La Stampa, 4 luglio 2025
Giuli e le sabbie mobili del Collegio romano. Così la Cultura arranca
Non è passato nemmeno un anno da quando Giorgia Meloni lo ha voluto come suo ministro della Cultura. Era il 6 settembre 2024 e il compito affidato dalla premier ad Alessandro Giuli non era semplice: riportare calma e ordine dentro agli uffici di via del Collegio romano, squassati dalla fragorosa uscita di scena di Gennaro Sangiuliano. E continuare il percorso verso la rivincita culturale della destra di governo, facendo molto meno rumore del suo predecessore. Esattamente dieci mesi dopo, la missione si può definire fallita e pare che le famose sabbie mobili del Collegio romano abbiano risucchiato anche Giuli, con tutto il panciotto e il cravattino.
I toni felpati e prudenti sfoderati all’inizio, furbescamente criptici nei contenuti, col passare dei mesi si sono fatti più ruvidi, man mano che sono scoppiate le polemiche. Per prima quella che ha portato alle repentine (e torbide) dimissioni del suo capo di gabinetto Francesco Spano. Per ultima quella innescata dallo stesso ministro contro gli organizzatori del premio Strega. In mezzo, altri polveroni mediatici. Come quando Giuli ha risposto a muso duro («ciancia in solitudine») all’attore Elio Germano, reo di averlo criticato a margine della cerimonia dei David di Donatello. Che poi sui fondi per il cinema e il sistema del credito d’imposta per i produttori dei film, gli scontri più aspri sono quelli avvenuti nelle segrete stanze del ministero con la sua sottosegretaria, la leghista Lucia Borgonzoni. Un tensione culminata con le dimissioni di Nicola Borrelli, direttore generale del cinema e dell’audiovisivo al ministero (in carica dal 2009, ultimo governo Berlusconi), capro espiatorio per il pasticcio del tax credit concesso negli anni a film “fantasma”, mai arrivati in sala, come quello millantato da Francis Kaufmann, l’americano accusato di aver ucciso a Roma, nel parco di Villa Pamphili, la compagna e la figlia. Le dimissioni di Borrelli, tra l’altro, hanno seguito di pochi giorni quelle, altrettanto rumorose per la sua vicinanza con Borgonzoni, di Chiara Sbarigia da presidente di Cinecittà.
Il fatto è che, per fermare le truffe sul tax credit, si è messo in ginocchio il cinema italiano: finanziamenti bloccati, soprattutto per i produttori indipendenti, il 70% delle maestranze a casa, attori e registi mobilitati con appelli e lettere aperte per chiedere al ministero di risolvere il prima possibile. Poco meno di un mese fa è stato pubblicato un decreto interministeriale correttivo, per ridefinire i criteri di assegnazione e riconoscimento del credito d’imposta, anche dopo il ricorso al Tar dei piccoli produttori. Che, secondo il M5s, restano penalizzati a causa del requisito del numero minimo di proiezioni da effettuare al cinema: «Il ministero dovrebbe aiutare i film che finanzia ad arrivare in sala; invece, così finanzia solo i film che hanno una distribuzione certa – spiega Gaetano Amato, deputato 5 stelle della commissione Cultura –. Con questi signori Fellini non avrebbe mai girato un film». Poi c’è il nodo della commissione che decide quali produzioni sostenere, «in teoria indipendente, ma composta in maggioranza da membri scelti dal ministro».
Se i tempi per la riforma del tax credit sono stati lunghi, quelli per realizzare l’ambizioso Piano Olivetti (cugino del Piano Mattei) non sono pronosticabili. L’obiettivo, dichiarato da Giuli lo scorso febbraio, è quello di affrontare il problema della «siccità culturale» nelle periferie metropolitane e nelle aree svantaggiate del Paese. Quindi, valorizzare le biblioteche, sostenere l’editoria libraria e le librerie di prossimità, oltre a quelle storiche, favorire l’apertura di librerie da parte di under 35. Stanziati, sulla carta, più di 70 milioni di euro, 30 solo sulle biblioteche, ma è tutto ancora teorico, perché mancano i decreti attuativi: il ministro ne aveva annunciato la pubblicazione un paio di settimane fa, nessuno li ha visti.
A proposito di interventi rimandati, è stato appena incardinato in commissione Cultura al Senato il disegno di legge proposto da Giuli, che sancisce la terza proroga (al 31 dicembre 2026) della delega al governo per la scrittura del cosiddetto codice dello spettacolo. Si tratta di rivedere il quadro normativo che riguarda tutti i lavoratori impegnati negli spettacoli dal vivo, dal teatro ai concerti. Le regole sui contratti di lavoro e sull’equo compenso per gli autonomi, il riordino degli ammortizzatori e delle indennità, l’organizzazione e la gestione delle fondazioni lirico-sinfoniche. Non è un’operazione semplice, con risvolti politici anche interni alla maggioranza di governo, per questo si prende tempo, almeno un altro anno.
Ma Giuli è in difficoltà anche su un altro fronte che riguarda gli spettacoli dal vivo e che gli ha attirato parecchie grane politiche nelle ultime settimane. Ha assunto una posizione pilatesca sulla scelta della commissione consultiva per il teatro del ministero, che ha declassato il Teatro della Pergola di Firenze, togliendo lo status di teatro nazionale con conseguente taglio dei finanziamenti.
«La decisione può essere riesaminata», l’apertura concessa dal ministro in Parlamento alcuni giorni fa, dopo le polemiche per il sospetto che la mossa sia stata dettata da logiche politiche punitive nei confronti del direttore artistico Stefano Massini. Stesso sospetto che viene adombrato per il dimezzamento di altri festival teatrali storici, come quello di Santarcangelo di Romagna. «Dopo gli epurati, stanno spuntando nuovi beneficiari, finanziati senza alcuna comprovata eccellenza, ma grazie a una dichiarata appartenenza politica di destra», attacca il deputato Pd Andrea Gnassi. Si riferisce, ad esempio, al Festival delle fiction, promosso dalla sottosegretaria Borgonzoni proprio in Romagna, suo collegio elettorale.