La Stampa, 6 luglio 2025
Metà degli italiani teme nuove guerre. Pena per Gaza, paura per l’economia
Gli italiani mostrano una forte preoccupazione per un possibile allargamento del conflitto in Medio Oriente (43,1%), soprattutto in relazione all’ipotesi di un asse, sempre più robusto, tra Iran, Cina e Russia. In questo contesto così delicato anche la Turchia svolge un ruolo strategicamente complesso e cruciale con diverse leve di politica estera e diplomazia molto attiva, mentre Donald Trump si è dichiarato ottimista per un cessate il fuoco a Gaza grazie al suo intervento, elogiato anche dal segretario della Nato Mark Rutte. Il Presidente americano continua a invocare una tregua, ma i fronti in guerra ignorano ogni appello, lasciando spazio solo allo sconforto. In questo “maremagnum”, tra famose telefonate, annunci forti e rinnegati, si declinano quelle che sono le paure degli italiani dinnanzi a tutti i fronti dei conflitti aperti.
Il quadro che si compone è molto realistico e condiviso del sentimento della gente; emergono timori e preoccupazioni non isolati che evidenziano la vulnerabilità e la fragilità percepita a tutto tondo: è la sensazione diffusa di trovarsi sull’orlo di un nuovo fragile equilibrio globale, senza garanzie concrete. Dai dati emerge con chiarezza che i giovani (68,3%), gli anziani (55,1%) e le donne (46,5%) sono i gruppi più spaventati da un’escalation globale. A livello nazionale un cittadino su 3 (29,3%) teme gravi ricadute sull’economia familiare, simili o peggiori rispetto alla crisi energetica post-invasione dell’Ucraina. Paventano che una possibile escalation possa destabilizzare il mercato petrolifero con rialzi rapidi di benzina (che si sono già verificati), gas e bollette. Il 25,8% degli intervistati da Only Numbers nel sondaggio settimanale si dimostra sensibile alla sofferenza civile: le immagini da Gaza, il grido di dolore dei civili, la fragilità di intere generazioni che crescono sotto le bombe colpiscono nel profondo, facendo sentire un cittadino italiano su quattro moralmente coinvolto. Dopo il riaccendersi del conflitto, anche i timori per possibili azioni terroristiche sono tornati al centro del dibattito (20,3%).
A questo si lega la paura di importare cellule radicalizzate e “lupi solitari” attraverso arrivi in massa sulle nostre coste di profughi e immigrati (12,7%). Le preoccupazioni riguardano proprio la capacità di controllo su accoglienza, integrazione e soprattutto sicurezza del nostro Paese, specialmente in un contesto economicamente delicato. L’Italia non è mai stata isolata dai venti del terrorismo e la possibilità che il conflitto –sotto altre spoglie- «arrivi da noi» è sentita. Tutto si riflette in un aumento della pressione politica sui confini, sui centri di accoglienza e sulle missioni nel Mediterraneo. Infine, un po’ più nascosto e defilato, nell’elenco delle paure dei cittadini sugli sconvolgimenti bellici in Medio Oriente, compare il rifiuto di un intervento militare diretto del nostro Paese (17,3%).
Già, l’invio di armi è visto con grande scetticismo e diffidenza da una parte importante del Paese, specialmente se non supportato da forti intese e garanzie internazionali. Queste paure, più che derubricarle come semplici ansie, rappresentano un termometro sociale di una popolazione che si sente esposta a scelte e decisioni che dipendono da diplomazie e accordi molto distanti. La diplomazia è protagonista, anche se poco meno di due italiani su tre (62,1%), bocciano quella dell’Unione Europea. I giudizi più generosi che promuovono sul campo la politica estera della Ue arrivano da un cittadino su quattro (24,8%) a livello nazionale con un pieno sostegno da parte degli elettori di Forza Italia (62,8%) e, un po’ più incerti, ma sempre positivi, da quelli di Italia Viva (42,2%). Su questo fronte i cittadini italiani –e non solo- percepiscono come più efficaci i singoli capi di Stato europei (54,7%) rispetto all’intera Ue (9,2%) nel gestire le crisi internazionali, soprattutto quelle legate al conflitto in Medio Oriente.
I leader come Macron, Merz o Meloni si espongono pubblicamente con dichiarazioni forti e visibili, spesso assumendosi la responsabilità politica immediata, mentre le istituzioni europee, come la Commissione o il Consiglio, parlano con voce collettiva, lenta, spesso troppo tecnica o diplomatica, e quindi percepita come lontana o inefficace. Da tutto ciò si può desumere facilmente che nelle crisi globali gli italiani guardano più a Roma che a Bruxelles. La diplomazia europea non convince, troppo lenta, tecnocratica e frammentata rispetto all’immagine e all’azione dei singoli leader che parlano ai propri cittadini. È un problema strutturale: in un’epoca di crisi globali servirebbe una politica estera europea unita, visibile e autorevole. Se vogliamo che l’Europa sia davvero protagonista, serve meno burocrazia e più coraggio politico, altrimenti, continueremo ad affrontare le sfide globali in ordine sparso, con la diplomazia affidata alle capitali nazionali più che a Bruxelles. La forza di un Paese si misura nella capacità di costruire relazioni, non nei proclami. I cittadini chiedono una politica estera che protegga il nostro domani.