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 2025  luglio 06 Domenica calendario

Intervista a Natasha Stefanenko

L’anno scorso per i suoi 55 anni, Natasha Stefanenko, ha scritto su Instagram che si era trovata davanti a un bivio: «O la pensione mentale o un nuovo percorso con maggiore consapevolezza, nel lavoro e spirituale».
Mi racconta quel bivio?
«Da giovane corri, corri, poi o ti fermi e dici “faccio poco o niente”, o riparti. Io mi sento piena di stimoli e ho rilanciato. Ho scritto un libro, appena uscito per Cairo Editore: Dalle Marche con amore. Guida sentimentale alla regione dell’Infinito. Le Marche sono stupende ma un po’ sottovalutate. In Russia, per spiegare dove sono, devo dire che all’opposto della Toscana o sotto Riccione. Invece, abbiamo borghi meravigliosi, ci sono nati Raffaello e Giacomo Leopardi. Io da 25 anni vivo qui nella bellezza, guardando Recanati e l’infinito oltre la siepe. Ci ho messo ricordi, gli indirizzi dei musei e quelli dei ristoranti, le mappe... E, a febbraio, ho girato un film, A se stesso di Ekaterina Khudenkikh, che riflette sulla vita e sulla morte, anche questo ambientato nelle mie Marche».
Ci si trasferì all’apice del successo. Aveva condotto «Scatafascio» e «Target», aveva due programmi in Rai, era su tutte le copertine: perché lì?
«Mi sono innamorata di un marchigiano nel 1992. Poi nel 2000 ero incinta e Luca mi ha proposto di trasferirci per farci crescere nostra figlia, per le radici, per la presenza dei nonni. All’inizio, ci ospitava mia suocera, stavamo stretti stretti, sono arrivati mamma e papà dalla Russia ad aiutare e stavamo ancora più stretti, ma lì, nostra figlia ha avuto un’infanzia splendida».

La sua infanzia invece come era?
«Rido perché sono cresciuta in una città segreta degli Urali, circondata da filo spinato, che non esisteva sulle carte geografiche. Era indicata con una sigla: S-45. Però, era tra boschi stupendi e avevamo tutto quello che ci serviva per vivere».
In una foto del libro, è una bimba con le treccine e il colletto in pizzo bianco, sembra buona, educata, obbediente. Era così?
«Le treccine me le aveva fatte papà. Prima e unica volta nella vita. Quel giorno, mamma era via. In città, si accedeva solo con un pass che si riceveva a sette anni e quella foto serviva per il mio primo pass. Papà mi fece lui le trecce che vennero tutte storte, ma io ero così fiera perché era il giorno in cui diventavo grande».
Ho visto dei video su Instagram in cui va a trovare suo papà e vi commuovete.
«Ora sta male, ha 84 anni, ha la demenza, il Parkinson, ma da trent’anni mi dice che è rimasto l’unico vivo tra i 15 ragazzi della Bielorussia venuti con lui negli Urali per lavorare, tutti ingegneri nucleari. Infatti, a 45 anni, erano già in pensione. Penso che il governo sapesse che avevano già preso la loro dose di radiazioni».
Papà bielorusso, mamma russa: il cognome ucraino da dove arriva?
«Credo risalga ai bisnonni, difficile dirlo perché in Russia tutte le famiglie sono un miscuglio. L’ex Unione Sovietica era formata da tanti Paesi, le persone si spostavano di continuo da uno all’altro. Finita l’università, gli studenti erano obbligati dal governo a fare due anni di lavoro in un’industria e potevano mandarti ovunque. Anche mia sorella ha vissuto in Ucraina. Ogni russo ha un parente o un amico lì. Per noi la guerra con Kiev è una sofferenza».

Non mi ha detto com’era da bambina.
«Buona, educata e molto complessata, insicura, perché ero diversa: alta alta e magra magra. I bimbi bullizzano chi è diverso. Poi, sono arrivata in un Paese civile dove dicono che l’altezza è mezza bellezza e l’ho immediatamente adorato».

Cosa sapeva dell’Italia quando ci è arrivata ventenne?
«Conoscevo solo il Festival di Sanremo. Mamma, vedeva Albano e Romina e mi diceva: vedi, anche lui è più basso di lei. Erano la sua consolazione perché era convinta che, col mio metro e 85, non avrei mai trovato marito. Mi sono iscritta a Ingegneria Metallurgica perché ci andavano solo maschi e, fino a 18 anni, nessun ragazzo mi aveva mai guardata. Pensai che lì uno anche brutto mi avrebbe notata. Pensavo: studio, uso l’intelligenza e magari qualcuno mi vorrà bene per la bellezza interiore».
Come immaginava il futuro?
«Non avevo altre ambizioni che la felicità familiare: una persona che mi amava, dei figli. E da noi, se studiavi, avevi il lavoro e la casa garantiti. Non avevamo paure per il futuro finché è crollato il sistema. Alla fine, il mio sogno si è realizzato. Da trent’anni, ho accanto un uomo bello nell’anima. Tuttora ci unisce un sentimento fortissimo».
Luca Sabbioni, ai tempi modello, oggi imprenditore calzaturiero. Come si fa ad amarsi ancora così dopo trent’anni?
«Con tanto dialogo e tante risate. Sdrammatizzando le cose con una battuta e mettendo da parte l’orgoglio. Luca mi ha insegnato a esprimere tutto quello che mi turbava, mi ha detto: se non mi dici cosa ti dà fastidio, io non posso saperlo, tu accumuli e poi esplodi; se invece ne discutiamo, possiamo sempre chiarirci. Ci ha salvato questo e il senso dell’umorismo. All’inizio, nostra figlia si offendeva per le nostre battute, le abbiamo detto: se non sviluppi l’humor, con noi non sopravviverai. È venuta su spiritosa, incantevole, oltre che brava, ambiziosa, tosta.
Ha preso laurea e master in Economia e Finanze e fa consulenze strategiche per aziende importanti. Io a 24 anni non ero così determinata».
Lei com’era?
«Stavo già in Italia, ma le cose mi succedevano, non andavo a cercarmele. La mia unica intelligenza è stata prendere i treni quando passavano. Sono arrivata dopo aver vinto un concorso di bellezza per sbaglio. Stavo in fila all’apertura del primo McDonald’s russo, ho fatto la coda per ore accanto a un truccatore che mi ha convinta a partecipare per gioco. Io vedevo le altre concorrenti e inorridivo: tutte a mettere in mostra il seno, il sedere, mi sembrava la fiera dei cavalli. Al mio turno, mi presento a John Casablancas tutta spavalda, struccata, vestita normale. Siccome lui chiedeva a tutte il nome, io per sberleffo ho chiesto il nome a lui. Mi hanno scelta. Incredibile. Avevo vinto un posto alla finale di New York, lui era certo che sarei arrivata fra le prime tre, ma rifiutai, tornai a casa e mi misi a finire la tesi».
Quindi?
«Quindi il regime crolla, le certezze svaniscono. Non c’erano soldi, gli scaffali dei supermercati erano vuoti, non c’era più il lavoro garantito. Avevamo la libertà, ma non sapevamo che farcene. Ho richiamato Casablancas e sono finita in Italia».
E com’era la «fiera dei cavalli»?
«Terribile. Pensi che ero così complessata che quando qualcuno mi guardava, mi sudavano le mani, non riuscivo a mangiare, mi cadeva il cibo dalla bocca. Se qualcuno mi avesse detto che un giorno avrei condotto eventi dal vivo come il Festivalbar o i triangolari di calcio negli stadi, non ci avrei mai creduto».
Come ha superato i complessi?
«Era questione di sopravvivenza. Guardavo le altre modelle e copiavo. Poi, quando ho conosciuto Luca, modello ma laureato come me, mi ha cambiato il modo di pensare. Io disprezzavo il nostro lavoro, ma lui mi ha fatto capire che dovevo pensarmi come un’industria, un prodotto, dovevo curarmi, promuovermi, essere professionale e guadagnare tanto per avere abbastanza soldi a 30 anni, quando sarei stata considerata vecchia. Ho capito il meccanismo e non ho più pensato al cavallo».

A 30 anni, in realtà non era vecchia, era una star della tv.
«Quando ho partorito, c’erano i giornalisti in ospedale e dopo sei giorni ero in onda e facevo due programmi. Uno musicale, Taratata, con Vincenzo Mollica a Cesena l’altro satirico con Enrico Bertolino a Napoli, Convenscion. Non era facile, mi portavo la bimba dietro, allattavo, avevo le occhiaie fino ai piedi».
Come si spiega la popolarità di quegli anni?
«Credo che funzionassi perché non ero costruita e non mi sono mai considerata bella. Per me, da piccola, il corpo era solo un mezzo per portare il cervello da un posto all’altro. Dopo, con la bellezza ci ho giocato, l’ho sdrammatizzata. Non ho mai puntato sulla sensualità, infatti, non mi è mai successo che qualcuno mi saltasse addosso. A parte che sono sempre stata fedele. Luca mi ha insegnato la fiducia: quando l’uomo che ami si fida, cavolate non ne fai».
Tentazioni ne ha avute?
«Ma sì. Siamo sempre stati in mezzo alla bellezza. Ma se notavo uno pensavo: bello, ma ciao».

Dice spesso che vorrebbe sposarsi in chiesa e poi non lo fa mai. Perché?
«Spero di farlo presto. Mi sono battezzata a 40 anni, ispirata da mia nonna Lidia, che è il mio angelo custode. In casa, eravamo ovviamente atei, a scuola ci veniva insegnato che Dio non esiste, ma lei mi ha insinuato il dubbio: nascondeva un’icona sotto il cuscino, mi insegnava a pregare Dio e io credevo più a lei che alle maestre. Ho continuato a leggere e studiare i testi della chiesa ortodossa e mi sono battezzata».
In che senso la nonna è il suo angelo custode?
«Da quando è morta, nel 93’, mi è apparsa sempre in sogno, mi ha sempre dato consigli. Se devo parlare con Dio, lei è il mio tramite. Da un po’, appare meno. Allora, una volta che è apparsa, le ho chiesto perché e mi ha risposto: perché ora non hai più paura e quindi non hai più bisogno di me».
Aveva ragione?
«Tantissimo. Ora, medito, prego e sto in pace con me stessa».