La Lettura, 6 luglio 2025
Il suicidio degli Stati Uniti
Alla psicologa svizzero-americana Elisabeth Kübler-Ross dobbiamo la tassonomia degli stadi psicologici attraversati da un paziente in fase terminale: al denial (cioè il rifiuto di accettare la realtà), ha spiegato Kübler-Ross, seguono l’anger (la rabbia), il bargaining (il tentativo di negoziare la propria sopravvivenza), la depressione (la perdita della speranza) e, infine, l’accettazione dell’inevitabile. Tra queste due ultime fasi, affermava la psicologa, la tentazione del suicidio può diventare una scappatoia per sottrarsi all’angoscia della morte imminente.
Fatte le debite differenze, quel che affligge gli individui, affligge anche le società nella fase terminale del loro declino. Nel corso di questo XXI secolo, e in particolare dopo la crisi del 2008, le popolazioni dei Paesi che nel passato hanno dominato in maniera quasi esclusiva il mondo, assillate dal timore di perdere i loro privilegi o di doverli spartire con le popolazioni dei Paesi emergenti, hanno oscillato tra denial, anger e una forma particolare di bargaining. Oggi alcune di esse sono giunte alla fase della disperazione, in cui la tentazione del suicidio per paura di una fine imminente è sempre più forte.
Il denial di fronte all’ascesa di nuove potenze è consistito precisamente nel non riconoscere lo spostamento degli equilibri economici e politici del mondo, cioè nel rifiutare di fare i conti con la realtà del declino, ancorché relativo. La forma assunta da quel denial è stata la determinazione a continuare a vivere come prima pur non avendone più i mezzi – e la sua traduzione pratica è stata l’esplosione del debito pubblico (cresciuto tra il 1980 e il 2024 di quasi tre volte e mezzo nei Paesi del G7, Canada escluso, passando dal 38,3% del Pil in media al 130%). In alcuni Paesi, come la Francia e l’Italia, per esempio, quell’espediente è stato praticato senza scrupoli e senza inutili complicazioni teoriche, sapendo che la Germania e altri Paesi «frugali» sarebbero stati chiamati a venire in soccorso; negli Stati Uniti, invece, è stata forgiata la teoria secondo cui la potenza del dollaro (il «privilegio esorbitante» di cui parlava Valéry Giscard d’Estaing) avrebbe permesso al Paese di vivere per sempre a credito – cioè sulle spalle del lavoro dei loro creditori sparsi nell’universo mondo.
Nei malati, secondo Kübler-Ross, la rabbia è generata dal senso di spossessione – il presentimento di perdere quel che si è messo insieme per tutta la vita – e dal senso di ingiustizia che lo accompagna. Tutti quelli che capitano a tiro diventano loro bersaglio: medici, infermieri e persino parenti e amici. La società, dal canto suo, se la prende con quelli che, per una ragione o un’altra, sono identificati come responsabili della perdita di ciò che non si può più avere: la classe politica, le élite, la «casta», lo swamp – o comunque si voglia etichettare chi occupa posizioni di potere; ma anche, e soprattutto, gli immigrati e tutti coloro che, nati in quello che una volta era chiamato con condiscendenza il «terzo mondo», hanno maturato l’inconcepibile pretesa di vivere come vivono europei, americani e giapponesi.
Quando il paziente terminale si rende conto di non avere ottenuto niente con la rabbia, spera di poter negoziare la propria salvezza facendo valere la sua buona volontà. Similmente, all’interno della società, ogni categoria, professione o corporazione spera che il proprio ruolo sia riconosciuto come indispensabile, nella speranza di preservare i propri privilegi, anche a discapito di settori presentati come meno necessari o addirittura superflui. L’unico interlocutore possibile del bargaining del malato è lo spacciatore di pozioni magiche; allo stesso modo, al tavolo del bargaining politico si presenta una pletora di ciarlatani che affermano di possedere la ricetta per riportare il Paese alla grandezza di una volta. Quei mercanti della speranza speculano sulla disperazione di chi coltiva la nostalgia del passato – anche perché nel passato era più giovane – e comunque vuole sottrarsi al rischio di declassamento sociale; ne sfruttano e ne alimentano le ansie per ricavarne consenso elettorale, e a volte persino le creano (come nel caso della presunta predisposizione a delinquere degli immigrati), in un classico rapporto mercantile tra domanda e offerta.
Nelle società, questi stadi si possono confondere e intersecare gli uni con gli altri; infatti, le società declinano a ritmi diversi le une dalle altre e, al loro interno, alcuni settori sono declassati prima o più di altri; in certi Paesi, parte della popolazione ha ormai raggiunto lo stadio della depressione, in cui emerge la tentazione del suicidio per paura di morire.
Non si tratta, in questo caso, di un suicidio collettivo volontario, come quello dei soldati giapponesi dopo la battaglia di Saipan, nel 1944, o dei membri della setta Tempio del popolo in Guyana nel 1978; si tratta, piuttosto, di un suicidio indiretto, di secondo grado, si potrebbe dire, come quello di chi abusa di alcol o di sostanze stupefacenti, di chi scatta selfie sui binari un attimo prima che il treno arrivi, di chi si diverte a fare gare di velocità in autostrada: il loro scopo non è uccidersi, ma il loro comportamento incrementa considerevolmente le possibilità di morire.
Questo accade soprattutto – ma non esclusivamente – negli Stati Uniti, che in passato hanno dominato il mondo più di qualsiasi altra potenza nella storia e che, proprio per questo, sentono di avere da perdere più di chiunque altro come effetto dell’inesorabile declino del loro Paese, ormai giunto al suo stadio finale.
Il declino degli Stati Uniti non data dal 20 gennaio di quest’anno, ma almeno da una settantina d’anni prima, quando la loro crescita economica, per quanto vigorosa, ha cominciato a essere più lenta di quella del resto del mondo, e segnatamente di quella dei loro competitori: dal 1950 al 1975, Germania, Italia e Francia si sono sviluppati a un ritmo costantemente superiore, il Giappone a più del doppio. Il declino americano – relativo allo sviluppo più rapido degli altri – è iniziato negli anni 1950 e, in un lasso di tempo tutto sommato breve, si è tradotto in declino politico. Già il 6 luglio 1971, l’allora presidente Richard Nixon era stato costretto a riconoscere che «gli Stati Uniti non sono più in posizione di completa preeminenza e predominanza»; d’altronde, Nixon era alla testa di un Paese che aveva vinto due distinte guerre mondiali tra il 1941 e il 1945 (una in Europa e l’altra in Asia), ma che, meno di vent’anni dopo, si era mostrato incapace di vincere quella che nel gergo politico-militare veniva definita una «mezza guerra», in Vietnam.
Da allora il declino, seppur relativo, è stato pressoché ininterrotto; il solo momento in cui sembrò innescarsi una controtendenza – con il crollo dell’Urss e l’inizio dei «decenni perduti» del Giappone – in America ci si illuse che il peggio fosse passato e che il Paese avrebbe potuto tornare a essere «great again». Quell’abbaglio si rivelerà deleterio, proprio perché impedirà di misurarsi con il problema strutturale: il resto del mondo continuava a svilupparsi a ritmi più veloci, e quel crescente divario economico avrebbe inevitabilmente scavato sempre più in profondità il divario politico. Per restare nella metafora medica: quel problema fisiologico – comune a tutte le potenze della storia, grandi e meno grandi – non può che aggravarsi e diventare patologico se non è riconosciuto e affrontato con lungimiranza e determinazione.
Dopo lo scoppio della bolla tecnologica, l’11 settembre, le umiliazioni in Afghanistan e in Iraq, l’esplosione del terrorismo e la crisi dei subprime, è proseguita inesorabilmente la perdita di peso, di prestigio e di affidabilità degli Stati Uniti. E con essa si è diffuso, in segmenti sempre più ampi della popolazione, il convincimento che tutti quegli insuccessi fossero il frutto non del ritmo di sviluppo più accelerato dei competitori, ma di un complotto o, nella versione più soft, dello spudorato sfruttamento della generosità americana da parte di una serie di Paesi per farsi proteggere gratis e per arricchirsi alle spalle degli Stati Uniti. Come ha sintetizzato Donald Trump nel suo ormai famoso grido di dolore del «Liberation Day»: per cinque decenni l’America è stata «razziata, saccheggiata, depredata, violentata e derubata da nazioni vicine e lontane, sia amiche che nemiche» (nella retorica trumpiana, ci dicono gli studiosi della materia, la ridondanza rimpiazza la logica).
Né Donald Trump, né J. D. Vance, né i settantasette milioni di persone che li hanno votati, e di sicuro nemmeno molti tra coloro che hanno votato per la candidata democratica sospettano che la protezione militare offerta agli alleati, gli investimenti nel resto del mondo, gli aiuti allo sviluppo, le istituzioni multilaterali e il flusso ininterrotto di immigrati sono stati proprio i fattori che hanno consentito agli Stati Uniti di dominare il mondo per svariati decenni. E siccome Trump, Vance e milioni e milioni di elettori americani sono ridotti a pensare che protezione militare, investimenti, commercio, aiuti allo sviluppo, istituzioni multilaterali e immigrati siano tutti stratagemmi volti ad affossare il loro Paese, ecco che vogliono demolire l’intero sistema che si è costruito su di essi.
È così che gli Stati Uniti si sono decisamente incamminati sulla via del suicidio: perché non potevano sopportare l’idea di morire poco per volta. Non un suicidio cosciente, come si diceva. È piuttosto come se qualcuno si lanciasse in corsa sui binari mentre il treno è in arrivo, dopo aver bevuto troppo, e decidesse di immortalare il tutto in un selfie: nessuna di queste azioni ha, in sé, lo scopo di provocare la propria morte, ma la loro somma la rende pressoché certa.
Gli Stati Uniti, oggi, stanno distruggendo una dopo l’altra tutte le risorse che hanno permesso loro di essere grandi: la potenza economica, la possibilità di vivere a credito grazie alla forza del dollaro, il libero mercato e la globalizzazione, la rete di alleanze, le organizzazioni internazionali multilaterali, le istituzioni politiche solide e sperimentate, la libertà di ricerca, un sistema universitario di eccellenza, il soft power e, non ultima, l’immigrazione.
Non è possibile sapere quale sia l’ingrediente più letale. Di certo, però, un risultato è ormai definitivamente acquisito: la perdita di credibilità e di affidabilità. Nessuno può fidarsi più della parola di Washington, né ora né in futuro. Infatti, anche se in un domani assai improbabile fosse eletto un presidente assennato e con uno spiccato senso delle priorità politiche, nulla garantirebbe che, quattro anni dopo, il suo successore non ricominciasse di nuovo a distruggere quanto era stato costruito prima di lui. Il capitolo della fiducia nell’America, quindi, è chiuso per sempre.
D’altronde, nessuno avrebbe comunque più interesse a fidarsi, se gli Stati Uniti cominciassero ad avere difficoltà a contrarre debiti all’estero; se il «privilegio» del dollaro come valuta di riserva e di scambio globale diventasse sempre meno «esorbitante» e minacciasse addirittura di venir meno; se la produzione di beni oggi importati venisse rimpatriata facendone andare i prezzi alle stelle e quindi rendendoli invendibili; se una porzione a volte indispensabile dei produttori – a qualunque livello – fosse braccata e poi arrestata sul posto di lavoro e magari espulsa dal Paese; se le università che hanno prodotto più premi Nobel del resto del mondo fossero ridotte ad aule sorde e grigie dove si accampano manipoli di millenaristi convinti che Darwin fosse un messaggero di Satana; se gli studiosi più brillanti del mondo disertassero il Paese, o ne fossero cacciati; se i singoli Stati che non vogliono farsi trascinare nel baratro preferissero staccarsi dall’Unione: se tutto questo accadesse – e sta accadendo – allora non avrebbe comunque più senso fidarsi degli americani. Resterebbero, certo, le forze armate, di gran lunga le più potenti del mondo; tuttavia, l’esempio dell’Unione Sovietica ha dimostrato che l’ipertrofia militare non può essere una garanzia contro il collasso di un Paese, specie se provocato dall’insipienza della propria classe «dirigente».
Abbiamo fin qui parlato delle tendenze suicidarie degli Stati Uniti, anche perché il crollo di quella ex superpotenza in via di autorottamazione non può che ripercuotersi catastroficamente sul resto del mondo. Ma l’epidemia di aspiranti suicidi non si ferma lì. Basti citare il caso di Israele, sulla cui rovina autoinflitta si è espressa con molta più competenza e cognizione di causa Anna Foa; o quello speculare di Hamas, che è riuscito a trascinare con sé nelle fiamme dell’inferno due milioni di persone inermi e a distruggere per sempre ogni possibilità di quell’ipotetico «Stato palestinese» di cui si sproloquia ancora invano. Sono solo due tra i casi più eminenti e drammatici.
A cui si aggiungono quelli di chi fonda le proprie fortune elettorali sull’idiosincrasia nei confronti degli immigrati in Paesi in cui, perdipiù, le tendenze demografiche sono calamitose. Seguendo la moda americana, costoro si sono messi a ripetere la tiritera del «grande rimpiazzo» – la sostituzione della gloriosa civiltà cristiana bianca ad opera di orde di barbari invasori arretrati e pericolosi. Le loro operazioni di pulizia etno-religiosa finiscono per svuotare i loro Paesi da coloro che hanno ancora la volontà, l’energia e, soprattutto, l’età giusta per lavorare. Il solo risultato possibile sarebbe di abbandonare quei Paesi nelle mani di masse di pensionati brontoloni, cresciuti in un’epoca in cui tutto sembrava più facile, e di pochi giovani sempre più viziati ed egoisti, al punto da non essere nemmeno più interessati a fare figli. In quel caso, si può essere certi che non ci sarà nessun «grande rimpiazzo»: semplicemente perché non ci sarà più nessuno da rimpiazzare.
Nel 2006, questo fenomeno era stato studiato nella sua forma politica da un docente coreano, in un saggio pubblicato dall’East-West Center di Washington, dove allora era ricercatore. Lo studioso metteva già allora questo fenomeno in relazione al power shift, cioè alla trasformazione dei rapporti di forza tra le potenze.
Per una sintesi conclusiva può ancora una volta soccorrere il libro di Elisabeth Kübler-Ross, dedicato proprio alle reazioni psicologiche dei malati terminali; per lei, la tentazione del suicidio da parte del paziente malato può diventare una scappatoia per sottrarsi all’angoscia della morte imminente. Nel corso del secondo decennio del XXI secolo, al calo demografico in corso ormai da parecchi decenni si è aggiunta una propensione sempre più marcata al rigetto della conoscenza, dell’esperienza e della creatività, una propensione all’isolazionismo, al protezionismo, all’indifferenza o all’ostilità nei confronti dell’«altro» e più in generale dei più deboli. Stati d’animo e comportamenti, insomma, informati a un egoismo ammesso e rivendicato, che, nel suo risvolto pratico – cioè nella sua traduzione politica – si apparenta precisamente al suicidio per paura di morire.