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 2025  luglio 07 Lunedì calendario

Da invasore sovietico ad amico dei taleban Così la Russia rimette piede in Afghanistan

In fondo è solo una bandiera: candida, con i caratteri neri, fitti come una pittura a comporre il divino geroglifico della shahada: non c’è altro dio che Allah e Maometto è il suo inviato. Basta pronunciarla due volte e diventi musulmano. È il vessillo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, la bandiera dei talebani che hanno riconquistato uno Stato.
Da giovedì scorso i moscoviti che alzano gli occhi incuriositi possono vederlo fluttuare al vento di questa allarmata estate russa. Perché Mosca è il primo Paese che ha riconosciuto ufficialmente il regime degli infuocati apostoli di Kabul. Mosca anticipa tutti, rientra nel Grande Gioco, in cui ci sono le vie del gas verso l’Asia del sud-est, la strategia delle nuove influenze, e un simbolo della più recente sconfitta americana e occidentale. Putin, il vorace ricapitolatore della storia dagli zar ai bolscevichi, non poteva che sistemare le sue pedine in un luogo in cui da secoli gli invasori, anche i russi, hanno imparato che bisogna esser contenti per il solo fatto di esser vivi. Per lui non è altro che un posto dove la morte ha un valore relativo, perché quando è molta non conta più.
Eppure chi non avrebbe giurato che tutto era finito il 15 febbraio di quel fatidico 1989? In Europa erano le 9,30 del mattino, il luogo, Hairatan, non vi dice più nulla, eppure per alcune ore fu la Storia. La colonna di blindati dell’ Armata Rossa era già transitata sferragliando sulle assi del “ponte dell’amicizia’’. Sotto i tralicci spumeggiava l’Amu Darya, l’avevano sentito mormorare secoli fa gli opliti di Alessandro Magno. Chiudeva la fila, a piedi, un uomo di mezza età con la sgualcita divisa da combattimento, non avresti mai sospettato che era un generale di nome Gromov. La Storia e l’incapace Gorbaciov gli avevano assegnato un compito amaro, la ritirata da un Paese che i russi avevano invaso per tener fede alla fraternità comunista. Già: perché erano stati loro, i comunisti, e non gli americani, a togliere alle donne il chador e a svelarne gli splendidi corpi sottili, e a distribuire la terra che era privilegio degli ignoranti mullah. Eppure il generale non sembrava infelice o umiliato, in mano stringeva un umile mazzo di fiori come una vedette che aveva meritato gli applausi. Se scrutavi il volto lo avresti detto sollevato, non era la faccia di uno sconfitto, rideva. Aveva scelto di rientrare in Russia a piedi, rifiutando di nascondersi in un blindato come un ladro. Quello era per il popolo russo un giorno di festa. I burocrati che comandavano dai saloni del Cremlino, beh! che andassero alla malora, erano loro i vinti. Al suo fianco un ragazzo alto sorrideva felice. Suo padre tornava a casa, non importa perché. Lui non sarebbe rimasto come tanti altri soldati russi sulle pietraie, gli occhi spalancati sui cieli infiniti di quel paradiso maledetto, senza neanche l’orgoglio di morire bene come nella Guerra Patriottica.
L’Unione Sovietica, che ha riempito di sé il Novecento di speranze, di fragore, di sanguinose bugie, è morta lì, con la quarantesima armata che passava il tunnel di Salang e l’ultimo Antonov che cinque giorni prima era decollato dalla base di Bagram.
La Russia in cui stavano tornando Gromov e i suoi soldati cantando, affondava nella melma dell’autodistruzione. Il 19 agosto del 1991, solo due anni dopo, gli “afghanstyj’’, i veterani della guerra sporca formavano uno scudo umano davanti al Parlamento russo per fermare i tank di un colpo di Stato di irriducibili ubriachi. Ma era solo l’inizio dei dieci anni della catastrofe, della umiliazione e della fame. Avrebbero dovuto leggere a scuola, (ma chi leggeva più Marx in quell’Urss in declino?), le “Note sull’ Afghanistan’’. Il padre spirituale dell’Unione Sovietica citava le parole del khan di Kaat al diplomatico inglese che gli annunciava soddisfatto l’entrata delle truppe inglesi a Kabul nel 1839: «Bene ma come pensate di uscirne?».
Dicembre del 1979: dieci righe sulla Pravda, pagine interne: «L’Operazione Tempesta a Kabul è stata completata con pieno successo». Le forze speciali del Kgb travestite con uniformi afgane assaltarono il palazzo del presidente Amin, un amico, un fedele alleato. Lo uccisero con la famiglia a raffiche di mitra e poi gettarono una bomba a mano nella stanza dove giacevano i corpi. Mosca aveva dunque cambiato cavallo. La solita antica storia, grossi Paesi che annunciano: il nostro ideale è aiutarvi.... E poi diventano padroni. L’uomo che aveva deciso il massacro era un morto prima della morte, inebetito dai farmaci che lo tenevano in piedi, un incompetente, vile, vanitoso, corrotto sibarita fissato con le automobili americane e le medaglie immeritate, che negli appunti chiamava l’Afghanistan, “Afostan’’ scritto con una ortografia zoppicante. L’uomo dalla ciglia spesse che affondò l’Urss nella stagnazione morale e nella penuria: Leonid Breznev.
Sfoglio un libro di più di trenta anni fa dal titolo Armata Rossa, l’ultima battaglia. Sono sessanta immagini scattate da fotografi russi negli anni dell’aiuto fraterno. Le accompagnano brevi testi tratti dalle lettere che i soldati scrissero a casa. All’inizio c’è la baldanza degli adolescenti: «Una vacanza esotica a spese del politburo!», «Dai, ci annoiavamo a morte nel kolkhoz», «Noi russi siamo invincibili davanti a questi mongoli senza scarpe...». Elicotteri sorvolano come per gioco paesaggi lunari, carri armati presidiano enigmatici pianure di pietre popolate da capre. Poi a poco a poco l’umore cambia: «Odio questa teppaglia, per dieci giorni non abbiamo fatto altro che bruciare i loro villaggi»; «quando verrà il mio momento spero che un proiettile mi uccida subito. Non sopporterei di soffrire…». Ecco le foto dei mutilati, di bare che vengono chiuse, pacchi informi, allineati come se dovessero ancora passare l’ispezione di un generale, che puzzano come le coscienze di coloro che li hanno mandati a morire. Più di quindicimila russi hanno perso la vita su queste montagne. Gli afgani cento volte di più. Kabul alla vigilia del ritiro, sussurri voci e esplosioni di autobomba e di colpi di mortaio, i mujahedin si annunciano così, le strade son piene degli uomini del Khad, i servizi segreti, che girano sulle “volga’’; sono ventimila, chi dice sessantamila chissà…. Nulla sfugge loro. Nel grande complesso residenziale dei sovietici e della nomenklatura dove c’erano file di centinaia di persone quando arrivavano i rifornimenti dall’Urss per riempire gli scaffali dei negozi speciali, le guardie si annoiano. Non c’è nessuno. I doni dell’Urss sono liquidati a prezzi più bassi che nel bazar: un televisore costa quattromila afgani invece che undicimila, la moto Ural con sidecar la porti via con novemila afgani. Brutto segno, il segno dell’agonia dei regimi in decomposizione. Corrono voci che siano stati distribuiti tremila lasciapassare ai notabili afgani più compromessi e alle famiglie, serviranno per salire sugli aerei che li porteranno in Russia ciascuno con dieci chili di bagaglio autorizzato. Non vi ricorda qualcosa, un’altra fuga da Kabul?