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 2025  luglio 06 Domenica calendario

Intervista a Dario Argento

Il 24 dicembre 1971 usciva nelle sale cinematografiche italiane il terzo film horror di un giovane regista romano, Dario Argento all’epoca aveva 31 anni, oggi 84 intitolato Quattro mosche di velluto grigio. In pratica, il terzo e ultimo capitolo della cosiddetta trilogia degli animali il 19 febbraio 1970 aveva debuttato con L’uccello dalle piume di cristallo, il 12 febbraio 1971 aveva bissato con Il gatto a nove code due lavori che lo avevano fatto conoscere e apprezzare soprattutto all’estero. Un’opera molto importante per Argento perché gli regalò il primo, vero, grande successo anche da noi. Quel film, che ha per protagonista un batterista minacciato di morte da un misterioso personaggio (alla fine si scoprirà essere la moglie), è stato appena restaurato dalla Fondazione Cineteca di Bologna, in collaborazione con Surf Film e con il contributo del Ministero della Cultura: il 14 luglio sarà nuovamente nelle sale.
Che effetto le fa tornare sul mercato con un titolo di quasi 54 anni fa?
«Non lo so. Sinceramente non riesco a sentire qualcosa di particolare rispetto all’altra volta. Quando uscì ero molto pressato dall’ansia e dal pensiero di mille contraddizioni».
Che vuol dire?
«Ero un po’ scosso per ragioni personali. Ricordo bene che quando facemmo la prima proiezione, dopo la fine della lavorazione, avevo vicino mia moglie (Marisa Casale, madre della sua primogenita Fiore, 53 anni, la seconda, Asia, 49, è nata dalla sua relazione con Daria Nicolodi, ndr) e ogni tanto buttavo l’occhio su di lei per cercare di intuire cosa ne pensasse».
E cosa vedeva?
«Niente. La vedevo molto chiusa in se stessa e non capivo perché avesse quell’atteggiamento. Poi, finito il film, dopo i complimenti un po’ scontati dei presenti, soprattutto addetti ai lavori, lei si avvicinò e a bruciapelo mi disse: “Che cosa ti ho fatto? Perché ce l’hai tanto con me? Che cosa è successo a noi come coppia?”. D’istinto pensai che si stesse comportando come una un po’ fuori di testa, poi cominciai a pensarci bene: in effetti il protagonista somigliava molto a me. E alla fine quella che voleva ammazzarlo era proprio sua moglie... E l’attrice che avevo scelto era una biondina con i capelli corti che ricordava moltissimo proprio mia moglie (l’americana Mimsy Farmer, ndr). Non era voluto, ma era così. Oltre a raccontare di un marito e una moglie che nulla sanno l’uno dell’altro, qualcosa inconsciamente avevo voluto dirle».
Che cosa?
«Il nostro amore era finito. Infatti, poco dopo, ci lasciammo. Il malessere c’era, lo sapevamo, e io evidentemente l’aevo tirato fuori in quel modo.
Certo, quando iniziai a pensare al film, volevo solo farlo in maniera diversa: fresco e molto musicale, grazie alla colonna sonora ultramoderna del grandissimo Ennio Morricone. Tutto il resto è arrivato in corsa».
Qual è il titolo di quella trilogia a cui è più affezionato?
«Proprio Quattro mosche di velluto grigio.
Mi ha sempre dato molte soddisfazioni: nel 1971 ero giovane e in Italia mi conoscevano in pochi, anche perché i critici di casa nostra fino a quel momento non mi consideravano – cosa che mi fece davvero star male – al contrario dei loro colleghi francesi e americani. Pensi che negli Usa L’uccello dalle piume di cristallo arrivò al primo posto nella classifica degli incassi, cosa mai successa prima a un film italiano».
Quindi finalmente si accorsero di lei?
«Diciamo che dopo Quattro mosche di velluto grigio iniziarono a cambiare approccio, sforzandosi di comprendere il mio mondo artistico, il mio modo di girare e cosa volevo raccontare nei miei film».
Però dopo l’uscita di quel film i giovani del Dams di Bologna la trattarono male, giusto?
«Sì. Ci fu un episodio che mi irritò moltissimo. Mi invitarono per la prima volta all’università per parlare dei miei film e io accettai volentieri. L’aula era strapiena di studenti tutti vestiti eleganti e precisini, completamente diversi da me. Insomma, degli estranei assoluti. Cominciarono a farmi domande antipatiche, con un tono di superiorità onestamente insopportabile. Poi a un certo punto intervenne uno che disse con sufficienza: “Ragazzi, perché vi scagliate contro questo film? Non sarà un capolavoro, però è pur sempre di un italiano, poveraccio, e lo possiamo anche accettare..."».
E lei?
«Prendo la parola e replico: “Poveraccio? Io ho fatto un film, che ha richiesto tanto studio e fatica, e mi accogliete così? Lo sapete che c’è? Andate tutti affanculo”. Mi girai e me ne andai in albergo. Non potevano trattarmi così».
Reazioni?
«Che io sappia, nessuna».
In assoluto fra i suoi lavori ce n’è uno che meritava di più?
«Certo. Opera del 1987. Mi impegnai tantissimo per girarlo ma non fu compreso dal pubblico e dalla critica. Mi dispiacque così tanto che un giorno, da solo – come ho sempre fatto in vita mia – andai in India e Nepal per riprendermi dalla delusione.
Sono Paesi bellissimi dove sto sempre bene. Dopo quasi due mesi, per rientrare a Roma, mi fermai per qualche giorno a Los Angeles. Lì, passeggiando, per puro caso incontrai un critico cinematografico scozzese molto quotato, Alan Jones, che in seguito scrisse anche un paio di libri su di me. Per strada, subito, mi disse che Opera era bellissimo: “A Londra sta avendo un successo enorme”. Sei sicuro?, gli dissi. In Italia mi hanno massacrato... Aveva ragione, per fortuna».
Nel 2018 Luca Guadagnino ha girato il remake del suo capolavoro del 1977, “Suspiria”, su una scuola di danza governata da orribili streghe: se lo poteva risparmiare o va bene così?
«Se lo poteva risparmiare. Ha fatto un’altra cosa, un po’ pasticciata. Non era il caso di scomodare Suspiria».
C’è un regista che le piacerebbe se, in maniera diversa, magari coinvolgendola, affrontasse uno dei suoi titoli?
«No, francamente non m’interessa proprio che qualcuno realizzi remake dei miei film. Ognuno deve raccontare le proprie storie, i propri incubi, le proprie pazzie».
Le sue quando si materializzano?
«Quasi sempre di notte. Nel dormiveglia, nel subconscio, in quella terra di mezzo tra coscienza e incoscienza.
Freud diceva che quello è il momento in cui sogni, ansie e ricordi si ritrovano dando vita a vicende stupende e sconvolgenti al tempo stesso. A volte, se mi mancava l’ispirazione per scrivere un film, mi stendevo sul divano, mi mettevo sulle ginocchia una coperta e chiudevo gli occhi. Così si accendeva la fantasia».
Molti la considerano un maestro, altri un tipo bizzarro, altri ancora un po’ fuori di testa: che ne pensa?
«Onestamente, non mi è mai interessato il giudizio degli altri. Dopo aver girato i primi lavori misi subito a fuoco che i critici non coglievano l’innovazione che stavo portando nel cinema con le mie storie. E così non ho più letto quello che producevano sul mio conto, tranne i libri che ancora oggi consulto più che altro per motivi di studio. Quello che dicono gli spettatori dei miei film, invece, mi incuriosisce: ci sono sempre delle sorprese».
A proposito, lo scorso febbraio è stato annunciata una serie, prodotta da Titanus, tratta dal suo “Phenomena” del 1985: si farà davvero o no? Il progetto si è fermato?
«È in fase di sviluppo, ma al momento non so a che punto sia. Io sarò coinvolto maggiormente quando si entrerà in fase produttiva».
Farà un nuovo film o va bene così, c’è un tempo per ogni cosa e questo è quello del meritato riposo?
«Ho in cantiere due idee anche per la regia: una in Italia e una in Francia, ma non posso svelare altro».
Glielo chiedono tutti: cos’è la paura per lei?
«Non lo so più. È uno stato d’animo che scaturisce dal profondo o un sentimento misterioso? Non so come inquadrarla: mi ha fatto compagnia tutta la vita. Alcuni fanno finta che non ci sia, io invece l’ho abbracciata».