Corriere della Sera, 4 luglio 2025
Intervista a Fabio Roia
Da giudice, qual è la più grande ingiustizia a cui ha assistito?
«Il post pandemia. È stato ed è profondamente ingiusto il trattamento riservato a quegli operatori sanitari che chiamavamo angeli. Trovo ingiusta la commissione parlamentare d’inchiesta che sta indagando e trovo ingiusto il fatto che si è arrivati quasi a disconoscere quell’emergenza sanitaria e umana».
Queste parole sono legate alla sua personale esperienza con il covid?
«Anche. È stata la pagina più oscura della mia vita. Io e mia moglie siamo stati travolti dalla prima ondata. Ci hanno ricoverati il 3 marzo del 2020: polmonite bilaterale, ossigeno, farmaci sperimentali, stessa stanza… Ho temuto di non farcela».
Sua moglie è in magistratura come lei. Come vi siete conosciuti?
«Alla procura circondariale di Milano, nel 1989. Condividiamo la vita da 36 anni».
Dottor Fabio Roia, lei oggi è il presidente del tribunale di Milano. È entrato in magistratura nel 1986. Prima funzione da giudice al tribunale di Monza, poi pubblico ministero e poi per anni al Consiglio superiore della magistratura. Eppure per tutti lei è semplicemente “il giudice delle donne”. Le dispiace essere definito così?
«Assolutamente no. Anzi: vorrei che fossimo di più perché, come ripeto da sempre il problema della violenza sulle donne è un problema del genere maschile e noi troppe volte abbiamo girato la testa dall’altra parte».
Perché l’attenzione per la violenza di genere?
«Per cercare una risposta alla sofferenza delle donne coinvolte in questi casi. Me ne occupo dal 1991, all’inizio come pm e poi come giudice».
Lei sta parlando di un’esperienza maturata da due punti di vista diversi che non sarebbe più possibile con la separazione delle carriere. Che cosa pensa dell’argomento?
«Uno dei motivi per cui sono contrario alla separazione delle carriere è proprio questo: io credo che il continuo passaggio fra requirente e giudicante sia una ricchezza per la professionalità e la capacità di giudicare. Se io fossi il legislatore obbligherei chi vuole fare il pubblico ministero a fare prima il giudice in un organo collegiale. Secondo me la camera di consiglio è molto educativa, è una palestra di confronto».
Lei ha sempre voluto fare il giudice?
«No. A dirla tutta io volevo fare Medicina. Sognavo di fare il medico come mia sorella e di fare volontariato, magari in Africa. Diciamo che dovessi rinascere farei Medicina ma all’epoca, quando si trattò di scegliere l’università quello mi sembrava un percorso troppo lungo e impegnativo e ho lasciato perdere. Poi ho sempre avuto la passione per la scrittura e il giornalismo e per un po’ di tempo ho scritto prima per il Corriere d’Informazione e poi per L’Occhio. Seguivo sport e costume ma poi sia l’uno sia l’altro hanno chiuso e quindi la carriera da giornalista è finita lì. Un fallimento».
E a quel punto ha seguito la via della magistratura. Se ne è pentito?
«No, anche perché io dalla magistratura ho avuto molto più di quello che ho dato».
È sempre stato così pacato o era un bambino e adolescente scapestrato?
«Diciamo che non sono mai stato uno trasgressivo. Per farle capire: non dico uno spinello ma non ho mai nemmeno fumano una sigaretta…C’è una sola cosa che da ragazzino ho fatto in barba alle regole».
E cioè?
«Marinare la scuola. Andavo dai salesiani, liceo scientifico. Eravamo un gruppetto, a volte invece di andare a scuola andavamo a giocare a pallone, a tennis. Oppure al luna park».
Mai scoperto?
«Mai. Sono rimasto impunito. Anche perché poi a scuola ero un secchione. Amavo le materie umanistiche; avevo scelto lo scientifico perché ci andavano i miei amici più cari».
Vizi? Cibo, alcol…
«Ma no! Non potrei, anche perché sono ipocondriaco e osservo rigorosamente le prescrizioni alimentari e mediche salutiste».
Che mi dice della felicità?
«Felicità a piccole dosi. Più che felice nella mia giovinezza mi sarei definito inquieto. Adesso per ovvi motivi anagrafici non succede più, ma da ragazzo, appunto, avevo sempre l’inquietudine di qualcosa da raggiungere, anche quando avevo appena ottenuto un risultato. Le faccio un esempio: il giorno che mi sono laureato ho detto agli amici: adesso comincia il difficile. Erano sbalorditi perché non riuscivo a godermi quel momento pensando al dopo».
Il giorno più bello della sua vita.
«Quando è nata la mia prima figlia, Alessia, il 23 giugno del 1991. La sensazione di essere padre per la prima volta è irripetibile. Sicuramente si offenderà l’altra figlia, Federica, ma la prima volta è la prima volta…»
Lei è credente?
«Molto. Sono cristiano cattolico e praticante. Vado a messa ogni domenica. Ma ho una cultura laica, nel senso che ho un approccio molto pragmatico nelle decisioni, perciò la mia religione non incide sulle scelte etiche e giudiziarie».
Una domanda scontata: un caso che ha seguito e che non scorderà mai.
«Ce ne sono diversi. Gliene cito tre. Ricordo una donna che ha denunciato il marito ai carabinieri ma poi si è tirata indietro per non accusare il padre dei suoi figli, come lo definiva lei. La sera dopo il marito la colpì al volto con un coltello… Alla fine lei riuscì a rifarsi una vita ma, com’è noto, non tutte riescono a uscire da una relazione tossica. Nei processi ho visto una violenza che va ben oltre la fantasia e mi ha sempre colpito la capacità delle donne di resistere a tutto».
Il secondo caso?
«Ero ancora un pubblico ministero, seguii un fascicolo aperto per lesioni colpose contro ignoti e poi archiviato. Era una donna paralizzata dopo un incidente stradale dall’investitore rimasto ignoto. Io e l’ispettore di polizia Damiano Maranò riuscimmo a far riaprire le indagini perché eravamo convinti che fosse stato il marito. Quella donna dopo l’incidente riusciva a fare solo piccoli movimenti degli occhi; la interrogammo, accanto a un neurologo e con quei suoi occhi ci disse che era stato il marito. Si arrivò al giudizio ma lui fu assolto e quel giorno ho capito per la prima volta la differenza fra la verità processuale e quella che per me era reale».
Il terzo.
«Una mamma che ha sottratto i suoi bambini tenuti lontani da lei da un sistema di affidamento, quello tedesco, che per lei era insostenibile. Si chiamava Marinella Colombo ed è poi morta precocemente. Ogni tanto penso a lei; era solo una madre che lottava per i suoi figli ma l’applicazione della norma penale era doverosa così la condannammo per sequestro di persona. Fu un processo faticoso da un punto di vista emotivo».
Ci sta dicendo che oggi tornerebbe sulla sua decisione?
«No. Un giudice non dovrebbe mai tornare su ciò che ha deciso, salvo casi del tutto eccezionali. Altrimenti la sua è una vita di tormento».
Ha un errore da rimproverarsi nella vita?
«Forse ho sbagliato ad alimentare un’immagine troppo forte di me perché questo può aver creato problemi alle mie figlie dal punto di vista di ansia da emulazione e di fallimenti».
Loro che dicono?
«Che forse questo problema può esserci, non tanto per loro ma per le aspettative che gli altri hanno verso di loro».
Seguono la sua strada?
«Alessia, sì. È laureata in Giurisprudenza e vorrebbe fare il magistrato. È in attesa di concorsi e intanto è avvocata. Federica invece si è laureata in Relazioni internazionali e punta alla carriera diplomatica».
Resteranno negli annali dei discorsi di insediamento le scuse pubbliche che lei fece a sua moglie, Adriana Cassano Cicuto, il giorno in cui si insediò come presidente del tribunale.
«Gliele dovevo. Lei ha fatto un passo indietro spostandosi alla Corte d’Appello per evitare incompatibilità con me».
Non trova che ancora troppi i ragazzi ripetano gli errori dei padri-padroni di un tempo?
«Io credo che per fortuna siamo lontani da quell’episodio datato che cito sempre, e cioè quell’uomo italiano che durante un interrogatorio mi disse: signor giudice non lo sapevo che picchiare la moglie fosse reato…. Oggi una cosa del genere non è pensabile ma la violenza di genere è ancora davanti agli occhi di tutti, e preoccupa che sia radicata fra i giovani. Succede secondo me perché le famiglie trasmettono ancora il modello educativo patriarcale. Il patriarcato è abolito sulla carta ma di fatto l’idea del maschio che incentra la relazione sul rapporto padronale di possesso e di controllo è ancora qui».
Come se ne esce?
«Isolando questi modelli culturali rendendo chiaro che sono sbagliati, non perché lo diciamo noi ma perché è contrario a tutte le realtà di evoluzione sociale. Se una persona ruba un’auto è subito chiaro che quello è un reato e c’è la riprovazione sociale su quel comportamento. Ecco: dovremmo arrivare alla stessa reazione davanti alla violenza di genere, e non parlo soltanto della violenza fisica».
Una cosa bella durante la sua carriera.
«Ne sono avvenute molte. Mi ha reso felice aiutare tante donne attraverso il percorso giudiziario che hanno affrontato. Con alcune di loro sono ancora in contatto. Vede queste fotografie? (ne mostra due incorniciate alle sue spalle, ndr) Me le hanno mandate due ragazze un tempo vittime di violenza sessuale e oggi donne felici. E poi, se posso citare una cosa un po’ più personale, mi ha fatto molto piacere avere l’Ambrogino d’Oro dal Comune di Milano, una benemerenza che mi sta molto a cuore».
Cosa ha imparato dalle donne che ha incrociato nella sua lunga carriera?
«Che sono migliori degli uomini perché hanno risorse che noi non abbiamo come la capacità di soffrire, di reagire, di mettersi in gioco, di ripartire e di vincere. L’uomo questa forza se la sogna».