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 2025  luglio 05 Sabato calendario

Nonno Jung mi insegnò a piantar patate: "L’astratto mostra le radici nel tangibile"

Intervista pubblicata su Tuttolibri nel 1999
Dieter Baumann è il nipote di Jung e il solo della famiglia che, come il nonno, abbia scelto la strada della psichiatria e della psicoanalisi. Sono venuto a intervistarlo a Bollingen, sul lago di Zurigo, nella casa-torre che Jung progettò e fece costruire per i suoi ritiri. Prima di cominciare, andiamo per colline a comperare dai contadini le rape e le patate che lesseremo insieme al bollito sul fuoco a legna del grande caminetto. Quando stiamo per aprire il cancello di legno da cui si accede al vasto e incolto giardino che circonda la casa, scorgiamo per terra una splendida volpe, morta. Baumann, che ha un senso religioso della natura, mi dice che è assolutamente necessario seppellirla e solo a fatica acconsente alla proposta di farlo dopo l’intervista (quando usciremo, dopo aver chiacchierato e mangiato, la volpe sarà scomparsa).
In questo atteggiamento sembra di riconoscere non solo lo stile personale di Baumann ma lo spirito che egli condivide con Jung e che ha ispirato questa costruzione bizzarra e irregolare, priva di luce elettrica e di acqua corrente (suppliscono candele, lucerne, il fuoco dai camini, la leva del pozzo azionata a mano). Uno spirito del tutto indifferente al ridicolo, giacché ci sono cose infinitamente più importanti del ridicolo, delle buone maniere e della civile conversazione in cui ogni entusiasmo si estenua sino a smarrirsi. La frase che recentemente George Steiner rivolgeva ai giovani, «Non mercanteggiate le vostre passioni», appartiene a quell’universo di discorso nel quale trova posto l’iscrizione latina che più volte Jung ha scolpito con le sue mani sulle pietre di questa casa: «Vocatus, atque non vocatus, Deus aderit». Non si deve sfuggire al proprio dèmone.
Baumann è una specie di grande orso, alto, leggermente curvo, dallo «sguardo penetrante, con un vestito stazzonato e fragorose risate infantili; quanto di più lontano dalla borghese medietà. Assomiglia singolarmente, oltre che al nonno, a questa casa labirintica, di cui non si vede la fine, e in cui si intrecciano vari percorsi: quello svizzero tradizionale, ma anche quello del gioco infantile, quello gnostico, e una specie di ragionata follia che tutti li tiene insieme. Incredibilmente, non è una costruzione Kitsch. Se il Kitsch corrisponde al volere e non potere, la personalità di Jung che interamente la impronta di sé mostra qui quella imbarazzante capacità di prendere sul serio e di portare sino in fondo le proprie intuizioni ed emozioni, che esclude ogni cedimento alla melassa del Kitsch.
Dice Baumann: «In Jung l’astratto, le idee, non erano mai separate dall’immediato, dal concreto, dalle emozioni. Era un uomo molto semplice, un contadino. Mi ha insegnato a vangare, quando ero bambino, durante la guerra, e bisognava piantare le patate. Mi ha anche insegnato a scolpire la pietra. Una volta abbiamo scolpito insieme un dio pagano. Bisogna metterlo sul davanzale della finestra, è un dio che scaccia le nuvole, un dio del buon tempo... Jung era una persona intensa, perché il suo comportamento, il suo corpo e quello che diceva andavano sempre insieme. Anche quando pensava in astratto, cosa che sapeva fare molto bene, sentivi che era completamene presente anche col corpo, a differenza di certi tipi intellettuali, anche fra noi analisti, che sembrano vivi solo a partire dalla testa e sotto sono completamente rigidi. La sua psicologia era il suo vissuto. Cercava sempre di aderire ai fatti».
Baumann è una delle non molte persone viventi che hanno frequentato Jung lungamente, dato che alla sua morte aveva oltre 30 anni.
Quali i suoi ricordi più forti?
«Ricordo la sua concentrazione, quando era seduto sulla sua poltrona e si discuteva; rifletteva e intanto tirava la pipa o il sigaro, e mentre faceva buio la brace diventava più ardente. Questo era uno dei modi in cui si manifestava la sua intensità. Ma era anche molto intenso quando si arrabbiava. Poteva essere impressionante».
Pensa che questa violenza sia l’Ombra di Jung, il suo limite umano?
«Jung ha affermato di se stesso, credo in una lettera, che il suo sentimento era un mostro. Noi sappiamo dalle sue ricerche che la funzione inferiore, quella meno sviluppata, la più arcaica, è mostruosa, eccessiva, violenta. Per esempio, poteva dare dei giudizi di sentimento troppo drastici e generalizzati. Sapeva però tornare indietro e ristabilire una certa distanza».
A proposito di Ombra, che atteggiamento aveva verso la sessualità?
«Non c’era in lui una mistica della sessualità, come in Freud. Jung è cresciuto in un paese di pescatori e di contadini, e sin da bambino assisteva agli accoppiamenti di tori e mucche. Vedeva la sessualità come una forza della natura. Non c’era in lui niente di asessuato, non evocava la sterilità di chi evita la sessualità; no, in lui essa faceva parte del tutto. Certo, parlava in modo completamente diverso con una donna che con un uomo. Faceva un po’ la corte, era seduttivo, o la prendeva anche in giro, ma gentilmente».
Ho l’impressione che i suoi rapporti con gli uomini siano stati più difficili.
«Posso rispondere in modo indiretto. Una volta un collega della mia generazione voleva andare in analisi da Jung; e lui gli rispose: “Senta, sono troppo vecchio, non ho l’energia; ma anche se l’avessi, non la prenderei in analisi”. L’altro, stupito, gli ha chiesto perché e Jung gli ha detto qualcosa come: “Perché la mia creatività impedirebbe la sua"»
Torniamo alla sua infanzia.
«Durante la guerra, nel ’40, c’era la minaccia di essere invasi dai tedeschi. Gli uomini erano tutti al servizio militare. Jung, che era sulla lista nera dei nazisti, ha dovuto sfollare e noi nipoti, con la nonna, le mamme e le zie, siamo andati con lui nel Bernese. Al mattino, il nonno veniva con tutti noi bambini fino a un torrente vicino, ci faceva raccogliere dei sassi e ci ha costruito un castello megalitico. Dopo la passeggiata, dava lezioni di latino a mia cugina e a me. La sera, dopo cena, si riuniva con le figlie e la nuora e leggevano la Bibbia insieme. Credo che lo facesse per evitare il panico, per fare qualcosa che avesse un senso. Certo, il castello lo costruiva per farci giocare, ma era anche un lavoro simbolico: un castello su di un pezzo di roccia in mezzo a un torrente. È proprio quello di cui avevamo bisogno!».
Jung era credente?
«Non nel senso corrente. Era un uomo profondamente religioso, che guardava a ciò che di divino è nell’uomo. Nella sua interpretazione psicologica del dogma della Trinità affermò che la prossima tappa di sviluppo della Trinità sarebbe stata la rivelazione dello Spirito Santo a partire dall’uomo stesso. Egli sapeva che questa è una cosa molto pericolosa perché comporta il rischio dell’inflazione psichica. L’inflazione del superuomo, la sopravvalutazione dell’intelletto e della tecnica, con tutta la tracotanza, la ubris distruttiva, che oggi conosciamo. E difatti scrive di non dimenticare mai che noi siamo soltanto la stalla in cui sta nascendo un nuovo Signore. Questo è fondamentale, perché permette di apprezzare il divino che è in noi senza identificarci con esso. Comunque, la sua immagine di Dio era molto più ampia rispetto all’immagine tradizionale del Cristianesimo. Nella divinità per lui è compreso anche il male, e il femminile, e la rivelazione a partire dall’uomo stesso».
Jung, come Freud, apparteneva all’epoca dei pionieri, e quindi partecipava anch’egli di un certo ottimismo. Le speranze suscitate dalla psicoanalisi si sono oggi ridimensionate. Un libro pubblicato recentemente si intitola “Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”. Cosa ne penserebbe Jung?
«Lo vedeva già lui, e ne era rattristato perché, a suo parere, l’uomo ha bisogno di molta psicologia. Sapeva che il vero pericolo è nell’uomo, nella sua anima. Se non ci rendiamo conto di questo, diveniamo preda dell’inconscio. Ricordo che una volta mi disse che il nostro sviluppo fisico, inteso come possibilità di spazio per il cervello, era arrivato al massimo e che non era più il momento di continuare a svilupparci verso l’esterno, conquistando estroversamente, ma dovevamo muoverci verso l’interno. Da questo punto di vista, egli ha concepito la sua vita come espiazione dell’atteggiamento faustiano che vuole la conquista della natura e il suo asservimento, la strumentalizzazione della natura piuttosto che la conoscenza della propria natura».
Quale era, tra le sue idee, quella a cui teneva di più?
«La necessità di divenire consci».
Malgrado egli dia tanta importanza all’inconscio?
«Proprio per questo. Perché conoscere il ruolo dell’inconscio permette di capire con quali forze si ha a che fare. E se tu le riconosci, sai meglio come comportarti. D’altra parte, è pur vero che il conscio è già nell’inconscio e nasce dall’inconscio. Per esempio: se uno sogna e incontra nel sogno una persona che gli dice qualcosa che egli ancora non sa, questa persona da chi l’ha saputo? A chi appartiene quella consapevolezza? Da questo punto di vista, si può dire addirittura che, quando interpretiamo i sogni, in realtà non interpretiamo i nostri sogni ma aiutiamo i nostri sogni ad interpretare noi».
I pericoli dell’inconscio si manifestano all’interno stesso della prassi analitica.
«Il pericolo è usare la psicoanalisi a fini di potere, perché essa ti dà una chiave per capire delle cose, e di ciò si può fare un uso improprio. Anche il lavoro creativo ne risente. Del resto, si osservano lotte di potere anche fra gli junghiani...».
È di nuovo il tema dell’Ombra, del male che è in noi. Molti hanno detto che l’esigenza di accettare l’Ombra rischia di favorire la relativizzazione di bene e male e dunque la perdita del senso dei valori.
«Ci sono passi in cui Jung afferma che, anche se si accetta l’Ombra, un peccato rimane un peccato. Questo significa che non si può aggirare (Baumann dice escamoter) il senso morale. Il senso morale, la reazione morale, resiste, e usare la psicologia per rimuoverlo è un abuso».
Vuol dire che sempre bisogna pagare un prezzo?
«Certo. Direi che in questo campo è anzitutto importante non rimuovere, nel senso di proiettare all’esterno, il male che è in noi stessi. Se una persona lo rimuove, si considera innocente. Questo è un Kitsch terribile di grande sentimentalismo (dice proprio così, in italiano). Chiunque affermi di essere innocente è di una stupidità abissale. È la trappola di credersi definitivamente nel giusto. Noi sappiamo che l’Ombra è ciò che potenzialmente potrebbe essere conscio e che viene appunto tenuto in ombra perché disturba la luce, l’unilateralità della nostra luce. Ciò che va integrata è dunque la consapevolezza del male. Assimilare l’Ombra non vuol dire fare tutto quello che mi passa per la testa, ma anzitutto rendermi conto di ciò che mi passa per la testa e poi prendere una decisione etica con conoscenza di causa. E se devo fare un compromesso con il male, essere disposto a pagare il prezzo corrispondente».
A proposito del male, di quando in quando si pubblicano articoli sui rapporti tra Jung e il nazismo. Lei cosa ne sa?
«La tesi di una collusione tra Jung e il nazismo è stata già confutata da molti. Io provo a dire ciò che so personalmente. Jung mi ha raccontato che nel 1935 è stato per l’ultima volta a Berlino, dove ha fatto delle conferenze, nelle quali parla in modo indiretto del nazismo e ne segnala il pericolo. Nella pausa dopo la conferenza, o dopo il pranzo, gli hanno chiesto cosa pensasse della svastica. Lui ha risposto che in India ce ne sono di due tipi, una che gira verso destra e porta alla vita, e una che gira verso sinistra e porta alla morte. Quella nazista corrispondeva alla seconda. Allora gli hanno detto: “È una cosa molto interessante, ci deve raccontare di più...”. Lui ha sentito che la situazione diventava pericolosa, è uscito, ha raccolto i suoi bagagli, ha preso il primo treno per Zurigo e non è più tornato in Germania. Ricordo anche un suo allievo, un medico tedesco, che era qui nel ’37 o ’38. Eravamo con lui in auto, mia nonna ed io, e lui ha cominciato a parlare come un nazista, e mia nonna ne è stata completamente choccata. Più tardi, quello stesso uomo ha scritto una cartolina a Jung da Parigi occupata, e mio nonno era sdegnato, furibondo. Il giorno che è scoppiata la guerra, Jung è andato dai vicini, con me e mio fratello, a sentire il discorso di Hitler alla radio. E dopo, lo ricordo come se fosse ieri, ha detto che Hitler era un criminale. Durante la guerra, una delle sue allieve ebree ha fatto la segretaria per lui. Si parlava ogni giorno di politica e della guerra: era completamente contro i nazisti».
Venendo ora alla nostra professione, cosa pensava Jung delle altre scuole analitiche?
«Durante un seminario un analista freudiano gli ha chiesto se lui riteneva valido il metodo freudiano. La risposta è stata: “Ogni metodo è valido purché colui che lo applica ne sia onestamente convinto”. Quando poi gli hanno chiesto quale era il suo metodo in casi di depressione, ha risposto che non era questione di metodo e che, in sostanza, il modo di fare terapia si sviluppa a partire dall’incontro tra il terapeuta e il paziente».
Nelle scuole analitiche oggi si notano due tendenze. Da un lato si moltiplicano le società analitiche che si rifanno allo stesso pensiero, per esempio a quello junghiano; dall’altro, scuole analitiche di diversa origine si avvicinano tra loro, come accade in Inghilterra tra junghiani e kleiniani.
«La prima tendenza mi sembra un fenomeno naturale. L’opera di Jung è un albero con molti fiori ma anche con molti germogli. Tutto va bene quando c’è tolleranza. La cosa comincia a diventare velenosa quando si tratta l’opera di Jung con pretese di esclusività, come se ci fosse un solo modo di interpretare la sua dottrina. Jung stesso ha sempre riveduto i suoi libri ed era anche pronto a rivedere le sue teorie. Quanto al secondo fenomeno, ho partecipato più volte a confronti tra scuole. Non c’è stata mai nessuna frizione, perché avevamo uno spirito comune. Certo, non bisogna confondere i punti di vista».
Concludendo, il suo rapporto con Jung le permette di dire quale mito egli propone all’uomo di oggi?
«Se Jung propone qualcosa, è che ciascuno segua il proprio mito. È una cosa importantissima. Ogni tanto mi imbatto in sogni di pazienti che mi sembrano esprimere il mito di quella persona. Sono sogni che per fortuna dimentico presto. Essi non dovrebbero essere raccontati a nessun altro, perché sono la sostanza di vita di quelle persone. Ci sono cose che una persona non deve raccontare, perché appartengono al suo mito. Ho conosciuto persone che chiacchieravano troppo di sé, e in un caso ho avuto l’impressione che un uomo si sia per così dire chiacchierato a morte. Non amo certe psicoterapie di gruppo, in cui i partecipanti vengono incoraggiati a dire tutto e sono assaliti se non parlano. La mancanza di rispetto rende queste pratiche distruttive».
Più tardi, quando Baumann mi accompagna a visitare la casa, vedo sugli scaffali i molti libri gialli (Wallace, Rex Stout, Stanley Gardner...) di cui Jung era accanito lettore; in soffitta i resti dell’equipaggiamento con cui, negli Anni 20, aveva attraversato l’Africa fino al massiccio del monte Elgon; e un po’ dovunque i suoi policromi dipinti simbolici. Mentre usciamo alla ricerca della volpe che non c’è più, Baumann ancora mi parla di quelli che Jung definiva i suoi waterworks: «Sin dalla mia infanzia ricordo il nonno intento a questo lavoro. Vicino al lago scavava il terreno per isolare certi piccoli rivoli d’acqua e farli convergere in un unico canale, che drena l’acqua dal terreno. Un anno prima della sua morte, quando io avevo già 33 anni, l’ho ancora visto fare lo stesso lavoro. Aveva una racchetta da sci, alla cui estremità aveva attaccato una paletta, come quelle dei bambini, e con questa paletta toglieva i sassolini che impedivano il flusso dell’acqua. Si divertiva, poteva stare lì per delle ore. Una volta in uno di quei canali l’acqua era torbida ma un affluente portava dentro acqua limpida. Alla confluenza quest’acqua limpida, entrando nell’acqua torbida, formava dei bellissimi disegni. Io gliel’ho fatto notare e lui mi ha detto: “Sì, questa è l’influenza”. Alludeva al significato etimologico della parola: una cosa che fluisce dentro un’altra. Questo forse si connette all’inizio della nostra chiacchierata, quando ho detto che Jung era un uomo intero, presente con tutto se stesso in ciò che faceva. Anche in questo caso il concetto astratto – l’influenza – e la cosa concreta che lo genera sono una sola realtà. L’astratto mostra sempre le sue radici nel tangibile. Questo era Jung».