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 2025  luglio 04 Venerdì calendario

Dagli americani 8 miliardi se Beirut disarma Hezbollah

Ore cruciali per il Libano. Nei prossimi giorni è atteso nuovamente a Beirut l’ambasciatore americano ad Ankara Thomas Barrack, nominato a maggio inviato speciale di Donald Trump in Siria ed incaricato successivamente anche del dossier libanese. Barrack dovrebbe ritirare la risposta ufficiale libanese al documento di sei pagine presentato nel corso della sua prima visita e che comprende un elenco di condizioni per un ritorno alla stabilità nel Sud, in testa alle quali figura l’indicazione di un calendario per il disarmo completo di Hezbollah e di tutte le altre organizzazioni armate operanti in Libano. Il documento americano è corredato da un’offerta di sostegno finanziario al Libano del valore di otto miliardi di dollari sotto forma di aiuto diretto e di garanzie di investimento. Ma anche da un avvertimento diretto di Donald Trump. Il presidente statunitense, ha detto Barrack ai suoi interlocutori libanesi, ha espresso «impazienza», ritenendo che il Libano rischia di perdere un’importante opportunità diplomatica ed economica se non si allinea rapidamente alla proposta statunitense. La commissione incaricata di preparare la risposta libanese – formata da rappresentanti del presidente Joseph Aoun, del capo del Parlamento Nabih Berri e del premier Nawaf Salam – ha il difficile compito di smussare gli angoli. Lo sciita Berri, da tempo canale prediletto dei contatti tra le diplomazie occidentali e il Partito di Dio, si sente nell’occhio del ciclone. «Se continua a tergiversare sulla questione delle armi e delle riforme – si legge su L’Orient-le-Jour – il presidente del Parlamento e i suoi collaboratori rischiano di essere sanzionati dagli Stati Uniti». Tutti per ora attendono la risposta di Hezbollah.
Il partito filo-iraniano ha già consegnato oltre 500 infrastrutture militari all’esercito libanese a sud del fiume Litani in ottemperanza alla risoluzione 1.701, ma ha fatto capire che non intende sapere di un disarmo nel resto del Paese. Quantomeno, non prima di aver ottenuto determinate condizioni: il ritiro di Israele dalle cinque colline occupate nel Sud dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco, lo scorso 27 novembre; la risoluzione dei 13 punti contesi sul confine; il rilascio dei suoi prigionieri di guerra; e, soprattutto, la cessazione degli omicidi mirati (circa 200 morti dopo la “fine” degli scontri), delle incursioni quotidiane e di ogni forma di violazione della sovranità libanese. Lo spettro politico libanese è diviso tra coloro che non escludono di disarmare Hezbollah con la forza e coloro che ritengono che il «monopolio delle armi da parte dello Stato» può essere ottenuto solo attraverso il dialogo.
Il capo dello Stato condivide il secondo approccio. Avendo guidato l’esercito libanese per nove anni, Aoun è consapevole che qualsiasi tentativo di disarmare il partito sciita con la forza potrebbe portare alla spaccatura degli apparati militari e precipitare il Libano in una guerra civile. Ieri, il gran mufti sciita libanese Ahmad Kabalan ha messo in guardia le autorità libanesi da qualsiasi «errore di calcolo che rischia di trascinare il Paese in una catastrofe nazionale».
Aoun cercherà pertanto di convincere Barrack – lui stesso figlio di emigrati libanesi in America – della necessità di un processo che alterni gradualmente il disarmo al ritiro israeliano. Ma il risultato non è garantito. Barrack sostiene che la conclusione della guerra tra Iran e Israele abbia aperto la via a «una nuova pace in Medio Oriente» nel quadro degli accordi di Abramo, a cui Siria e Libano non possono sottrarsi.