Sette, 6 luglio 2025
Enrico Berlinguer a Oriana Fallaci: «Il mio comunismo è ragionamento, non fede. In Iran può accendersi la scintilla della Terza guerra mondiale. Cosa non va in Urss? Un regime che non garantisce la libertà»
Intervista pubblicata sul Corriere della Sera nel 1980
ORIANA FALLACI. Onorevole Berlinguer, questa vuol essere un’intervista sul PCI vis-à-vis della crisi internazionale, cioè d’una realtà che rischia di precipitare nella Terza guerra mondiale. Quindi i temi da trattare sono molti e il primo, mi sembra inevitabile, riguarda i vostri rapporti con l’Unione Sovietica. Lo affronto anche pensando all’attacco che la rivista sovietica «Tempi Nuovi» ha scagliato recentemente contro Pajetta: un attacco furibondo, col quale gli chiedevano addirittura da che parte stesse, e suppongo diretto più a lei che a Pajetta. Eppure Pajetta è andato ugualmente a Mosca e, dopo l’incontro con Kirilenko, Ponomariov, Zimianov, Zagladin, ha detto ai giornalisti «che non c’era stato nessun armistizio perché non c’era nessuna guerra in corso». Scusi la domanda brutale: insomma, non rompete mai coi sovietici? Ogni volta sembra che stia per succedere chissà quale terremoto, chissà quale scisma, e invece, passato il temporale, torna a splendere il sole.
ENRICO BERLINGUER. Proprio sole non direi né direi che splende. Basti ricordare le posizioni che in questi sei mesi sono state assunte dal partito sui problemi internazionali: la nostra condanna dell’invasione sovietica in Afghanistan, la nostra mancata partecipazione alla conferenza dei partiti comunisti europei promossa dal PC francese e dal PC polacco, il nostro viaggio in Cina per ristabilire i rapporti col Partito comunista cinese. Prese di posizione alle quali i sovietici hanno reagito coi toni aspri che lei ha rilevato. C’erano stati altri attacchi diretti e indiretti negli ultimi anni, ad esempio sulla questione dell’eurocomunismo, ma niente di simile a quello di «Tempi Nuovi». Però non abbiamo rotto, è vero. E alla sua domanda rispondo: perché è la politica che noi seguiamo. Affermare la nostra autonomia, dire la nostra senza esitazioni, e al tempo stesso mantenere il filo dei rapporti, cioè il dialogo aperto. Coi cinesi non abbiamo fatto così? Eppure le nostre posizioni rimangono diverse anche da quelle dei cinesi, e oggi siamo uno dei pochi partiti comunisti che hanno rapporti sia coi sovietici sia coi cinesi.
A proposito: ma Breznev lo sapeva che sareste andati in Cina?
Sapeva che era nostra intenzione andarci. Glielo dissi l’estate scorsa quando accettai un vecchio invito dei sovietici e portai la mia famiglia a passare le vacanze laggiù. Lo incontrai a Mosca, si parlò di molte cose, della situazione interna dell’Unione Sovietica, dei problemi internazionali e cioè della distensione, del disarmo, del SALT 2, della Cina, e gli dissi che era nostra intenzione ristabilire i rapporti col Partito comunista cinese.
E Breznev?
Rispose: sono affari vostri ma...
Ma...?
Ovvio che la cosa non gli facesse piacere. Sappiamo come i sovietici giudicano la politica cinese.
Sì, ricordo quel viaggio in Crimea, sorprese un po’ tutti. Così anche per questo le chiedo: e se il filo di cui parla fosse un cordone ombelicale? In tal caso la verità sarebbe un’altra: i comunisti italiani non rinunciano al filo dei rapporti perché non riescono a tagliare il cordone ombelicale che ancora li lega all’Unione Sovietica.
Bisogna vedere che cosa intende per cordone ombelicale. Se intende che il nostro partito, come gli altri partiti comunisti, è in gran parte sorto dalla Terza Internazionale di Lenin, cioè sotto l’influsso e l’influenza della Rivoluzione d’Ottobre, allora le rispondo che questo è un dato della nostra storia. Un dato che non intendiamo rinnegare sebbene lo si sia esaminato e lo si continui a esaminare criticamente. Se invece intende vincoli e catene che ci impediscono di agire con indipendenza, allora le rispondo che sbaglia. No, non poniamo mai limiti alla nostra libertà, non ci preoccupiamo mai d’essere in contrasto con la politica estera sovietica. Io non nego che in passato vi siano stati atteggiamenti acritici, dico che negli ultimi anni l’indipendenza del PCI è diventata sempre più evidente. Tuttavia non vogliamo rompere.
Più o meno quel che disse la Trilateral. Nel 1977 la Trilateral fece uno studio sull’argomento e concluse: «Malgrado l’autonomia strategica dalle direttive sovietiche e le distanze prese dal modello sovietico, i partiti comunisti europei non hanno rinunciato a un atteggiamento di fondamentale solidarietà con l’Unione Sovietica, vista come il paese della rivoluzione socialista».
Sì, ma quel discorso contiene una piccola malizia, cioè l’insinuazione che la fondamentale solidarietà si prolunghi nel tempo e qualunque sia la politica dell’Unione Sovietica. Al contrario. Noi giudichiamo la politica sovietica per quello che è.
Sempre in tono pacato o cauto o rispettoso, però. Mai con la passione o lo sdegno che per decenni avete rovesciato sugli Stati Uniti. E questo anche se parlate dei gulag o delle cliniche psichiatriche dentro cui chiudono i dissidenti. In fondo ha ragione Brzezinski quando dice: «I comunisti italiani criticano l’Unione Sovietica per qualcosa, non il regime nella sua interezza».
Ce la sentiamo rivolgere da anni quest’accusa, ed è un’accusa ingiusta. Chi conosce gli articoli, i saggi, i libri, i convegni che abbiamo dedicato all’Unione Sovietica e ai paesi socialisti, alla loro storia, sa che non ci fermiamo sui singoli episodi ma che cerchiamo di analizzare gli aspetti profondi del sistema, scoprire la radice dei fatti negativi. Tuttavia ci rifiutiamo di considerare l’Unione Sovietica solo per i gulag e gli ospedali psichiatrici. Non si può ridurre l’intera storia e l’intero regime sociale di un paese a un gulag e basta, a un ospedale psichiatrico e basta. Non si può condannare l’URSS in toto, metterla all’indice con una specie di scomunica storica. Tantomeno liquidarla come vorrebbe Brzezinski. Brzezinski è un nemico del socialismo, del comunismo, e vorrebbe che l’Unione Sovietica fosse cancellata dalla faccia della Terra. Io no, io questo non posso volerlo. Perché è vero che nell’Unione Sovietica vi sono state pagine nere, delitti terribili, ma io non dimentico che lì è avvenuta la prima rivoluzione vittoriosa dei poveri, degli sfruttati, che lì sono avvenute anche grandi conquiste sociali. Le avrà pur viste se c’è stata.
Io nell’Unione Sovietica ci sono stata una volta sola perché dopo non mi ci hanno voluto più. Anche quest’anno, l’anno delle Olimpiadi, mi hanno rifiutato il visto come a una criminale. Comunque quella volta vidi cose nient’affatto esaltanti, e non solo nel campo della libertà. Ma se il salario di un operaio non bastava a comprare un paio di stivali!
Lei deve considerare le condizioni in cui si trovava l’Unione Sovietica dopo la Prima guerra mondiale, i venti anni durante i quali l’Unione Sovietica è vissuta nell’accerchiamento delle potenze capitalistiche che cercavano di soffocare la Rivoluzione d’Ottobre, i quattro anni della Seconda guerra mondiale, i suoi venti milioni di morti. A ciò aggiunga gli errori e le degenerazioni del periodo staliniano, le spese militari per mantenere parità di armamenti con gli Stati Uniti, e capirà perché le sue conquiste sociali sono limitate. Se poi vuole che le dica quel che non va nell’Unione Sovietica, glielo dico.
Sì, mi piacerebbe.
Un regime politico che non garantisce il pieno esercizio delle libertà, anzitutto. Il che non è cosa da poco, anzi è la cosa più grave, ed è ciò che ci spinge a cercare una via al socialismo diversa da quella. Poi gli aspetti che riguardano la vita dello Stato e del partito, la scarsa partecipazione dei lavoratori alla vita politica del paese. Infine gli interventi militari in Cecoslovacchia e in Afghanistan. Entrambi assai gravi.
Perché, quello in Ungheria non fu grave?
Fu un caso un po’ diverso. Infatti noi comunisti italiani non esprimemmo dissenso. Considerammo che fosse in atto un tentativo pericoloso per la situazione internazionale, cioè che l’insurrezione rischiasse di portare alla guerra, come dimostrò il quasi contemporaneo intervento anglo-francese a Suez, e... Sì, lo so che si trattava di operai, di studenti, di popolo. Lo so. Ma l’insurrezione stava passando nelle mani di forze reazionarie, pensi al cardinale Mindszenty, e comunque l’atteggiamento del PCI fu quello. Un atteggiamento che a ventiquattr’anni di distanza può anche essere criticato sebbene dicessimo: «Questa è l’ultima volta che accettiamo di veder risolvere le cose militarmente». E mantenemmo la parola: per la Cecoslovacchia avremmo assunto una posizione ben diversa. Da un certo punto di vista il caso della Cecoslovacchia fu il più grave perché lì era in atto un esperimento di grande interesse, mantenere un regime socialista allargando il processo democratico, e i sovietici lo soffocarono. Da un altro punto di vista invece è più grave il caso dell’Afghanistan perché lì le Forze Armate sovietiche si sono spinte fuori dell’area contenuta dal Patto di Varsavia. Ma sull’Afghanistan suppongo che abbia molte cose da chiedermi.
Sì e, per incominciare, il fatto che non tutti nel PCI la pensino come lei e gli altri dirigenti. Soprattutto alla base, ma non solo alla base. Ho qui l’intervista che «Rinascita» fece in gennaio a Ingrao, e guardi: più Ingrao si esprime contro l’intervento, più l’intervistatore insiste nel ricordargli che molti compagni non approvano la condanna e approvano l’intervento. Sì, nell’intervista si dice sempre «intervento», mai «invasione». Sicché uno potrebbe chiedersi: ma è Berlinguer o è il PCI contro l’invasione dell’Afghanistan?
Berlinguer?! Ma come Berlinguer?! Il PCI si è espresso nettamente e subito! Prima attraverso la direzione del partito, poi attraverso il Comitato Centrale, poi attraverso le segreterie delle federazioni, i comitati federali, le sezioni, tutte le varie organizzazioni. Tutte. D’accordo, c’è un certo numero di compagni che non approvano. Ma secondo me sono molti di meno di quanto lei crede, e il fatto che esistano non ha influito sulla chiarezza della nostra posizione. Inoltre penso che il loro dissenso si sia manifestato soprattutto all’inizio e che dopo sia diminuito notevolmente. Sa, non ci vuol molto a capire che un regime rivoluzionario non si regge con un esercito di occupazione. Lo dimostra la forte resistenza che il popolo oppone in tutto il paese.
Enrico Berlinguer: «Il mio comunismo è ragionamento, non fede. Se avessi dubbi non lo direi a lei. Ma a me sì»
Regime rivoluzionario, rivoluzione o colpo di stato?
Secondo me, quella che chiamano «rivoluzione dell’aprile 1978» fu piuttosto un colpo di stato, un colpo di mano. Secondo me, questa rivoluzione afghana era già allora una cosa estremamente discutibile. Errori estremistici, avventuristici, riforme attuate in modo troppo radicale come la riforma agraria che suscitò l’opposizione perfino dei pastori e dei contadini. Poi la politica antireligiosa, e in un paese così religioso. Infine, la sanguinosa lotta per il potere tra le due fazioni del partito. Data questa situazione, il comportamento dell’Unione Sovietica è inspiegabile anche da un punto di vista razionale. Che bisogno c’era di forzare la situazione e renderla internazionalmente pericolosa? Perfino ai tempi del re la politica dell’Afghanistan era di buon vicinato con l’Unione Sovietica, e nel 1973 c’era stata una rivoluzione repubblicana che aveva portato riforme liberali e democratiche. Quasi ciò non bastasse, c’era stato il colpo di stato del 1978, fatto da ufficiali che avevano studiato nelle scuole sovietiche come Taraki e Amin.
Onorevole Berlinguer, perché non ammette che la spiegazione esiste, cioè che l’Unione Sovietica è la solita vecchia Russia degli zar e Breznev vuole occupare l’Afghanistan come volevano occuparlo gli zar, vuole giungere al Golfo Persico come volevano giungervi gli zar. Riporti il discorso indietro di cento o centocinquant’anni e vedrà che resta il medesimo.
No, perché ritengo che il regime sovietico sia radicalmente diverso dal regime zarista. Non ci sono più i grandi proprietari del latifondo, non ci sono più i grandi capitalisti cioè le forze che sostenevano l’espansionismo zarista, non ci sono più quelle forme di miseria e arretratezza e ignoranza. E non si può dire che la politica estera di Breznev sia uguale a quella degli zar. Che poi l’Unione Sovietica si comporti da grande potenza e ambisca a influenzare la realtà mondiale, bè, su questo non c’è dubbio. (...)
Chiamiamo le cose col loro nome, onorevole Berlinguer. Diciamola questa parola che voi comunisti usate sempre per gli Stati Uniti, e a ragione, però mai per l’Unione Sovietica: la parola imperialismo. E che, l’Unione Sovietica non è imperialista?
Se per imperialismo lei intende politica di grande potenza, allora si può parlare di imperialismo per tanti paesi, fin dai tempi più antichi. Ma nell’analisi scientifica che di questo concetto hanno fatto i marxisti, e non solo i marxisti, l’imperialismo è legato alla formazione dei monopoli capitalistici e allo sfruttamento economico degli altri paesi.
Dunque, a parer suo, l’Unione Sovietica non è imperialista. Ah, quel cordone ombelicale! E io che credevo di trovarla arrabbiata con l’Unione Sovietica, io che credevo di ascoltare solo risposte capaci di convincermi che il PCI non è più il partito di «Ha da veni’ Baffone!».
Infatti non lo è. Ma è un partito comunista, non è un partito liberale. Noi siamo comunisti, lei lo dimentica. Lo siamo con originalità e peculiarità, distinguendoci da tutti gli altri partiti comunisti: ma comunisti siamo, comunisti restiamo. Siamo nati e viviamo per combattere il capitalismo, cancellarlo, e lei non può portarmi a ragionare non dico come Brzezinski ma come un liberal americano. O come un socialdemocratico tedesco o come un laburista inglese. Anche se in me vi sono alcuni punti di contatto coi liberal e coi socialdemocratici e coi laburisti, ripeto: rimango un comunista. Quanto all’essere arrabbiato, e a parte il fatto che io non mi arrabbio mai, lei vorrebbe spingermi all’invettiva. Ma io le invettive non le lancio contro nessuno, non mi piace scagliare anatemi, gli anatemi sono espressioni di fanatismo e v’è troppo fanatismo nel mondo. Ognuno si porta addosso il fardello delle sue ideologie, le sue religioni, le sue convinzioni, giudica le cose in quella prospettiva e basta, e anche per questo il mondo va male. Bisogna sforzarsi di ragionare in termini logici, storici, critici.
Non si tratta di lanciare invettive, scagliare anatemi, onorevole Berlinguer. Si tratta di dire imperialismo quando di imperialismo si tratta.
Ma io cerco sempre di evitare giudizi drastici, sia che parli dell’Unione Sovietica sia che parli degli Stati Uniti o della Cina. Io non mi spingo mai su posizioni estremiste: «I sovietici sono i nuovi zar, no, i sovietici sono puri e scevri da ogni desiderio di dominio. Gulag o regime di libertà?». L’Unione Sovietica non è né l’una né l’altra cosa, è una realtà complessa e contraddittoria che include progresso e repressione, difesa della pace e fisionomie di grande potenza, che vuole allargare la propria area di influenza. Tutta la vita è così. Anche la vita degli uomini, dei gruppi sociali. La vita è fatta di bene e di male, e vedrà che quando parleremo degli Stati Uniti mi esprimerò nello stesso identico modo.
Intanto concludiamo sui sovietici che secondo lei non sono imperialisti però stanno in Afghanistan dove non hanno mantenuto nemmeno la promessa di ritirare diecimila truppe, ne hanno ritirate soltanto tremila sostituendole con truppe fresche e addestrate all’antiguerriglia, e questo mentre Mosca continua a dire che «i colloqui sull’Afghanistan potranno incominciare soltanto quando non vi saranno più interferenze straniere in quel paese». Ma ci prendono tutti per cretini?
In realtà, ne convengo, è un po’ curioso parlare di interferenze straniere quando si sta lì con un esercito. E va da sé che le interferenze di altri paesi esistono: interferenze di Stati vicini e, dietro questi, anche gli Stati Uniti. Comunque chiedere il ritiro delle truppe non basta: bisogna cercare una soluzione politica. Cioè una soluzione che restituisca al popolo afghano la sua sovranità, il suo diritto a scegliere il governo che vuole, e che al tempo stesso tenga conto d’un dato di fatto: la necessità che ha l’Unione Sovietica di sentirsi sicura ai confini. In altre parole, bisogna che l’Unione Sovietica sia tranquillizzata sul regime che succederebbe all’attuale regime di Kabul: bisogna che il nuovo regime non le sia ostile. Discorso che vale anche per il Pakistan e l’Iran, Stati confinanti.
Ma questo significa tre Stati comunisti! Tre invece di uno!
No, vi sono paesi che hanno regimi non comunisti e che tuttavia garantiscono la sicurezza dei loro vicini. L’Austria ad esempio. L’Austria è un paese neutrale, nessuno può dire che sia sottoposta a interferenze esterne, e tuttavia ha uno status quo internazionale che viene considerato soddisfacente sia dagli Stati Uniti e dai paesi appartenenti alla NATO sia dall’Unione Sovietica e dai paesi appartenenti al Patto di Varsavia.
E lei crede davvero che l’Unione Sovietica si accontenterebbe di un Afghanistan neutrale come l’Austria?
Bisogna provarci tenendo conto che la situazione è quella che è. Perché, se l’Unione Sovietica non si sente tranquilla ai confini, il suo esercito di occupazione rimane dove sta.
E se per garantirsi tale sicurezza l’Unione Sovietica finisse col prendersi anche l’Iran? Hanno ammassato decine di migliaia di truppe lungo i confini di quel paese, sia dalla parte del Mar Caspio che dalla parte dell’Afghanistan, e Krusciov diceva: «L’Iran è una pera marcia, basta aspettare che cada».
Non so che cosa intendesse dire, con quella frase, Krusciov. Certo, la situazione in Iran è tale che potrebbe accendere la scintilla della Terza guerra mondiale. Ad esempio, se il blitz americano fosse riuscito, con molte probabilità sarebbe esplosa la guerra.
Non diamo sempre la colpa agli americani, o agli americani e basta, onorevole Berlinguer! Prima di quel ridicolo tragico blitz nel quale non sono morti che americani, gli americani erano stati molto pazienti.
Sì, c’è stata molta pazienza. Però sono mancati gli atti positivi, cioè le iniziative adatte a risolvere il problema degli ostaggi. Tutti abbiamo chiesto la liberazione degli ostaggi, tutti. Ma, di nuovo, chiedere non basta. Anche prima che l’ambasciata americana venisse occupata, il governo americano non ha fatto nulla per riconoscere la nuova realtà dell’Iran, la rivoluzione avvenuta. Non dico che sia una realtà che debba necessariamente piacere, non piace neanche a me, però rimane il fatto che una rivoluzione c’è stata e che gli iraniani dopo essersi liberati dello scià continuano a sentirsi profondamente offesi dagli Stati Uniti. Lei viene dagli Stati Uniti, quindi sa meglio di me che il popolo americano si sente profondamente offeso per la faccenda degli ostaggi, però mi dica: cosa ha fatto il governo americano per spiegare al popolo americano che anche gli iraniani si sentono profondamente offesi per la politica fatta per tanti anni dagli Stati Uniti in Iran?
Sta dicendo che Carter avrebbe dovuto restituire lo scià a Khomeini?
No, questo no. Non lo avrei fatto nemmeno io. Ma nessun atto positivo è avvenuto e sei mesi di pazienza sono stati cancellati da un blitz assurdo.
Eccoci dunque arrivati al tema dei rapporti fra il PCI e gli americani. Esaminiamoli ricordando che tali rapporti erano del tutto chiusi al tempo di Nixon e che Kissinger diceva: «Nessun partito comunista è mai stato organizzato democraticamente, nessuna organizzazione comunista è mai stata in contrasto con l’Unione Sovietica in politica estera, nessun partito comunista ha mai diviso il potere con altri partiti».
Mi consenta di premettere che noi comunisti italiani non viviamo nell’ansia di ricevere riconoscimenti dai dirigenti degli Stati Uniti né, ripeto, dell’Unione Sovietica o di altri paesi. Possiamo comprendere le preoccupazioni che gli americani hanno riguardo all’Alleanza atlantica: sono preoccupazioni anche nostre; possiamo essere interessati a conoscere i loro giudizi su di noi perché sono giudizi legati ai buoni rapporti che l’Italia deve avere con l’America e quei buoni rapporti ci premono: però non viviamo nell’ansia che ho detto e rifiuto i verdetti di Kissinger secondo il quale la partecipazione al governo d’un partito comunista occidentale significherebbe necessariamente un punto a favore dell’Unione Sovietica. Gli americani che ragionano come lui hanno un’idea vecchia e deformata del PCI, e non solo sul tema dei nostri rapporti con l’Unione Sovietica ma sulla nostra concezione del socialismo. Non capiscono o non vogliono capire che rispettiamo l’Alleanza atlantica e che il nostro obiettivo non è prendere il potere da soli come Partito comunista: è partecipare a una coalizione di governo con altre forze democratiche e di sinistra secondo le regole della democrazia e della Costituzione.
Però siete comunisti. Non siete liberali, non siete socialdemocratici, non siete laburisti; siete comunisti e restate comunisti: me lo ha ricordato lei. Ed è una verità sacrosanta che, quando un Partito comunista è andato al potere, c’è rimasto. Sicché, è lecito temere o sospettare che voi fareste lo stesso.
È successo anche che dal potere fossimo cacciati con la forza. È successo in Spagna dove eravamo al governo con altri partiti democratici, è successo in Ungheria nel 1919. Comunque in questi dubbi, in questi ragionamenti, c’è qualcosa di metafisico. Perché partono tutti dalla natura del Partito comunista, senza considerare che in politica la natura non esiste. O esiste ma non è immutabile: neanche per i comunisti. Tante cose che non sono mai avvenute possono avvenire e anzi avvengono: trent’anni fa chi avrebbe previsto comunismi ostili all’Unione Sovietica? Pensi alla Cina. Noi comunisti italiani siamo ciò che di noi ha fatto la storia italiana, l’esperienza italiana, le nostre riflessioni sul comunismo internazionale. Riflessioni grazie alle quali abbiamo concluso che la sola via per giungere al socialismo è la democrazia.
Quando intervistai William Colby, l’ex capo della Cia, e gli dissi che i comunisti italiani sono sempre stati al gioco democratico, mi rispose secco: «Tattica, tattica».
Colby può pensarla come vuole ma sta di fatto che se deviassimo un solo istante dalle regole che abbiamo predicato e praticato per anni, cioè il rispetto per la democrazia e l’osservanza più rigorosa della Costituzione, perderemmo non soltanto l’elettorato non comunista ma anche le nostre masse. Chi crede che vi sia in noi chissà quale arrière pensée, fine nascosto, dovrebbe chiedersi: come si fa a trascinare le masse a credere in una bugia per tanto tempo? Senta, io non ho dubbi sulla nostra buona fede, a incominciare dalla mia.
Neanch’io dubito della sua buona fede ma se essa non fosse la buona fede di tutto il suo partito, Berlinguer potrebbe diventare il Kerenski della situazione.
Questa poi! Lei si rifà sempre al periodo di «Ha da veni’ Baffone», quando molti militanti si illudevano che il comunismo in Italia potesse vincere anche attraverso l’aiuto dell’Unione Sovietica. Ma le loro illusioni non corrispondevano alla politica del partito, e la politica del partito non era un trucco. Dopo s’è ben visto che non lo era. E poi lei dimentica un fatto: i partiti comunisti che andando al potere hanno cacciato o soppresso gli altri partiti appartengono tutti all’Europa orientale, al blocco sovietico. Noi comunisti italiani apparteniamo all’Europa occidentale, all’Alleanza atlantica. Non è una garanzia?
Anche Marchais appartiene all’Europa occidentale, eppure guardi che voltafaccia ha fatto: com’è tornato all’ovile. E che dire di Cunhal?
Secondo me Marchais non è tornato all’ovile. Sul problema dell’Afghanistan ha certamente preso posizioni diverse dalle nostre, ma escludo che le abbia prese dietro pressioni sovietiche. Quanto a Cunhal, è vero che le sue concezioni sono diverse dalle nostre ma non mi pare che il PC portoghese rifiuti le regole della democrazia. (...)
Onorevole Berlinguer, lo sa che cosa dice Brzezinski sui partiti comunisti dell’Europa occidentale? Dice: «Il PC portoghese è nel migliore dei casi in una fase di destalinizzazione ma in maniera ambigua. Il PC italiano sta più avanti ma è ancora presto per dire se ha completato il processo di destalinizzazione e andrà oltre. Il PC spagnolo è il più avanti di tutti. Ma nessuno di loro ha incominciato il processo di destalinizzazione».
A parte il fatto che io non accetto la pagella di Brzezinski, che non mi riconosco nei voti che egli ci dà come se fossimo bambini a scuola, Carrillo più bravo di me e io più bravo di Cunhal, ho l’impressione che Brzezinski sia ossessionato dal sistema sovietico e che pensi qualcosa di analogo a quello che pensava Foster Dulles per cui uno scopo finale della politica americana doveva essere il ritorno del capitalismo nei paesi socialisti dell’Europa orientale. Bè, una cosa è andare verso la liberalizzazione e la democratizzazione, una cosa è tornare al capitalismo, sicché temo proprio che il signor Brzezinski parta da categorie mentali e metri di misura del tutto opposti ai miei. Io non ho alcuna intenzione di iscrivermi alla DC, e neanche di diventare craxiano, se egli preferisce Craxi alla DC. Non ho intenzione nemmeno di iscrivermi al Partito liberale. Inoltre Brzezinski ignora che a partire dal 1956 noi abbiamo incominciato la revisione critica dell’opera e del pensiero di Stalin. E, recentemente, anche la revisione critica dell’opera e del pensiero di Lenin.
Vuol chiarire che cosa intende per revisione di Lenin?
Sì. Noi non identifichiamo Lenin con Stalin, perché pensiamo che nel patrimonio teorico di Lenin vi siano insegnamenti validi. Insegnamenti, badi bene: niente di più. Infatti nel nostro ultimo congresso abbiamo tolto dallo statuto l’espressione «marxismo-leninismo» e ora il preambolo dice: «Riaffermando il carattere laico e razionale, il PCI si riconosce nella tradizione ideale e culturale che ha la sua matrice e ispirazione nel pensiero di Marx ed Engels e che dalle idee innovatrici e dall’opera di Lenin ha ricevuto un impulso di portata storica. All’arricchimento di tale patrimonio il PCI contribuisce, nel solco di riflessione critica tracciato dagli scritti di Antonio Labriola e dall’opera teorico-politica di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, con la sua elaborazione originale sempre aperta al confronto con tutte le correnti del pensiero moderno». Mi sembra un notevole superamento di ogni carattere ideologico del partito: parlare di «patrimonio ideale» a proposito di Lenin non significa riferirsi a qualcosa di fisso, di immutabile. Del resto, in altre occasioni, ho parlato anche di Vico, Cavour, Machiavelli...
Chissà che salto avrà fatto Colby: «Visto? Machiavelli, Machiavelli!».
Temo anch’io che molti americani non conoscano bene Machiavelli, che in Machiavelli vedano colui che vuole usare la politica come inganno e non il fondatore della politica moderna, cioè della politica intesa come scienza autonoma dalla religione e dall’ideologia. E in quel senso Machiavelli ha per noi grande valore.
Onorevole Berlinguer, avevo incominciato citando Kissinger e Brzezinski per arrivare al fatto che durante l’amministrazione Carter qualcosa è cambiato nei confronti dei comunisti italiani, europei. Napolitano e Pajetta hanno avuto il visto per recarsi in America, ad esempio, e così molti altri. A un certo punto sembrava che ci andasse anche lei: lo seppi dalla New York University che l’aveva invitata. Invece tutto naufragò. Perché?
Ho ricevuto anche altri inviti da altre università in questi anni. Per dare conferenze, partecipare a dibattiti. Non li ho mai accolti perché ho giudicato che il momento non fosse maturo. Vorrei andare in America quando un contatto con gli ambienti accademici e anche politici risulti più utile di quanto lo sarebbe stato in passato o in quest’anno di elezioni. Sì, bisogna che ci vada quando una mia visita rappresenti un vero passo avanti nei rapporti tra i comunisti italiani e l’opinione pubblica americana.
Chissà come sarà contenta, quel giorno, la rivista sovietica «Tempi Nuovi».
Le assicuro che il giudizio di «Tempi Nuovi» non mi interessa proprio. Del resto mi pare che il mio viaggio in Cina non abbia fatto molto piacere ai dirigenti sovietici: vedermi andare in America non sarebbe più grave per loro che vedermi andare in Cina.
E, politica a parte, non è curioso di conoscere l’America?
Guardi, l’America come paese ha sempre interessato i dirigenti comunisti: anche nei primi tempi della rivoluzione sovietica. Già allora sapevamo che in America ci sono molte cose da imparare: l’efficienza, lo spirito di iniziativa, le enormi possibilità di studio e non solo nel campo delle ricerche scientifiche. Inoltre non dovremmo dimenticare che il femminismo in Europa deve molto al femminismo americano: le prime idee sono venute di lì. Sulla realtà sociale non vorrei pronunciarmi prima di averla vista coi miei occhi ma, certo, a parte il vantaggio di spiegare la nostra politica agli americani e ascoltare quel che essi hanno da dirci, ho per l’America una grandissima curiosità. Personale e culturale. Sa qual è una delle cose che mi incuriosiscono di più? Capire perché la gran maggioranza della classe operaia americana non aspira a cambiare il sistema sociale. Un motivo deve pur esserci. E poi mi incuriosisce l’alienazione dell’operaio. È un’alienazione che si direbbe nasca anche dal benessere. Queste cose vanno studiate.
Scusi ma qui devo aprire una parentesi che forse a lei sembrerà un poco frivola. Una volta chiesero a Tito che cosa sarebbe diventato se fosse emigrato in America, come voleva fare da ragazzo. E Tito rispose, serio: «Un miliardario, naturalmente». Lei che cosa sarebbe diventato se fosse emigrato da ragazzo in America?
Un miliardario certamente no. Anzitutto perché ritengo immorale essere miliardari, poi perché non ho mai desiderato diventare ricco. Mai. Capisco lo spirito in cui Tito pronunciò quella battuta ma, lo stesso, inorridisco all’idea che avrei potuto diventar miliardario ed escludo che quello sarebbe stato il mio destino. Forse sarei diventato, non so, vediamo...
Professore in qualche università. Professore di matematica.
Non c’è andata lontano perché, se mi chiede che cosa volevo fare da ragazzo e cioè prima di darmi alla politica, le rispondo: il filosofo. E oggi poche scienze sono conciliabili come la matematica e la filosofia. In Italia questo filone, incominciato con Galileo, morì in parte per colpa di Vico e poi di Croce. In America invece è stato sviluppato come doveva. Sì, negli Stati Uniti, come del resto in Inghilterra, s’è compiuto un gran passo avanti nel superamento della filosofia intesa come scienza esclusivamente umanistica.
Questa sua risposta mi incanta perché ho sempre l’impressione, a osservarla, che lei dica a sé stesso: «Ma guarda dove sono capitato, ma guarda in quale ambiente mi ritrovo». Insomma, io la vedo più come uno studioso, un teorico, che come un politico e un segretario di partito. E a volte mi chiedo: ma quell’uomo è contento di fare quello che fa? Gli piace?
Sono relativamente contento di fare il segretario del partito nel senso che non ho mai cercato questa carica, non l’ho mai desiderata, ed è una carica pesante: una carica che porta molti inconvenienti. Però sono contento di fare il militante comunista, e stare in politica mi piace. Per usare le sue parole, sì, è un’attività brutale. Ma non vorrei aver fatto un’altra cosa e non ho mai avuto rimpianti d’aver scelto questa via.
Chiusa la parentesi che, vede, non è poi risultata tanto frivola. E mi dica: come commenta la simpatia che Washington dimostra da qualche tempo per i socialisti italiani? Laggiù si dice che Washington punti su di loro, ormai.
Se è così le ricordo che aver puntato su Soares, in Portogallo, non ha portato fortuna a Soares: la sua è stata una parentesi effimera. Il fatto è che i dirigenti americani sono ossessionati dall’idea di evitare a ogni costo la partecipazione dei comunisti italiani al governo e così si orientano sempre sulla bussola erronea di quale-uomo-o-partito-possa-maggiormente-contribuire-a-quel-fine. Per lunghi anni l’ago della bussola ha puntato sulla DC, e credo che tutto sommato ci punti ancora, ma oggi guardano con interesse a Craxi pensando che attraverso l’alleanza con la DC egli possa impedire o ritardare l’avvento dei comunisti al governo. Il mio commento non può essere che questo: gli americani hanno compiuto moltissimi errori nei confronti dell’Italia e dell’Europa occidentale. Per non parlare di quelli commessi nell’America Latina. Pensi al Cile. E questo dovrebbe renderli più attenti, più realisti. Ma dicendo ciò non voglio creare equivoci, far credere che io sia alla ricerca di avalli americani. Questo sia per ragioni di principio sia perché mi rendo conto che è lontano il giorno in cui gli americani grideranno: «Viva il Partito comunista italiano».
Certo non si può dire che quel giorno lontano possa diventar meno lontano grazie alla mediazione del PSI e del suo segretario. Mi sbaglio o in quel comizio a Milano egli vi ha attaccato con mano pesante e vi ha minacciosamente avvertito che «chi va contro il PSI si rompe la testa»?
I rapporti tra i due partiti stanno attraversando una fase difficile. Perché è in atto un tentativo di portare il PSI fuori del suo filone tradizionale, cioè di un partito socialista di sinistra, e non sono poche le critiche che noi gli muoviamo. Per esempio il fatto che, pur restando al governo e con molti ministri, il PSI non abbia mai fatto nulla per far sentire la sua voce sia in politica estera sia interna. Non si è mai distinto in niente dalla DC. Inoltre, e noti il linguaggio misurato che sto usando, il PSI ci sembra un po’ troppo lanciato a rincorrere posizioni di potere: non solo nel governo ma nei vari gangli della vita pubblica ed economica. Voglio dire, invece di battersi contro il sistema di potere della DC, il PSI cerca di inserirvisi per prendere la fetta più grossa possibile. Senza contare altri fatti strani come la politica che fa coi radicali. A me sembra perlomeno bizzarro che un ministro socialista della Difesa firmi la richiesta di un referendum per abolire i tribunali militari. Altrettanto bizzarro che, su questo, egli pensi di presentare in Parlamento un progetto di legge. Comunque il dialogo col PSI noi lo teniamo aperto, continuiamo a tendere la mano come facciamo con le forze cattoliche progressiste. Ma non vorrei che queste parole fossero interpretate come un atto di condiscendenza.
E alle prossime elezioni americane come guarda? Glielo chiedo pensando a una battuta che circola da tempo negli Stati Uniti: «Carter o Reagan? Rispondi o sparo». E il cittadino risponde: «Spara».
Avrà capito che «questo o quello o sparo» non è il mio modo di metter le cose. Perché non è realistico, non è razionale. E poi sa, in America è sempre stato difficile far previsioni sul candidato che vincerà e sul modo in cui si comporterà da eletto. Vi sono stati presidenti che hanno promesso tante belle cose e poi non le hanno mantenute, presidenti che hanno fatto buone cose senza averle promesse: sia in politica interna che estera. Infatti se mi chiede qual è il presidente migliore che gli americani hanno avuto nel corso della nostra vita, la risposta è scontata perché le dico Franklin Delano Roosevelt: l’uomo del New Deal e del grande impegno americano per schiacciare il nazismo e il fascismo. Ma se mi chiede un altro nome dopo quello di Roosevelt, sono certo di sorprenderla. Perché quel nome è Gerald Ford.
Ford?! Lo sa che cosa dice Ford? Dice che il vostro eurocomunismo non è comunismo dal volto umano ma stalinismo mascherato e tirannia travestita.
Chiunque ha il diritto di sbagliare e dire assurdità. Resta il fatto che da un punto di vista internazionale Ford è stato un presidente abbastanza saggio. Perché aveva capito quel che Carter non ha capito, che Brzezinski non ha capito: per mantenere la pace nel mondo, l’America deve avere buoni rapporti sia con l’Unione Sovietica sia con la Cina. Non deve giocare né la carta cinese contro l’URSS né la carta sovietica contro la Cina. (...)
Questo Kissinger lo aveva capito. Fu lui ad aprire il dialogo con la Cina mantenendo quello con l’Unione Sovietica.
Sì, lo aveva capito. Ma non aveva capito altre cose: lui seguiva il concetto, poi chiarito in modo brutale da Sonnenfeldt, secondo cui l’Unione Sovietica poteva fare ciò che voleva nella sua area e gli Stati Uniti nella loro. La suddivisione delle sfere d’influenza, insomma. E non so immaginare una politica più negativa anche perché, alla lunga, non regge alla realtà multipolare che sta prendendo il posto della realtà bipolare. Realtà, questa, che Cyrus Vance sembra aver compreso assai bene. Oggi molti paesi non accettano che le loro sorti siano decise dagli Stati Uniti o dall’Unione Sovietica. Anche alla Conferenza dell’Avana, alla fine, ha prevalso una linea di non allineamento rigoroso.
C’è modo e modo di non allinearsi. C’è quello di Tito e quello di Castro.
Bisogna vedere quel che intendono fare gli Stati Uniti per evitare che l’indipendenza di Cuba rimanga legata così strettamente al sostegno anche economico dell’Unione Sovietica. Non mi pare che gli Stati Uniti facciano molto in quel senso. E io credo che Castro tenga soprattutto all’indipendenza di Cuba. Castro ha ereditato un passato di miseria, sì, ma anche di dipendenza dall’America. E non vuole ricaderci.
Non le chiedo nulla di Castro altrimenti devo chiederle anche che cosa pensa della fuga dei cubani da Cuba, poi della fuga dei vietnamiti dal Vietnam, poi delle guerre che i paesi comunisti si fanno fra loro, e quindi se le capita mai di pensare che il socialismo sia fallito alla prova. Un simile tema ci porterebbe lontano.
Questo si chiama mettere le cose in modo duro. Bè, anzitutto non è che i paesi comunisti siano comunisti e basta: sono nazioni coi loro conflitti di interessi, rivalità, risentimenti, senza contare le loro diverse formazioni ideologiche e i loro fanatismi. Se pensa a quel che è stata la Rivoluzione culturale in Cina, se pensa che anche Pol Pot credeva d’essere comunista e nessuno può concepire una forma più aberrante e più ripugnante della sua ideologia comunista... Ma il discorso ci porterebbe lontano, ne convengo. Così le rispondo soltanto no, non penso che il socialismo sia fallito alla prova. Perché il socialismo anzi il comunismo come lo vedo io non esiste in nessuna parte del mondo e quindi non penso che questa prova ci sia veramente stata. Il socialismo è ai suoi primi albori, vive la sua prima giovinezza, e quella che può essere guardata come la sua prova iniziale gronda drammi, sì, contraddizioni, vizi, ingenuità, delitti, ritorni indietro, tragedie come quelle avvenute durante le rivoluzioni borghesi, sì. Ma sono le tragedie che accompagnano il sorgere di un mondo nuovo.
Gli americani pensano che oggi il SALT 2 ratificherebbe uno squilibrio a favore dell’Unione Sovietica perché, mentre i Pershing e i Cruise non sono stati ancora installati, neanche fabbricati, i sovietici stanno installando gli SS 20 al ritmo di quattro o cinque al mese. Senza contare le centosessantamila truppe di cui il Patto di Varsavia è in vantaggio rispetto alle truppe della NATO.
Non accetterei la tesi semplicistica secondo la quale l’equilibrio sarebbe alterato dagli SS 20. E questo perché bisogna calcolare anche gli armamenti nucleari inglesi e francesi, poi i sommergibili nucleari americani che si trovano nel Mediterraneo e lungo le coste atlantiche. Non sappiamo quanti sono ma sappiamo che possono colpire i paesi del Patto di Varsavia. Guardi, secondo me, oggi come oggi, l’equilibrio strategico esiste. Però quel che lei dice non è da escludersi. Quindi, e a maggior ragione, vale la proposta che noi comunisti facemmo in Senato: sospendere la costruzione dei Cruise e dei Pershing, sospendere la fabbricazione e l’installazione degli SS 20, e fare la verifica. Non mi pare che ciò significhi dar ragione a Breznev.
Alcuni sostengono che, tutto sommato, la posizione dei comunisti italiani è analoga a quella di Giscard d’Estaing e di Schmidt.
A quella di Giscard d’Estaing, proprio no. Del resto non aiamo d’accordo neanche con la sua idea di fabbricare la bomba al neutrone. Ci avevano rinunciato perfino gli Stati Uniti ed ecco che la fanno i francesi. La Francia aspira troppo a diventare una grande potenza, basti pensare alla politica che sta facendo in Africa. Quanto a Schmidt, dico che il suo viaggio a Mosca è servito non solo all’Europa ma agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica perché ha riaperto la possibilità di dialogare sui missili. E se non si mantiene un dialogo, se non si torna alla distensione, la crisi diventa irreversibile. Come ha detto lei all’inizio di questa intervista, si va dritti alla guerra. Ci vogliono coloro che, come Schmidt, non accettano la logica delle esasperazioni e svolgono un’opera di moderazione senza venir meno agli obblighi del Patto atlantico: gli americani devono capirlo. Io non credo che si possa accusare Schmidt di non preoccuparsi della difesa dell’Occidente. C’è qualcuno in America che lo accusa di questo?
Forse c’è qualcuno che lo crede più interessato alla riunificazione della Germania e pronto a pagarla col prezzo della neutralità. E comunque vi sono molti cui non piace l’asse Parigi-Bonn.
Il fatto che in Europa possano sorgere due potenze egemoni non piace neanche a me, e così il fatto che la Francia pensi di assumere e garantire la sicurezza dell’Europa occidentale. Tale sicurezza non è concepibile oggi senza l’ombrello atomico americano. La Francia non potrà mai raggiungere la potenza militare dell’Unione Sovietica e del blocco appartenente al Patto di Varsavia: le sue pretese sono perlomeno velleitarie. Ma questo è quel che succede quando l’Europa non funziona e la Comunità europea non ha iniziative autonome: arrivano due paesi forti come la Francia e la Germania e intervengono per conto loro. Del resto a me non piace nemmeno l’idea di una forza armata europea che facendo a meno dell’appoggio americano si contrapponga al Patto di Varsavia. Significherebbe coinvolgere anche i nove paesi della Comunità nella corsa agli armamenti. Sarebbe pazzesco.
E del fatto che Breznev non voglia la Spagna nella NATO che ne pensa?
Neanche Carrillo e Gonzales cioè neanche i comunisti e i socialisti spagnoli lo vogliono. Perché altererebbe l’equilibrio ormai stabilito, proprio come se l’Italia uscisse dalla NATO o come se la Iugoslavia entrasse nel Patto di Varsavia. Cosa che escludo.
Quindi su questo dà ragione a Breznev.
Io preferisco dire che hanno ragione Carrillo e Gonzales.
Onorevole Berlinguer, il PCI ripete sempre che vuole restare nella NATO e ora lei me ne dà un motivo: gli equilibri. Però sappiamo che ve n’è un altro: lei si sente più sicuro a stare da questa parte della barricata perché, a stare da questa parte della barricata cioè con la NATO, non rischia di fare la fine che fece Dubcek. Vero o no?
Sì, ho detto molte volte che nel blocco sovietico non ci lascerebbero fare il socialismo come noi lo vogliamo. Questo senza dimenticare, s’intende, gli ostacoli formidabili che nell’Europa occidentale e in Italia ci vengono opposti dalle forze capitalistiche. Sa, in certo senso, stiamo giocando una partita d’azzardo. Una indispensabile partita d’azzardo.
Lei ha detto anche che, se l’Unione Sovietica ci attaccasse militarmente, i comunisti italiani sarebbero in prima linea a difendere l’indipendenza del nostro paese.
L’ho detto e lo ripeto.
Bene. Allora perché parla sempre di autonomia e di dialettica all’interno della NATO? I paesi del Patto di Varsavia non parlano di autonomia e di dialettica, nel Patto di Varsavia ci stanno in modo assai disciplinato, infatti sappiamo bene cosa gli succederebbe altrimenti. E, come il Patto di Varsavia, la NATO è un patto militare. E, in un patto militare, o ci si sta o non ci si sta. Non ci si può stare contestando o ponendo limiti.
Non ci si può stare nemmeno come in una caserma e cioè senza dissentire mai dagli americani o dimenticando che la NATO è un patto difensivo con un’area geograficamente limitata, quindi aderirvi non equivale a seguire le iniziative americane al di fuori di quell’area. Appartenere alla NATO significa essere alleati degli americani, sì, significa adempiere gli obblighi che garantiscono la sicurezza dei paesi aderenti, sì. Però se gli Stati Uniti ci chiedono di seguirli in iniziative politico-militari nel Golfo Persico o in Medio Oriente o in Asia o in Africa, dobbiamo rispondere no. E lo stesso se ci chiedono o ingiungono di partecipare a sanzioni e ritorsioni contro un paese.
Io dico che non si può stare nella NATO perché ci fa comodo, perché sennò facciamo la stessa fine dell’Ungheria o della Cecoslovacchia o dell’Afghanistan, e poi rifiutare solidarietà contro un tiranno che tiene i diplomatici in ostaggio.
E io dico che non si può seguire la logica delle sanzioni, delle ritorsioni, sennò si va dritto alla guerra. La guerra mondiale, la guerra nucleare. E su questo argomento aggiungo: oltre al dialogo, la trattativa, la distensione, a me interessa il disarmo. Sì, il disarmo. Perché è avvenuto un fatto nuovo nell’umanità. Un fatto che si chiama «armi nucleari». E io non sono d’accordo con chi dice che la guerra non sarebbe una guerra nucleare, sarebbe una guerra convenzionale. Le guerre si fanno per vincerle, e per vincerle si usano le armi di cui si dispone. Le armi di cui si dispone sono armi nucleari e... Insomma, bisogna ridurlo questo equilibrio del terrore che fino a ieri ha servito a evitare la guerra ma a lungo andare rischia di provocarla. Ma si rende conto che gli arsenali atomici di cui dispongono di qua e di là sono in grado di distruggere sette volte l’intero pianeta? Ha ragione il Papa quando dice: attenti, se continuate a fabbricare armi a un certo punto le userete. E sarà la fine dell’umanità. Il resto sono chiacchiere, illusioni, fanatismi.
Onorevole Berlinguer, ecco la risposta che le ho annunciato prima. Lei condanna molto i fanatismi e questo è bello. È consolante. Ma quando dice: «Siamo nati e viviamo per combattere il capitalismo, cancellarlo», quando dice di credere ciecamente all’avvento finale del comunismo inteso come toccasana di tutto, Città del Sole, non pecca di fanatismo anche lei?
No, perché il mio non è un atto di fede a un’ideologia, a una religione. È una convinzione che deriva da un ragionamento.
Onorevole Berlinguer, non ricordo dove Karl Marx ha scritto che la più alta virtù dell’uomo è il dubbio. Ma il dubbio non la sfiora mai?
Certamente. Il dubbio nel senso del pensiero moderno, occidentale, critico, che incominciò nel Cinquecento con Galileo e Bacone. Il dubbio che bisogna avere per sottoporre a verifica continua le proprie convinzioni. Bisogna sempre ragionare col dubbio. Ma il dubbio che mi possa condurre a non essere più comunista, quello no. Finora non mi ha mai colto e io spero che non mi colga mai.
Certo, se questo fosse avvenuto o stesse per avvenire, non lo direbbe a me.
Ma lo direi a me stesso.