calcolo si fonda principalmente sulle nuove iscrizioni all’Aire e tiene conto solo dei giovani figli di stranieri arrivati in Italia da piccoli e poi naturalizzati, escludendo quelli nati direttamente in Italia, che pure rappresentano una componente significativa. «Anche con questi limiti, registriamo un aumento medio del 53,8% rispetto al 2022, segno di una dinamica che rivela un fenomeno ormai profondo e strutturale», osserva Antonio Ricci vicepresidente di Idos. «La migrazione dei nuovi italiani impone una riflessione critica sulle politiche di inclusione». In un Paese che invecchia e che non è in grado di attrarre talenti e una migrazione qualificata preoccupa, infatti, che anche chi cresce, studia e si forma qui non riesca poi a stabilizzarsi.
Le mete scelte variano a seconda dell’origine, a incidere è spesso la conoscenza della lingua: non stupisce, dunque, che tra quelli di origine africana il 45,7% migri verso la Francia; mentre tra le persone con origini asiatiche (India, Pakistan, Bangladesh) il Regno Unito rappresenti la meta predominante (72,9%). I comunitari si dirigono soprattutto verso la Germania (23,8%). I sudamericani si dividono tra un ritorno nel Paese d’origine (54%) e una nuova emigrazione verso la Spagna (16%). «Rispetto ai coetanei italiani incide molto lo scarso riconoscimento politico e sociale che sentono di avere. Spesso pur essendo nati e cresciuti qui continuano a essere trattati come stranieri – aggiunge Ricci -. Per questo scelgono principalmente Paesi dove ci sono società più mature e pienamente multiculturali. Qui non si sentono accettati neanche dalle istituzioni. Pensiamo a tutta la fatica che si deve fare per ottenere la cittadinanza». Per molti, emigrare diventa così una scelta di affermazione personale, ma anche «una forma di resistenza» spiega ancora il ricercatore di Idos: «All’estero vengono finalmente riconosciuti per quello che sono, professionisti, studenti, artisti e non giudicati anzitutto per la loro origine etnica – aggiunge -. Per l’Italia questa è un’occasione mancata: questi giovani potrebbero essere risorse capaci di arricchire il Paese con esperienze e competenze plurali». Tra coloro che partono molti hanno un alto titolo di studio, esperienze internazionali, padronanza di più lingue. Non a caso si inseriscono spesso in ambiti accademici, creativi e digitali nei Paesi di destinazione.
«L’integrazione non si misura solo attraverso l’occupazione o i titoli di studio. Senza un riconoscimento simbolico, affettivo e politico, anche i percorsi di “successo” si infrangono contro un senso di esclusione profonda – conclude il ricercatore -. Finché l’Italia non saprà davvero includere, continuerà a perdere alcune delle sue energie migliori. E con esse, la possibilità di diventare una società pienamente plurale».