il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2025
Vincitori e vinti dell’assalto alle spoglie di Mediobanca
È vero che, per citare Boskov, partita finisce quando arbitro fischia. Ma dopo sei mesi di scalate bancarie il bilancio provvisorio dice che un pezzo di quel che resta del sistema finanziario italiano può cambiare padrone, almeno formalmente. L’Ad di Mediobanca, Alberto Nagel, che da 18 anni guida le spoglie del salottino finanziario che fu di Enrico Cuccia, va verso la sconfitta. E con lui Philippe Donnet, il manager francese che Nagel ha imposto dal 2016 alla guida di Generali, dove Mediobanca comanda da sempre con il suo 13% del capitale. Il colpo definitivo può arrivare dalla riuscita dell’Offerta pubblica di scambio titoli (Ops) lanciata a gennaio dal Monte dei Paschi di Siena su Mediobanca: partirà il 14 luglio e si concluderà a settembre.
L’assalto al salottino finanziario è sostenuto dal governo, che vuole influenzare il riassetto in corso nell’industria del credito, a volte con metodi così rozzi da essere finiti in un’inchiesta della procura di Milano. È primo azionista di Mps e appoggia il costruttore-finanziere romano Franco Caltagirone che, insieme a Delfin – la holding degli eredi Del vecchio guidata da Francesco Milleri dopo la morte del fondatore Leonardo – vuole conquistare Mediobanca. Il vero obiettivo, però, sono le assicurazioni triestine, che gestiscono 800 miliardi di asset, e la cacciata di Donnet. I due sono già grandi azionisti dei tre istituti e il controllo di Mediobanca glielo permetterebbe.
A gennaio, l’idea che Mps – banca salvata tre volte dallo Stato – scalasse il tempietto della finanza milanese, che in Borsa vale il doppio, faceva sorridere, ora sembra possibile. Per l’Ad di Mps, Luigi Lovaglio, basterà l’adesione “del 35% del capitale di Mediobanca”. Calta&Milleri hanno già il 30%, ma possono contare anche sulle casse previdenziali (5%), vigilate dal governo, a cui aggiungere i Benetton (2,2) e Unicredit (3,9). Il patto di consultazione, storico puntello di Nagel, si sta sfaldando, diversi soci vendono, a partire da Mediolanum, di cui la famiglia Berlusconi ha il 30%. Nessuno vuole mettersi contro il governo. Il segnale è arrivato chiaro con Unicredit. L’Ad Andrea Orcel a novembre ha lanciato un’offerta di scambio titoli sulla milanese Banco Bpm per evitare la nascita di un terzo polo bancario concorrente, sognato dalla Lega e dal ministro Giancarlo Giorgetti che vorrebbero fonderla con Mps. Per punizione il Tesoro gli ha imposto durissime prescrizioni per ottenere l’autorizzazione (il cosiddetto “golden power”). Orcel le ha impugnate al Tar: se il 9 luglio perde, rinuncia a Bpm. Nel frattempo s’è schierato con Calta&Milleri, sostenendoli sia in Mediobanca che in Generali, per tentare di ingraziarsi l’esecutivo ed evitare di essere tagliato fuori dai giochi.
Nagel può resistere? Con una mossa disperata, ad aprile ha lanciato a sua volta una Ops, l’ennesima, su Banca Generali, controllata del Leone che si occupa di risparmio gestito, offrendo in cambio il suo 13% di Generali, liberandosi così della quota che fa gola agli assalitori, ma è stato costretto a un imbarazzante dietrofront perché non aveva la maggioranza in assemblea dei soci. Senza entrare nei tecnicismi, oggi l’offerta di Mps è a “sconto” sulle azioni Mediobanca di 900 milioni. A Lovaglio potrebbe bastare un rilancio da un miliardo e dispari per convincere diversi fondi e portarsi a ridosso del 50% di adesioni.
Cosa può ostacolare questo piano? Uno stop della procura o un colosso che soccorra Nagel, per ora improbabili. C’è anche chi ipotizza che Mediobanca possa attendere la fine dell’Ops, l’8 settembre, e – libera da vincoli – approvare in cda l’acquisto di Banca Generali, senza passare dall’assemblea, per lasciare terra bruciata agli assalitori, ma Lovaglio può allungare i tempi e portarsi a ridosso di ottobre, quando potrà chiedere la testa di Nagel all’assemblea ordinaria di Mediobanca. Lo spartito dei vincitori prevede poi che Donnet, a sua volta, si faccia da parte e che al massimo entro la primavera 2026 Generali scelga un nuovo Ad. Circolano vari nomi, più o meno vicini a Caltagirone, dall’ex ad della Cassa depositi, Fabrizio Palermo, a Matteo Del Fante di Poste, ma è probabile che, almeno inizialmente, venga scelto un manager interno (si parla del responsabile “insurance” Giulio Terzariol).
La domanda è: cosa cambierebbe per il Paese? Di sicuro il governo acquisterebbe un credito verso ricchi soggetti privati, padroni di un pezzo del sistema finanziario. Che questo possa renderlo più forte è tutto da vedere: nel ’99 D’Alema appoggiò la scalata vittoriosa di Matteo Colannino a Telecom, un anno dopo era già fuori da Palazzo Chigi (e Colaninno fu costretto a vendere).
Generali sarà più sensibile alle istanze politiche in Italia e abbandonerà il piano di Donnet di allearsi con i francesi di Natixis sul risparmio gestito. Per i vincitori si aprono grandi prospettive di guadagno (il valore delle azioni in mano a Caltagirone e Delfin è già salito di tre miliardi grazie al rally di Borsa).
E per i clienti? Per rifarsi dei costi sostenuti (e compensare il calo in Borsa del titolo post scalata), la nuova Mps-Mediobanca potrebbe essere tentata di presentargli il conto. Dopo tutto, dietro queste battaglie c’è l’ambizione di voler controllare il risparmio italiano, che genera profitti senza rischi. Negli ultimi anni le banche hanno fatto affari d’oro grazie ai rialzi dei tassi, dotandosi della potenza di fuoco per giocare al risiko del credito. Ora che la Bce ha tagliato i tassi, i profitti continuano a crescere (+12% per i primi 5 istituti a gennaio-marzo, secondo i dati First Cisl) grazie alle commissioni nette (+13%), cioè i costi fatti pagare ai clienti sui servizi finanziari, che sono tra i più alti in Ue: valgono il 40% dei margini (+10% le masse gestite) mentre i prestiti alle imprese calano e si riducono i costi (-4mila occupati e 514 filiali chiuse). Con la concentrazione bancaria il fenomeno può crescere ancora perché c’è meno concorrenza: oggi i primi 5 istituti hanno il 65% del mercato. D’altronde basta vedere Mediobanca. Con Cuccia ha fatto da regia del capitalismo italiano senza capitali puntellando gli affari scricchiolanti delle dinastie industriali, dagli Agnelli ai Pirelli, ai Pesenti e le loro battaglie di potere. Ora che non c’è più niente, metà dei suoi profitti arrivano dai dividendi distribuiti da Generali, un terzo dai crediti al consumo di Compass e con Banca Generali puntava al risparmio gestito. Qualcosa vorrà pur dire.