la Repubblica, 5 luglio 2025
West Side Story quando l’opera scoprì l’America
Su una cosa possiamo essere tutti d’accordo: siamo di fronte a un capolavoro. Poi si possono porre delle domande; ad esempio, West Side Story è davvero un’opera come la intendiamo in Europa? O è piuttosto un musical? Uno di quei brillanti allestimenti tipici di Broadway dove si mescolano musica, canto, balletto, mimo, recitazione? Francamente non saprei rispondere anche se alcuni elementi formali farebbero pensare piuttosto a un musical che a un’opera. Conta qualcosa? Assolutamente no. Apro evocando questa vecchia querelle solo per amore della storia e anche per mostrare quale livello il compositore Leonard Bernstein riuscì a raggiungere nel tentativo di dare un elevato fondamento artistico al genere più popolare del teatro musicale americano.
Bernstein era convinto che l’America avesse dato col jazz nuovo alimento alla musica occidentale. Non aveva torto. Si trattava però di prendere quei ritmi, quel dinamismo affidato ad accordi estesi, ripetizioni, cambi d’accento all’interno della stessa frase, elevando tutto a un livello compositivo come solo un grande musicista avrebbe potuto fare. Leonard Bernstein (per gli amici: Lenny) è stato esattamente quel musicista. Grande compositore, pianista, direttore d’orchestra e, non ultimo, appassionato divulgatore musicale in alcuni seguitissimi programmi televisivi (The joy of music).
La prima esecuzione di West Side Story su libretto di Arthur Laurents e Stephen Sondheim, fu al National theater di Washington il 19 agosto 1957. Una ventina d’anni prima (Boston, 1935) era andata in scena un’altra “opera”, Porgy and Bess, con la quale un altro genio musicale, George Gershwin, aveva dato al Paese un lavoro tutto americano e, insieme, uno dei massimi capolavori del teatro musicale del XX secolo. Questi due immensi artisti, entrambi ebrei e, per così dire, d’importazione europea, sono quelli che più si sono spesi per dare alla loro nuova patria un livello musicale che competesse alla pari con la musica del vecchio continente. Gershwin era sceso nel Sud per studiare ritmi fino a quel momento inauditi. Voleva che la cultura afroamericana trovasse una sua adeguata collocazione musicale. Bernstein volle che la straordinaria invenzione del jazz assumesse il posto che meritava nella sua originalità.
Porgy and Bess e West Side Story sono i due capisaldi della loro visione. Se Gershwin aveva puntato sullo slang e il ritmo dei neri del Sud, Bernstein ha invece in mente la città per antonomasia: New York. Non le mille luci di Fifth Avenue o di Broadway ma gli slums del lato occidentale di Manhattan, quello che affaccia sul fiume Hudson, più esattamente “Upper West Side” che negli anni Cinquanta era una zona degradata, oggi in parte riscattata specie dopo l’apertura del Lincoln Center.
L’idea iniziale, riambientare a New York la storia scespiriana di Romeo e Giulietta, era stata del coreografo Jerome Robbins. Il contrasto tra Montecchi e Capuleti nella Verona cinquecentesca del testo originario era diventato uno scontro religioso tra ebrei e italiani durante le festività pasquali. Il progetto non andò avanti, c’erano incertezze sull’esito, Bernstein non era del tutto convinto e per di più era molto impegnato con le sue numerose attività. Ci vollero sei anni perché il progetto maturasse prendendo però tutt’altra piega. Rimase il fondamento di due gio vani innamorati che appartengono a “famiglie” in lotta, adattata però all’atmosfera che cominciava a connotare le grandi città americane, New York in testa. In altre parole, aveva cominciato ad affiorare la questione grave delle bande giovanili con scontri sanguinosi spesso venati di razzismo per il “controllo” di un quartiere. Così, all’iniziale conflitto religioso si sostituì nel testo quello razziale tra gli americani dei Jets e gli immigrati portoricani degli Sharks.
Succede che, durante una serata di ballo in una palestra, Jets e Sharks si ritrovano insieme. Maria, sorella di Bernardo, leader dei portoricani, incrocia lo sguardo con Tony, ex fondatore dei Jets. È amore a prima vista. Le premesse per il dramma incombente sono già tutte qui.
Nonostante il cambio di prospettiva dalla rivalità religiosa a quella tra bande paracriminali di giovanissimi, l’impianto di Romeo e Giuliett a, fatti salvi gli opportuni adattamenti, resta. Per esempio, il doppio suicidio finale dei due innamorati, viene sostituito dalla sola morte di Tony-Romeo, mentre l’opera si chiude con un’invocazione di Maria che, lasciata cadere la sua arma, riesce a metter pace tra i due gruppi prima che un ultimo brano orchestrale concluda l’opera.
Anni di preparazione e ripensamenti, le migliori menti teatrali al lavoro insieme, West Side Story è stato un successo immediato, prima a New York, poi a Londra, poi nel mondo. In palcoscenico, al cinema (compreso un rifacimento di Steven Spielberg) su disco con una registrazione famosa diretta dallo stesso Bernstein che comprendeva voci liriche del livello di José Carreras e Kiri Te Kanawa. Proprio la musica a me pare la parte più importante di questo gioiello. Bernstein vi ha dispiegato la sua sapienza, mettendoinsieme una scrittura sinfonica di alta qualità, arie di cantabilità immediata, numeri tipici della lirica (duetti, quintetti) alternati a squarci orchestrali di eccezionale finezza, momenti di struggente commozione, altri di dichiarato humor. Solo un grande musicista poteva mettere insieme, a quel livello, una classica preparazione da conservatorio con il jazz più avanzato, La sonnambula con Maria Callas (Teatro alla Scala, 1955 regia di Luchino Visconti) con la riabilitazione della musica pop, Benny Goodman al clarinetto, che aveva cominciato studiando musica in una sinagoga prima di diventare “il re dello swing”.
Magnifica l’idea di riproporre questo capolavoro nell’estate romana del 2025. Damiano Michieletto, oggi forse il più inventivo regista d’opera, potrebbe aver fatto un gran lavoro su un testo che evoca così forti richiami contemporanei; quanto al direttore Michele Mariotti, credo che sia la prima volta che deve dirigere all’aperto un’operasolo in apparenza facile, in realtà molto complessa. Come ha confidato in un’intervista a Repubblicaqualche giorno fa: «Spesso quel che sul pentagramma compare in un modo, va suonato con ritmo differente, mobilissimo, così da ottenere lo stile funky, jazz, soul, previsto da Bernstein».
Nemmeno questo è facile. Tempo fa ho sentito un ottimo pianista di severa formazione classica suonare I got Rythm di Gershwin. Tutto impeccabile note, accordi, tempo, dinamica, eppure mancava qualcosa, mancava il jazz. Al massimo si poteva parlare di musica sincopata, come la chiamavano sotto il fascismo. Non ho dubbi che a Caracalla ci sarà anche lui: il jazz.