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 2025  luglio 04 Venerdì calendario

"Non sopporto il basta che funzioni. Voglio avere la libertà di fallire"

«Abbiamo il compito di fare in modo che la cultura sia viva nel dibattito sociale, e questo possiamo farlo attraverso la qualità delle proposte, dei temi, del linguaggio che usiamo per affrontarli. Dobbiamo distinguere gli artisti da chi amministra la cultura, i primi devono avere la totale libertà di dare la stura a fantasia e immaginazione. Chi la amministra deve, invece, saper riconoscere le qualità che contraddistinguono gli artisti, e farle sviluppare, anche nei giovani e anche sul mercato internazionale». All’Ischia Film Festival (diretto da Michelangelo Messina) Toni Servillo, insieme a Roberto Andò, riflette sul senso del suo mestiere e su quella battaglia in nome dell’autonomia artistica in questi giorni, in Italia, diventata particolarmente incandescente.
Cultura, cinema e teatro sono oggi al centro del dibattito, tra crisi, polemiche, dimissioni eccellenti. Qual è la sua impressione?
«Sul fronte del cinema c’è ogni giorno una notizia diversa. Sono davvero sconcertato, la verità è che ci sono un tax credit e un contratto dei lavoratori dello spettacolo bloccati e quindi, occorrerebbe sostenere davvero un mondo che offre un’immagine molto bella del nostro Paese. Bisogna, insomma, evitare di gettare l’acqua insieme al bambino, rischiando di fare passi indietro rispetto ai tanti compiuti in avanti, sulla scena internazionale, dal cinema italiano».
Ha recitato nell’Abbaglio, diretto da Andò. Quali sono gli abbagli più forti oggi?
«La storia si ripete tragicamente. È un abbaglio credere che i massacri, le guerre, il riarmo, possano essere una soluzione. È un abbaglio pensare che l’emergenza climatica non ci sia, e invece c’è, eccome. I padri fondatori dell’Europa hanno avuto una grande visione, eppure nonostante la grande tradizione morale, intellettuale, civile, i Paesi europei faticano a far sentire la loro voce sullo scacchiere internazionale. Rispetto a tante barbarie che arrivano da lontano, la loro resta una voce debole».
È tornato a recitare con Paolo Sorrentino, nel nuovo film La grazia. Com’è andata?
«È il settimo film insieme, ne parlerà il regista, com’è giusto che sia. Abbiamo girato in un’atmosfera di entusiasmo e di passione talmente forti da darmi l’impressione di recitare con Paolo per la prima volta. Sono stato molto felice, ho provato la stessa gioia di quando abbiamo girato L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore, mi auguro che il film abbia la stessa loro fortuna».
Qual è la ragione più importante che la spinge a continuare a fare il suo mestiere?
«Le spinte sono tante. Quelle personali le tengo per me. Quello che rende concreto il piacere di questo mestiere è avere la sensazione che un pensiero, un’emozione comunicata al pubblico, possa servire a qualcuno. Lo scopo delle arti è orientare lo spettatore, non ammansirlo o istruirlo. Se un film o uno spettacolo teatrale ci riescono, la gratificazione è grande».
Che cosa la sostiene nei momenti difficili della vita?
«L’amicizia. Fin da ragazzo mi sono affidato a questo valore, alla possibilità di condividere con le persone a cui voglio bene, uno schiaffo, un complimento, un incoraggiamento, un consiglio. Senza l’amicizia la mia vita sarebbe stata più alienata, meno nutrita. La maestria cui ho attinto, fin da giovanissimo, è stato il gruppo di coetanei con cui ho iniziato a fare questo lavoro, misurando le ambizioni dell’uno su quelle dell’altro, le capacità, i limiti, insomma camminando insieme».
Lei si sente un maestro?
«Viviamo un’epoca in cui tutto è molto legato al mercato, si fa mercimonio anche di certe definizioni. Quando ero ragazzo l’appellativo “maestro” si riservava a pochissimi scelti, oggi ho l’impressione che il termine sia usato nello stesso modo con cui lo utilizza il parcheggiatore quando da istruzioni per parcheggiare l’auto. Non do molta importanza alla parola maestro».
Una volta, mentre era in scena, da solo, al Teatro Argentina di Roma, in platea si è sentito il trillo di un telefonino. Lei, a differenza di altri colleghi, non si è fermato, non si è offeso, ha incitato il pubblico a non perdere la concentrazione ed è andato avanti.
«Per chi sta sul palcoscenico il suono di un cellulare è molto umiliante. Il teatro è una delle poche occasioni in cui possiamo disconnetterci dal mondo stando insieme, quella volta ho reagito così, in modo estemporaneo».
C’è un personaggio che non le è stato ancora affidato e che invece vorrebbe fare?
«Sono un appassionato di musica classica e devo dire che sono rimasto veramente male quando Sorrentino ha scritto un film su un direttore d’orchestra, Youth, e, invece di affidare a me il ruolo, lo ha dato a quell’attore gigantesco che è Michael Caine. Mi sono ritirato in buon ordine, ma l’avrei fatto molto volentieri».
Quali sono i comportamenti che proprio non sopporta?
«Non sopporto l’entrata a gamba tesa del mercato in un lavoro che, io e la mia generazione, abbiamo scelto immaginando che non fosse una semplice occupazione, il cosiddetto “posto”. Oggi il mercato ti costringe a pensare che una cosa debba per forza funzionare. Bisogna avere, al contrario, la libertà di fallire, di sbagliare. Quello che veramente non sopporto è il “basta che funzioni”, un limite che avverto sempre più marcato».
Ha recitato nella serie di Bellocchio Esterno notte. Ne farebbe altre?
«Non vorrei sembrare snob, ma non sono un appassionato spettatore di serie. Non mi piace essere intrattenuto infinitamente. Mi piacciono le cose che hanno un inizio, uno svolgimento, una fine, e poi me la vedo io, nel rapporto con il racconto... Fare un personaggio che, per ragioni di sceneggiatura, deve andare avanti in qualche modo, magari scoprirsi malato di qualcosa, finire in ospedale, magari in mano a un medico che ha avuto una storia con sua moglie…. no, preferisco di no. Ma se un grande autore come Bellocchio mi chiedesse di nuovo di fare una serie, allora direi di sì, molto volentieri».