Il Post, 3 luglio 2025
L’attualità e l’inattualità di Alexander Langer
Diversi fiumi e corsi d’acqua d’Italia, da Firenze a Bolzano, sono attraversati in qualche punto da ponti o passerelle intitolati a uno dei leader storici del movimento ambientalista europeo e cofondatore dei Verdi italiani: il politico e intellettuale sudtirolese Alexander Langer. Di tutte le opere ingegneristiche umane il ponte è forse la struttura più adatta – di certo la metafora più usata – per descrivere il suo impegno sociale e civile e la sua vita, finita trent’anni fa, il 3 luglio 1995, quando lui ne aveva 49. «Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto», lasciò scritto in un biglietto prima di suicidarsi, a Pian dei Giullari, vicino a Firenze.
Di costruire ponti tra culture diverse destinate a coesistere Langer si era occupato per tutta la vita, lui che era nato nel 1946 in un territorio di confine, Vipiteno, da madre italiana e padre austriaco (un viennese di origini ebraiche in fuga dai nazisti). Parlava tedesco, la lingua dei suoi primi anni di formazione, e italiano, quella delle sue frequentazioni e dei suoi studi successivi. A chi gli chiedeva se si sentisse più italiano o più tedesco rispondeva di non sentire sua alcuna bandiera e di non sentirne la mancanza, ma di riuscire in compenso a parlare e a farsi capire «nell’arco che va dalla Danimarca alla Sicilia».
Die Brücke (“Il ponte”) fu anche il titolo di un mensile bilingue che fondò con altri ragazzi sudtirolesi nella seconda metà degli anni Sessanta. Proponevano il dialogo tra culture come alternativa pacifica, in un territorio all’epoca profondamente segnato da gravi attentati autonomisti nel Südtirol/Alto Adige. E ai ponti Langer fece riferimento altre volte, fino a pochi mesi prima di morire, in discorsi rivolti a comunità diverse e articoli di giornale redatti in lingue diverse. Tutti i suoi scritti sono disponibili sul sito della Fondazione Alexander Langer Stiftung, e molti sono raccolti nel volume Il viaggiatore leggero. Scritti (1961-1995).
Prima di fondare negli anni Ottanta insieme ad altre persone i Verdi italiani, con cui nel 1989 sarebbe poi stato eletto al Parlamento europeo, Langer era stato molte cose diverse e difficili da tenere insieme: giornalista, consigliere provinciale a Bolzano, insegnante, militante di sinistra e attivista, di formazione cattolica (al liceo aveva studiato dai padri Francescani). E se le sue riflessioni continuano a suscitare ammirazione sia tra le persone che lo hanno conosciuto, sia tra quelle che hanno conosciuto soltanto la sua storia, è perché in nessuna di quelle sue esperienze ha anteposto le ideologie e gli ismi – nemmeno il pacifismo – al valore fondamentale della «dignità umana», spiega lo storico Giorgio Mezzalira, suo amico e curatore dell’archivio della Fondazione.
Ne scriveva già nel 1967, quando poco più che ventenne definiva la capacità di comprendere i segni dei tempi come necessaria e contraria a ogni pensiero assolutista: «chi trova il coraggio di costruire la propria esistenza nel mare mosso dell’incerto riuscirà più facilmente a trovare il proprio spazio nel presente di chi invece tenta di gettare l’ancora verso i lidi di epoche passate».
Gli argomenti di cui Langer si occupò per tutta la vita, dall’ambiente all’Europa ai faticosi tentativi di risolvere gli scontri etnici nei Balcani, ne fanno uno dei pensatori più attuali del Novecento italiano. Ma il suo approccio a qualsiasi argomento e la sua sensibilità erano già all’epoca e sono ancora oggi un’eccezione sia nel dibattito, sia rispetto alle logiche prevalenti nella politica. Il Langer politico, dice Mezzalira, è «una specie di extraterrestre», guidato soltanto dalla volontà di «dare continuamente ascolto a chi aveva bisogno di aiuto» e costruire relazioni «portando le ragioni degli uni verso le ragioni degli altri».
A un certo punto, in un articolo pubblicato nel 1989 sull’Unità, usò una formula latina degli alchimisti medievali come slogan: solve et coagula (“sciogliere e coagulare”). La usò per condividere un invito a sciogliere movimenti e gruppi prima che diventassero settari e quindi inerti, e questo gli procurò contestazioni anche nel partito di cui lui stesso faceva parte, i Verdi. «Se, come diceva con una delle sue frasi tipiche, la corte diventava più importante del regno, allora lui era portato a scappare», raccontò di lui in un’intervista dopo la sua morte il suo amico Edi Rabini, a lungo presidente della Fondazione.
Fu proprio quest’attitudine di Langer a “sciogliere” dove c’era troppa compattezza e “coagulare” dove c’era troppa distanza, secondo Mezzalira, «a permettere a lui e ad altri con lui di dare vita a soggetti politici che volta per volta, momento per momento, hanno saputo porsi e contrapporsi rispetto all’establishment culturale e politico del tempo».
A Firenze, negli anni Sessanta, Langer aveva studiato giurisprudenza e conosciuto, tra gli altri, la sua futura moglie, Valeria Malcontenti, e don Lorenzo Milani, di cui aveva tradotto in tedesco la celebre Lettera a una professoressa. Nel decennio successivo, dopo un periodo trascorso in Germania, era tornato in Italia e aveva militato nel movimento della sinistra extraparlamentare Lotta Continua e scritto per il quotidiano omonimo, spesso occupandosi di relazioni internazionali.
Motivato da quelle sue esperienze e conoscenze, nel movimento dei Verdi tedeschi (Grüne) e tra i sessantottini altoatesini e sudtirolesi, Langer si dedicò attivamente alla politica a partire dagli anni Ottanta, per promuovere anche in Italia un dibattito sull’ecologia. Diventò una figura di riferimento nella Federazione delle liste dei Verdi italiani, e alle europee del 1989 – in cui i Verdi ottennero il miglior risultato di sempre – fu eletto al Parlamento europeo.
Più dell’ecologia, furono però gli scontri etnici e la guerra nei territori della ex Jugoslavia all’inizio degli anni Novanta a occupare l’ultima parte dell’attività politica di Langer, per lui la più difficile e impegnativa, in cui cercò a lungo e in prima persona di favorire mediazioni tra le parti. Si interessò in particolare alla situazione di una città nel nordest della Bosnia ed Erzegovina, Tuzla, in cui diverse etnie erano riuscite a convivere. Ma il 25 maggio 1995 un attentato delle milizie serbo-bosniache provocò la morte di 71 persone, tutti civili, la maggior parte delle quali aveva tra 18 e 25 anni.
Il sindaco di Tuzla, Selim Beslagic, era stato in visita a Bolzano appena sette giorni prima, per raccontare la situazione nel suo paese. Langer ne scrisse il 30 maggio, pochi giorni prima del suo suicidio, in un articolo in cui ribadì una posizione che aveva già espresso in precedenza: la necessità di fermare le aggressioni con tutti i mezzi necessari. «Si può decidere che il diritto internazionale deve semplicemente abdicare – in quel caso si potranno ancora fornire le armi ai più deboli, ai bosniaci, perché si difendano come meglio possono, da sé (…). Oppure si può decidere che nel mondo un diritto deve esistere, che un ordine vincolante per tutti deve farsi rispettare».
Del rifiuto di Langer di aderire a un pacifismo assoluto ha parlato, tra gli altri, il politico e saggista francese Daniel Cohn-Bendit, suo amico ed ex co-presidente dei Verdi europei, in un’intervista nel recente libro Ciò che era giusto. Eredità e memoria di Alexander Langer, curato da Goffredo Fofi. «Fu un processo doloroso per lui, che ha scombinato la sua etica cristiana – la sua etica cristiano-socialista, o cristiano-comunista, o la sua etica in generale», ha detto Cohn-Bendit.
Ma anche nella disponibilità a spiegare perché avesse cambiato posizione, secondo Cohn-Bendit, Langer fu un’eccezione nel panorama politico. «Alex non ha detto: ciò che sostenevo prima era insensato, piuttosto si è chiesto se il pacifismo abbia dei limiti e quali essi siano. Quali momenti storici pongono dei limiti precisi al divieto assoluto di usare le armi? (…) Ciò che invece infastidisce, osservando la maggioranza degli esponenti politici, è che cambiano posizione, ma non si spiegano».
In uno dei suoi testi più conosciuti, Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica, Langer descrisse la necessità di avere in ogni situazione di coesistenza inter-etnica «mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera». Non è un caso se scrisse quel decalogo nel 1994, dopo la sua esperienza politica e civile, e non prima, dice Mezzalira, confermando la capacità di Langer di «stare nel presente» e di saperne interpretare i segni. Langer «non ha mai prima teorizzato e poi praticato, ma ha sempre praticato prima ed eventualmente teorizzato poi».
Anche riguardo alle politiche ambientali, un argomento in cui i cambiamenti tendono da sempre a essere più invocati che realizzati, Langer promosse a lungo un approccio abbastanza isolato nel dibattito, fondato più sulla responsabilità individuale e collettiva che sugli impegni presi dalla politica. In uno dei suoi discorsi più citati, una relazione tenuta a Dobbiaco nel 1994, disse che nessuna politica può realizzare un cambiamento senza una «rifondazione culturale e sociale di ciò che in una società o in una comunità si consideri desiderabile». E aggiunse:
Sinora si è agiti all’insegna del motto olimpico “citius, altius, fortius” (più veloce, più alto, più forte), che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la nobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in “lentius, profundius, suavius” (più lento, più profondo, più dolce”), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso.