La Stampa, 6 luglio 2025
Stangata fino a due miliardi
Cinquanta sfumature di dazi. Dal 25% solo sulle auto, al 50% sull’import di tutte le merci, fino al 10% ipotizzato come compromesso finale fra le due sponde, la guerra commerciale minacciata dal presidente Donald Trump si colora ogni giorno di una percentuale diversa. E ora è la volta del 17% sulle esportazioni dei prodotti agricoli del Vecchio continente. Tradotto: una potenziale mannaia per l’agroalimentare italiano.
Già, perché se è vero che gli Usa importano la frutta fresca dal Messico, i gamberetti dal Vietnam e l’americano medio mangia il cheddar del Wisconsin, nelle tavole più agiate o nei ristoranti della East e West Coast pasta, mozzarella e parmigiano non mancano.
Con i suoi 835 prodotti tipici a marchio Dop e Igp, il nostro Paese vanta il paniere di cibi e bevande con bollino di qualità più alto di tutti (anche di Francia e Spagna) e, dunque, è quello che ha più da perdere in questo risiko delle tariffe.
Nel 2024, l’export agroalimentare italiano ha toccato il valore piu? alto di sempre: oltre 69 miliardi di euro con un incremento pari, in media, al 7% annuo. Gli Usa rappresentano il secondo mercato di sbocco: 7,8 miliardi di euro (in valore, l’11,6% dell’export totale). In crescita record, rispetto al 2023, di più del 17%. Si tratta soprattutto di “vini e mosti” (da soli rappresentano quasi un quarto delle esportazioni), “cereali, riso e derivati”, “oli e grassi” e prodotti agroalimentari diversi. Non solo. In quasi tutti i comparti produttivi, gli scambi con il mercato statunitense fanno registrare un surplus di bilancio a favore dell’Italia.
Le simulazioni sull’eventuale impatto di un dazio americano fioccano. Il Centro studi dell’associazione di categoria, Confagricoltura stima che una tariffa al 20% avrebbe un impatto negativo di circa 1,6 miliardi di euro (altri temono ancora di più). Il conto più salato lo pagherebbero vini, pasta e riso, olio di oliva. Ma anche formaggi freschi e stagionati, insaccati, liquori. Molto dipenderà dal negoziato in corso. A meno di cento ore dalla scadenza del 9 luglio (fissata da Washington come scadenza della pausa reciproca), l’intesa sembra tutt’altro che a portata di mano.
«Dazi al 17%? Auspichiamo sia una boutade ai fini della trattativa», sottolinea Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura. «Noi restiamo fortemente critici anche verso l’ipotesi di dazio al 10%».
Per la più antica associazione di rappresentanza delle imprese agricole, è necessario un approccio pragmatico di sostegno e rilancio al settore. «Stiamo assistendo a una polarizzazione produttiva» prosegue Giansanti. «Unione europea e Stati Uniti sono grandi potenze agricole, il Sud America è sempre più rilevante nella produzione delle proteine vegetali, l’India si sta imponendo sul mercato, la Cina è un player strategico e la Russia, forse, un giorno tornerà a esserlo. Il rischio di una grande instabilità a svantaggio dei consumatori è reale. L’agricoltura europea è schiacciata dal peso della burocrazia e minacciata da tagli nel prossimo bilancio europeo: per Confagricoltura è inaccettabile. Serve un passo deciso a tutela della nostra produttività».
Non è la prima volta che il made in Italy finisce nel mirino delle ritorsioni commerciali. Durante il suo primo mandato presidenziale, nella ventennale querelle Boeing-Airbus, lo stesso presidente degli Stati Uniti, Donald Trump impose dazi aggiuntivi del 25% su 93 voci agroalimentari tricolore. Ma soltanto la metà era realmente rilevante per lo scambio: la stangata colpì in particolare formaggi, salumi, vini, liquori e ci costò più di 100 milioni.
Non tutti gli esperti della filiera agroalimentare, però, vedono nero. «Se anche dovesse trovarsi un accordo per il 10% in più, non sarà la fine» spiega Lucio Miranda, presidente di ExportUsa, società di consulenza che assiste le aziende italiane a entrare nel mercato americano. «Oggi il prezzo medio di importazione per il nostro prosecco è di 5 dollari e mezzo, ma per il cliente finale può arrivare a costare fra i 25 e i 30 dollari a bottiglia. Il 10% in più sarebbe una differenza di appena 55 centesimi. Non credo inciderebbe sul portafoglio. Piuttosto, occorre evitare i rincari lungo tutta la filiera».
Fra importatore, distributore, grossista, food broker (l’agente di vendita indipendente) e catene di supermercati o al dettaglio, la struttura statunitense è articolata. «E anche molto meno calmierata dell’Italia perché si può procedere facilmente a rincari. Ma esistono tecniche di importazione che consentono di congelare l’eventuale aumento del dazio al suo minimo», conclude Miranda.