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 2025  luglio 04 Venerdì calendario

Tutta colpa di Freud se i campioni dello sport perdono la corazza

Stanno tutti male. Lo sport produce generazioni di infelici. Possibile? Una volta invece i campioni (mens sana in corpore sano ) stavano tutti bene. Non avevano allergie, morbi, problemi alimentari. O forse non sapevano di averli. C’era la fame, la gioia, la pazzia di chi sogna tutto, nessuno accennava alla parola stress nemmeno dopo biblici viaggi in treno. Adesso la salute mentale è diventata la priorità. L’ultimo è il tedesco Alexander Zverev: «Spesso mi sento molto, molto solo. Non ho risposte al momento. Ho attraversato molte difficoltà e non mi sono mai sentito così vuoto. Mi manca la gioia in tutto ciò che faccio, anche quando vinco, forse ho bisogno di andare in terapia». Zverev, numero 3 del mondo, a Wimbledon è stato sconfitto da Arthur Rinderknech, n. 72. Si perde, capita. Anche senza consultare Freud.
Una volta chi scriveva di sport raccontava l’allegria degli incontri con la vita, ora si parla solo di buio, di tristezza e di depressione. Dov’è finito l’oppio dei popoli? Perché tutta quest’ansia e disagio? Forse è una moda, forse avere il coraggio di dichiarare la propria fragilità aiuta gli altri a riconoscere e ad anticipare la propria. Giù la maschera, tutti vogliono troppo da me, sto crollando, non mi riconosco più, anzi non sento più niente, solo un grande freddo. Una volta lo sport allontanava dalla droga e dalla strada. I genitori erano contenti se andavi al campo o in piscina. Ti consideravano salvo. Oggi invece sospettano pratiche, comportamenti illeciti, ma non ti chiedono mai: ti sei divertito?
Lo sport spaventa, troppe nuvole, non ne riconosci più la faccia, solo il male che procura. Dovrebbe farti volare, invece ti fa cadere. Dovrebbe darti forza e autonomia, e allora perché ti senti debole e incapace? Troppe sollecitazioni: società, sponsor, famiglia, social. Se fai un record ti chiedono: a quando il prossimo? Se arrivi in cima alla montagna ti indicano subito un’altra vetta. Se stramazzi ti spingono a cercare cosa ci sia di sbagliato in te. «Fatti esaminare». Ma fatti vedere tu. Gli psicologi dicono: questa è la prima generazione di campioni che deve rispondere a così tante aspettative. E mancano le corazze. Anche i supereroi hanno diritto a mandare l’abito in tintoria, a girare in pantofole, a lasciare i superpoteri in cantina. Perché il dolore spesso è di chi vince. E ognuno ha il suo trauma speciale. I tennisti hanno al loro box una vasta schiera di specialisti, ma Zverev si sente solo.
La solitudine tra la folla non è una novità. La tennista australiana Ashleigh Barty dietro aveva un paese, eppure ha detto basta a 25 anni nel 2022 da numero uno. Non ne poteva più, nemmeno della sua perfezione, le mancava qualcosa che non stava tra le righe del campo. «Non so più per cosa sto giocando. Non mi è rimasto nulla, nessuna scintilla». Brava a capire che il male divincere le procurava una sensazione tossica. Ash voleva altro: «Cercare la felicità come persona e non come atleta. Perché lo sport è quello che fai, non quello che sei». Barty ha appena avuto una bimba (ha già un figlio). Ha sentito freddo con l’oro anche l’inglese Adam Peaty, ranista eccezionale, primatista mondiale e tre volte campione olimpico. «Ti illudi che le medaglie risolvano i tuoi problemi, ma li nascondono e basta e non ti riscaldano». Non è il solo ad aver nuotato nella depressione. Ci sono affogati tutti, l’australiano Ian Thorpe, grandissimo campione, il primo a vincere sei titoli in unmondiale (nel 2001) passò dalla vasca alla bottiglia e si fece ricoverare in una clinica di Sydney per disintossicarsi. Disse che era stanco dello stress, della curiosità della gente sulla sua sessualità, che non voleva più traguardi, ma allargare il respiro. Voleva godersi la mattina, guardare il mare, bersi un doppio espresso. Il suo infinito era cambiato l’11 settembre 2001: stava andando a visitare le Torri Gemelle, proprio a quell’ora lì, quando si accorse di aver dimenticato la macchina fotografica in albergo. Tornò indietro, si salvò. Dall’attentato terroristico, non dai pensieri sul tempo. Ieri non è (tanto) diverso da oggi. Non è questione di virate, ma è che proprio non galleggi più. Meglio uscire in tempo dalla vasca. Disse addio al nuoto a 16 anni la mitica australiana Shane Gould che aveva strapazzato tante volte il cronometro: «C’era una vita fuori dalla piscina, scoprirlo fu terribile». Anche la statunitense Janet Evans, quattro ori e un argento olimpico, aveva 24 anni quando cercò di evitare il tracollo: «Ero piena di sensi di colpa, pensavo di avere sprecato il mio tempo, avrei gridato a tutti: salvatevi, uscite fuori dall’acqua».
Il tennista Yannick Noah sembrava quello più solare. Nell’83 vinse il Roland Garros dove aspettavano un successo francese da 37 anni. Lui pianse e rise e fece una festa matta nella casa di campagna. Sembrava il più refrattario a quel male che t’ingombra la testa, anche perché era il tipo che nel parcheggio si fermava a bere champagne con Mabrouk Sgueni, il custode dei campi che gli preparava il couscous. Eppure una notte Yannick si sporse su un ponte della Senna e trovò che buttarsi giù non sarebbe stata una cattiva idea. Anche lui non ne poteva più. Per fortuna volò a New York, deciso ad allontanarsi dalla Francia, e non nel fiume. E capì che «devi giocare per qualcosa di più profondo che il successo». Nel buio anche la super ginnasta Simone Biles che fa acrobazie sul mondo, l’uomo che nell’acqua olimpica ha vinto più medaglie di tutti, Michael Phelps, la tennista Naomi Osaka, un grande mezzofondista come David Rudisha, il nuotatore Caeleb Dressel, 9 ori ai Giochi, Marco Pantani, il Pirata delle due ruote. Non conta la disciplina e nemmeno i nomi, conta che lo sport faccia sempre più male. E che i campioni se lo facciano fare.