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 2025  luglio 04 Venerdì calendario

Precari, sottopagati e privi di prospettive I ricercatori sono spinti a lasciare l’Italia

«Il precariato non è un’anomalia, ma una condizione strutturale del sistema universitario italiano: siamo di fronte alla più urgente crisi lavorativa del Paese». È l’allarme lanciato dall’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia (Adi), che ha presentato in Senato i risultati della XII Indagine annuale sulla condizione del post-doc in Italia. L’indagine è stata realizzata raccogliendo, tra aprile e agosto 2024, 2.888 risposte da ricercatrici e ricercatori attivi nelle università e nei centri di ricerca italiani.
Tra i dati più allarmanti evidenziati dall’Indagine, l’Adi segnala il fatto che entro un anno, a luglio 2026, quasi 9 ricercatori su 10 saranno costretti a lasciare il sistema accademico. L’86,5% delle posizioni attualmente attive, si legge nell’indagine dell’Adi, scadrà, appunto, entro i prossimi dodici mesi. «Senza un piano strutturale di reclutamento e stabilizzazione – denuncia l’Adi – quasi nove ricercatori su dieci rischiano di essere espulsi dal sistema accademico nei prossimi dodici mesi, con effetti drammatici sulla qualità della ricerca e della didattica proprio quando si richiederà agli atenei maggiore sforzo per via dell’apertura dell’accesso a medicina e delle sfide legate al miglioramento dell’offerta formativa».
Su questo punto è recentemente intervenuta la stessa ministra dell’Università e Ricerca, Anna Maria Bernini. «Abbiamo investito 11 miliardi in infrastrutture di ricerca – ha annunciato durante il Question time alla Camera -. Abbiamo cominciato ad abbozzare le soluzioni per dare una casa, anche dopo il 2026, ai ricercatori su specifici progetti di ricerca nati col Pnrr». Una rassicurazione che, però, non tranquillizza l’Associazione dei Dottorandi e Dottori di ricerca, che ha anche presentato un esposto alla Commissione Europea contro i due nuovi contratti di ricerca, che rischiano di «introdurre nuovamente forme di precariato strutturale nel sistema universitario». Un’altra criticità sollevata dall’Adi riguarda la durata delle posizioni di ricerca: più del 30% «dura meno di un anno», si legge ancora nell’Indagine. Percentuale che sale al 43% per le posizioni finanziate dai fondi europei Prin e Pon, che riguardano «il 50,5% delle borse e il 42,8% degli assegni di ricerca. Contratti brevi, dunque, che, però, richiedono molte ore di lavoro, a fronte di retribuzioni considerate non adeguate dai ricercatori intervistati. «La retribuzione mediana netta mensile è di soli 1.630 euro», denuncia l’Adi. Eppure, sottolineal’Associazione, «il 28,4% delle persone lavora oltre 46 ore settimanali, senza alcuna forma di tutela per straordinari, malattia e disoccupazione». Un’ulteriore conferma della precarietà della condizione di molti ricercatori è data dalla natura dei finanziamenti che, secondo l’Associazione, sono, appunto, «frammentari e instabili»: il 28% delle posizioni è finanziato dal Pnrr, il 26% da Prin, solo il 24% da fondi istituzionali (Ffo), «dimostrando la dipendenza da progetti a termine», ribadisce l’Indagine.
Questa situazione ha gravi ripercussioni sulla salute stessa dei ricercatori. «Il 74% degli intervistati è molto preoccupato per la ricerca di un impiego nei prossimi due anni – prosegue il documento dell’Adi -. I dati sulla qualità del sonno, lo stress e le testimonianze raccolte mostrano con chiarezza che la precarietà ha effetti negativi rilevanti sul benessere mentale», è la preoccupata conclusione.
Anche in questa situazione di estrema fragilità e precarietà, c’è chi lo è più di altri. E, ancora una volta, a pagare il prezzo più alto sono le donne. Nonostante ottengano più assegni e borse di ricerca, sono destinatarie di meno contratti da ricercatore a tempo determinato rispetto agli uomini (26,3% contro 32,8%), segnalando «un divario strutturale nell’accesso alle posizioni più stabili». Oltre a quello di genere, l’Indagine dell’Adi conferma anche un forte divario territoriale in termini di «scarsa mobilità geografica post-dottorato»: l’85% di chi lavora al Sud ha conseguito il titolo nella stessa area. Solo il 7% di chi lavora nei centri di ricerca nazionali proviene dal Mezzogiorno.
«Questi numeri – si legge in una nota dell’Associazione – descrivono un sistema della ricerca che non solo non valorizza i giovani ricercatori, ma li spinge all’uscita dopo anni di formazione e contributi fondamentali alla ricerca pubblica e al sistema-Italia. Siamo di fronte alla più urgente crisi lavorativa del Paese – è la denuncia dell’Adi -: la vita e il lavoro di decine di migliaia di persone rischiano di essere interrotte entro luglio 2026. Serve un cambio radicale di rotta, che unisca tutte le forze politiche del Paese: contrattualizzare tutte le figure che svolgono attività di ricerca e didattica e finanziare in modo stabile il reclutamento universitario. Ogni ulteriore rinvio significa cedere il futuro del Paese, favorire la fuga dei cervelli, condannare l’Italia ha uno sviluppo di bassa qualità, perdere in partenza la sfida delle transizioni ecologica, digitale e demografica».