corriere.it, 6 luglio 2025
Intervista a Kiran Maccali
«Non so se ripeterei l’esperienza al “Grande fratello”. I guadagni erano alti, sia settimanali, sia giornalieri. Poi ho incontrato Fabrizio Corona. La mia ambizione era diventare come lui». A parlare è Kiran Maccali, 38 anni, nel 2011 concorrente del reality di Canale 5, ora recluso nel carcere di Cremona in seguito a una serie di guai giudiziari. Nella casa più spiata d’Italia è rimasto 64 giorni, nella casa circondariale di via Palosca, in una cella di cinque metri, è rinchiuso da tre anni e dovrà restarci fino a dicembre 2028, salvo benefici di legge, scontando una serie di condanne per reati che vanno dall’estorsione alla violenza sessuale.
Maccali, come sta?
«Sono sereno, ho raggiunto la pace interiore, eliminando quei vizi, l’alcol e la droga, che spesso avevano determinato scelte sbagliate. Questo è il modo per ricominciare».
Come trascorre le sue giornate?
«Impegnandomi nelle attività che il carcere offre, dal lavoro interno (manutenzione e cura delle aree verdi) ai corsi di formazione e ai colloqui con la criminologa, l’educatore, la dottoressa e la psicologa del Serd che cura le dipendenze. Poi mi alleno in palestra».
Lei è nato in India, a Vythiri nel 1986, e arrivò in Italia all’età di tre mesi quando fu adottato da una coppia di Romano di Lombardia. Che infanzia ha avuto?
«Bellissima, tra l’amore dei miei genitori e della nonna, piena di attenzioni. L’adolescenza è stata più dura perché non mi sentivo accettato per il colore della pelle. Oggi c’è ancora molto razzismo, immaginiamo vent’anni fa. Ho pensato di azzerare questi problemi con l’alcol e poi con la droga. Per qualche anno sono stato anche in una comunità per il recupero dalla tossicodipendenza».
Come andò quell’esperienza?
«Era un lager. Botte e pane e acqua erano all’ordine del giorno. Ricordo le notti a spaccare la legna, solo perché avevo detto “voglio tornare a casa”».
Nel 2011 tentò la rampa di lancio del «Grande fratello» definendosi «indiano fuori e bergamasco dentro». Si definiva «alla buona» e aveva un motto: «làura, làura, làura».
«Non so se lo rifarei. Ero circondato da persone di ogni tipo, da quelle buone alle approfittatrici. I guadagni erano alti. Ho anche conosciuto Corona tramite un paparazzo. Iniziai ad andare in ufficio da lui e restai d’incanto. Fabry era una macchina per fare soldi. Quello che lui guadagnava in un giorno, una persona normale lo guadagna in un anno. La mia ambizione era diventare come lui, imparare il suo lavoro».
In quegli anni avrà avuto anche delle storie d’amore importanti.
«Sì, con Donatella Negro, allora conduttrice di “Ragazzi c’è Voyager”. E ho vissuto un amore fraterno con Manila Boff, ex concorrente di “Uomini e donne”. Lei c’è sempre. Al mio primo arresto, nel 2017, chiamò la mia avvocata offrendosi per ospitarmi ai domiciliari. E sempre ci sarà».
Dopo il «Grande fratello», aprì un’agenzia di comunicazione e marketing, la KM, che offriva servizi per aziende, bar, discoteche e organizzava feste di compleanno.
«In quel periodo andava tutto bene, avevo tanto lavoro. Ma anche una fidanzata che mi svuotava il conto: le comprai due auto in sei mesi, un Rolex, borse, scarpe e aveva un diamante al dito. Una sera, a mezzanotte, dopo il corso prematrimoniale, mi lasciò a piedi sotto il ponte di Boccaleone. Se ne andò con la seconda auto che le avevo comprato lasciandomi per uno che le aveva promesso in regalo una Bmw X5 e le vacanze alle Maldive. Ero distrutto a livello finanziario. Ero così esaurito che perdevo i capelli a ciocche. E ancora la mia “cura” fu abbandonarmi ad alcol, droga e locali notturni».
Poi, nel 2016, riprese in mano le redini della sua vita e si buttò di nuovo nel marketing a Milano.
«Lavoravo a una rivista nuova, Lei Style. Studiavo, anzi mangiavo i libri per essere ben preparato e con una dialettica all’altezza. Vivevo con due ragazze: quindi, era lavoro e feste tutti i giorni. Una rimase incinta. Non la presi bene e partii per Forte dei Marmi. Poi ci riappacificammo, non come coppia, ma da amici e le promisi che mi sarei occupato economicamente del bambino. Dopo, conobbi una ballerina di latino-americano bresciana e iniziammo una relazione».
Era al corrente del suo uso di alcol e droga?
«Accettò, a patto che non accadesse in sua presenza. Poi anche lei rimase incinta e decise di interrompere la gravidanza. Pure la mia amica di Milano abortì per delle complicazioni: era quasi a termine, ma il bambino era morto nel grembo. Tutto quello che mi accadeva intorno mi provò».
Il 30 giugno del 2017 avviene il suo primo arresto per un’aggressione nei confronti dei genitori. Fu sua mamma a chiamare il 112.
«Tutto iniziò da una discussione con la fidanzata bresciana che proseguii telefonicamente a casa. I toni, per il mio linguaggio e per le imprecazioni, erano alti. In più, avevo bevuto. Iniziò una discussione con i miei genitori. All’arrivo dei carabinieri, iniziai a discutere anche con loro. Spinsi un militare e gli altri tentarono di immobilizzarmi a terra. Ci fu una mia reazione e mi misero le manette. L’indomani venni processato in primo grado per resistenza a pubblico ufficiale e condannato a sette mesi: entrai in carcere a Bergamo per la prima volta e ci rimasi 38 giorni, i più lunghi. I giornali scrissero che avevo picchiato i miei genitori. Mia mamma provò a smentire, ma non fu ascoltata».
Come andò il processo sui maltrattamenti ai suoi genitori?
«I miei genitori testimoniarono che, nonostante fossi sotto l’effetto di alcol e droga, non mi ero mai permesso di alzare un dito su di loro. Fu assoluzione piena».
Una volta fuori, cosa fece?
«Conobbi una ragazza di Bologna. Nonostante avessi l’obbligo di dimora e di firma a Romano di Lombardia, andavo da lei. La mia ex fidanzata bresciana mi convinse a raggiungerla nel suo paese. Fu un tranello. Chiamò i carabinieri e disse che avevo violato le restrizioni e che la importunavo. Qualche giorno dopo, ricevetti la notifica che dovevo rientrare in carcere e non passò una settimana che mi venne notificata la denuncia per tentata violenza sessuale. Processo fatto in dibattimento e fui condannato a due anni senza nessuna prova. Era meglio se mi avesse accoltellato per farmela pagare dei tradimenti e di averla lasciata».
Ci fu anche il processo per estorsione alle Poste di Romano del 2020. Insieme a un complice fu accusato di avere minacciato con un tirapugni un impiegato facendosi consegnare 150 euro.
«Assolto con formula piena anche in quel caso. Dove so di essere apposto, vado in dibattimento. Non accetto patteggiamenti o riti abbreviati».
L’ultima condanna, lo scorso gennaio, è a sei anni e sei mesi per estorsione, lesioni e stalking nei confronti di un uomo, ora pensionato, che la ospitò a casa, nella Bassa Bergamasca.
«Non posso parlare perché ci sarà l’appello, confido nella giustizia e che sia fatta chiarezza».
Cinque anni fa in tribunale aveva promesso: «Ricomincio da zero».
«Io so di essere cambiato. Prima, però, devo pagare lo scotto della mia vita irregolare».