Corriere della Sera, 6 luglio 2025
Intervista a Massimo Ranieri
Dieci in una stanza.
«Io e mio fratello Aniello dormivamo di traverso in fondo al lettone. D’inverno mettevo i piedi contro il sedere di papà. Più una cucina e un cesso, lo chiamo così perché quello era, mica ci stava la vasca, mamma ci lavava nella bagnarola».
Mamma Giuseppina era detta «la Carabiniera».
«Povera donna, era tosta, si faceva rispettare. Ci diceva: “Andate a faticare”. A 7 anni facevo il vinaio in una cantina, una grotta. Portavo i quartini agli operai che avevano la busta di carta in testa. Prendevo 200 lire a settimana. Sa come si dice: “A famm fa asci ‘o lupo da dint’ u bosc”».
«O canti o ti buttiamo in acqua».
«Mi mettevano sul ponte di Castel dell’Ovo, era alto. Non sapevo nuotare. La gente passava e lanciava i soldini nell’acqua, 20, 50 lire. I miei amichetti le raccoglievano, poi si divideva in parti uguali».
Ha imparato a nuotare?
«A 40 anni, ma sempre con rispetto. Faccio tre bracciate finché si tocca, dopo basta».
Che sogni aveva Giovanni Calone, Gianni, anzi «Già»?
«Nessuno, la sera ero talmente stanco. Cantavo per bisogno, per fame, nei ristoranti, ai matrimoni. Tornavo alle nove e mezza, mangiavo quello che c’era, il mattino dopo mi alzavo alle 7 per andare a scuola. Mio padre era operaio all’Italsider. Ricordo una sera, in cucina, lui e mamma che facevano i conti della mesata: “Ho preso 40 mila lire, Giuseppì, è andata bene”».
A 13 anni partì per l’America con Sergio Bruni.
«Non sono mai uscito dalla cabina della nave, speravo di vedere qualcosa dall’oblò, niente. L’oceano è tanta acqua. Mi davano il pane secco per il mal di mare, ma io non lo soffrivo, ero abituato. A Napoli prendevo la barchina a remi per portare il pranzo a nonno che pescava le cozze».
Lo scugnizzo a New York.
«Per la prima volta la vidi a colori e non in bianco e nero come alla tv».
Al Cantagiro nel 1967.
«Walter Chiari era pazzo di mio padre: “Quant’è bello Umberto, quanto è simpatico!”. Se lo abbracciava tutto».
Claudio Villa.
«Lo contestavano. Dal palco urlò: “Lui è il mio erede”. E indicava me».
La rivalità con Gianni Morandi era vera o montata?
«Quasi ci credevamo anche noi. “Oh Massimo, stasera la tua canzone è forte eh” (lo imita). Ogni volta che ci incontriamo c’è affetto».
Gli ha invidiato qualcosa?
«La carriera. Ogni brano era un successo. Lui faceva “Bum-bum-bum”, io “Bum-psst-bum-psst”. Dopo 9 anni mi sono ritirato. A 23. Pensai: “Se fallisco come attore, tra dieci ne avrò ancora 33, posso ricominciare”».
Perché mollò?
«Non volevo legarmi al lancio di una canzone all’anno, esserne schiavo, sentivo il bisogno di cambiare aria, di imparare altro. La mia fortuna fu incontrare Peppino Patroni Griffi. Mi disse: “Tu hai a faticà cu mme”. “Ma sto partendo militare”. “Ti aspetto”».
«Metello» di Bolognini.
«Il primo giorno di riprese mi chiusi nello sgabuzzino delle scope e cominciai a piangere come un vitello. Mi sentì Ennio Guarnieri, grande direttore della fotografia. “Ma che fai?”. “Voglio andare via. Io so cantare, voi mi fate parlare”. “Vieni fuori, non fare lo str... Sei bravissimo, vai a mangiare”. E rimasi».
Anna Magnani.
«La prima volta la vidi in un ristorante a via Veneto. Entrai, c’era una tavolata di gente, guardavo solo lei, magnetica, con quel sorriso. Me la presentò il regista Alfredo Giannetti.“Ahò caruccio sto ragazzetto, ‘ndo l’hai preso?”».
Tre anni dopo.
«Le parlai al telefono. “Come stai Anna?”. “Come ’na pora vecchia. Mi vieni a trovare?”. “Sto partendo per l’America”. “Allora quando torni”. E invece una mattina, mentre scendevo le scale dell’hotel, vidi i giornali sul bancone della reception: “Anna Magnani is dead”. Era morta».
Che portò al provino con Strehler?
«Mai fatto. Mi aveva già cercato nel ’77, voleva che cantassi Fenesta vascia ne Il Campiello. Risposi: “No grazie”».
E poi?
«Nell’80 mi chiamò Rosanna, suo storico braccio destro, napoletana come me: “Uè Mà, il Maestro ti vuole per un’opera di Brecht: L’anima buona di Sezuàn”. “Non la conosco, domani me la compro e la leggo. Tu intanto digli di sì”».
La lesse davvero?
«No. Giorgio mi convocò qualche giorno dopo. Era estate. Caldo atroce. Entrai nel santuario del Piccolo Teatro. Mi ricevette dopo mezz’ora di anticamera. “Oh, eccoti qua, che bel ragazzo. Sai già tutto?” (lo imita e gesticola). Mentii. “Sì, sì”. “Ti ho visto una notte in un filmaccio, hai un viso da povero, da operaio”. Parlò per venti minuti, io non capivo niente. “Il tuo personaggio è una merda”. “E perché ha scelto proprio me, Maestro?”. “Perché hai la sua cattiveria, hai la sua fame”».
Stava per scappare anche quella volta.
«Al quarto giorno di prove. Feci i bagagli e presi un taxi per l’aeroporto. Stavo per scendere e mi dissi: “Strehler è un genio, stai perdendo un’occasione enorme”. Tornai indietro. Ma fu veramente, veramente dura».
Ne valeva la pena.
«Con Giorgio nacque un grande amore paterno, immenso. Quando andai via, non se lo aspettava, fu un dolore forte. “Tu abbandoni tuo padre. Sai che mi fai del male?”. Lo sapevo, però era arrivato il momento».
Le flessioni in scena.
«Era lui che mi chiedeva fisicità».
Allenamenti speciali?
«Solo per fare lo spadaccino e tirare di boxe. Sono stato otto mesi a Formia da Patrizio Oliva. Boxavo e cantavo, mi insegnava a prendere i fiati».
Ha beccato per sbaglio qualche sveglia?
«No, Patrizio parava solo, ero io che tiravo cazzotti».
Per «Barnum» andò a studiare al circo di Liana Orfei.
«Imparai a camminare sul filo, sulla palla, sul monociclo. A lanciare le clavette e pure i coltelli».
«Sono pieno di cicatrici».
«Quelle dell’amore, come ne ha lei, ne hanno tutti».
È stato sfortunato?
«Né fortunato né sfortunato. Quando comincia una storia credi che sia quella della vita. Poi magari ci lasci le penne. Fai del male, ne ricevi, sono ferite che non guariscono. Le delusioni del lavoro le metti in conto, quelle sentimentali no».
Ha lasciato più spesso lei o viceversa?
«Ho lasciato e sono stato lasciato, è il gioco perfido e meraviglioso della vita. La prima volta che mi sono innamorato avevo 21 anni, lei ne aveva 7 di più. Ne durò due. Quando finì fu una sofferenza atroce».
Ha mai tradito?
«No. Il Toro è fedele. C’è lei, punto. Mai avuta più di una storia per volta».
Ed è stato tradito?
«Non mi è dato sapere».
Canta: «Perdere l’amore». Le è successo?
«L’ho perso spesso. Ci siamo persi».
È difficile starle accanto?
«Sono sempre fuori».
Non si è mai sposato.
«Non ci ho pensato, non ne sentivo il bisogno. Sono sposato con il mio lavoro. Ma non per la fama, di quella non me ne frega niente».
Ha regalato «rose rosse per te»?
«A volte. Però mi piacciono di più i fiori di campo».
Da qualche tempo sta con Serena, insegnante.
«Una donna intelligente, bella, sensibile, colta, onesta. Con lei mi sto impegnando».
Il 28 novembre per la prima volta sarà al Teatro dell’Opera di Roma con «Tutti i sogni ancora in volo». Ne ha ancora tanti da realizzare?
«Tantissimi».
È felice?
«Sono sereno. La felicità va e viene, la serenità ti dà stabilità. Ho una figlia meravigliosa e un nipotino bellissimo».
Che direbbe Massimo al piccolo Giovanni che cantava per non finire in acqua?
«Sei contento di quello che ho fatto per te?».