Corriere della Sera, 3 luglio 2025
Alexandra Cousteau, nipote del leggendario esploratore: «Fidel Castro disse che mio nonno Jacques valeva un capo di Stato. A 7 anni mi insegnò a immergermi»
Come è stato crescere con Jacques-Yves Cousteau, il comandante del Calypso?
«Mio nonno era una star. Tutti lo amavano. Anche quando giocava a fare il trenino con noi o quando mi accompagnava a prendere una cioccolata calda al bar lui restava il Grande Cousteau. Aveva sempre visitatori a casa. La gente lo fermava per strada, voleva l’autografo. Era impossibile separarlo dalla sua fama, perfino nel privato. Questo mi ha influenzato molto: ammiravo il suo carisma, il potere che aveva sulla gente, ma vedevo anche il lato negativo della notorietà, non sempre facile né piacevole».
Era sopraffatto o infastidito da tanta popolarità?
«A volte era deluso, frustrato, perché non otteneva i risultati che sperava. Metteva tanta energia e tempo per cambiare le cose e nulla cambiava. Tutti volevano il suo autografo, ma pochi s’interessavano davvero al suo lavoro».
Avventuriera, esploratrice, attivista climatica. Soprattutto, nipote dell’uomo che ha trasformato l’oceano in protagonista del suo tempo, Alexandra Cousteau, 49 anni, non era ancora nata quando il nonno vinse la palma d’Oro a Cannes nel 1956, assieme al regista Louis Malle, con il documentario Il mondo del silenzio. E aveva appena quattro anni quando il padre Philippe, pioniere della lotta per la conservazione degli oceani, morì in un incidente aereo.
Difficile misurarsi con un nonno e un padre così?
«La loro presenza e il loro stile di vita, fin dall’infanzia, hanno forgiato il mio futuro. I miei genitori mi hanno messo in acqua a tre mesi, ho imparato a nuotare prima che a camminare. Mio nonno mi ha insegnato a fare immersioni subacquee a sette anni, con pazienza e senza che io avessi mai paura, e fin da bambina ho partecipato alle sue spedizioni in mare. Sono cresciuta alla sua ombra. Non è che lo vedessi spesso, perché era sempre molto impegnato, viaggiava tantissimo. Ma quello che ho vissuto con mio padre e poi con il nonno in quegli anni spiega perché oggi sugli oceani io mi sento a casa, perché amo la vita di bordo. Sempre in posti diversi, come da bambina».
Come era il rapporto di Jacques Cousteau con i leader del mondo?
«Si sedeva al tavolo con loro ed era rispettato. Ricordo al primo Vertice della Terra a Rio de Janeiro, nel 1992, quando arrivò il momento della foto dei capi di Stato, Fidel Castro fece fermare tutti e sbottò: “Aspettate! Jacques Cousteau deve unirsi a noi, lui è come noi un capo di Stato”. Nonno aveva una forte influenza sui leader di quei tempi, ma era amato soprattutto dalla gente comune. E lo è ancora oggi».
In che senso?
«Quando qualcuno scopre di chi sono nipote, inizia a raccontarmi cosa ha rappresentato per lui Jacques Cousteau. Chi da bambino guardava il suo show in tv con la famiglia e ora dice “è il migliore ricordo che ho di mio papà”. Chi dopo aver visto un suo film prendeva maschera e boccaglio e giocava a fare il sub nella vasca da bagno. Per decenni ho ascoltato questi racconti intimi ed è la più grande eredità di mio nonno a questo mondo: ha suscitato emozioni, reso felici e curiose molte persone».
E per lei, qual è stato il suo migliore insegnamento?
«Il dono del suo esempio. Non si è mai arreso. Nonostante le sfide che doveva affrontare, le difficoltà professionali, personali o finanziarie, non ha mai gettato la spugna. Anche quando è morto mio padre a soli 38 anni. Per lui fu un colpo durissimo».
Era deluso dalla politica?
«Lo era allora, come lo sarebbe se fosse vivo oggi. Era molto frustrato dal fatto che il mondo politico non prendesse abbastanza seriamente la questione degli oceani».
Un successo di cui era particolarmente fiero?
«La campagna per la moratoria mineraria in Antartide e per la creazione della prima riserva naturale internazionale in quelle acque incontaminate. Ha mosso l’opinione pubblica ed è riuscito a coinvolgere il governo francese. Ma poi ha anche criticato duramente la Francia per i test nucleari nell’Oceano Pacifico. Ha combattuto tante battaglie. In generale, era piuttosto critico rispetto al disinteresse della politica. E la situazione, a essere onesti, non è cambiata. Da Rio 1992 a oggi non abbiamo avuto il coraggio di fare ciò che è giusto per proteggere gli oceani».
Negli anni Sessanta, il 90% degli oceani era intatto. Oggi la perdita della biodiversità supera il 50%. Cosa ne penserebbe il nonno?
«Quando mio nonno ha inventato lo scuba-diving negli anni Cinquanta, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, gli oceani erano ancora un mondo sconosciuto, abbandonato. Lui ha cominciato a esplorare i mari, a produrre i suoi film. A quel tempo non era ancora un ambientalista. Era un esploratore vecchio stampo e nel corso di quelle spedizioni ha fatto anche degli errori. È stato mio padre a coinvolgerlo nel conservazionismo ambientale. Hanno creato la Cousteau Society e hanno cominciato a diffondere l’idea che gli oceani dovevano essere protetti. In quel periodo, iniziò a operare anche Greenpeace ma erano molto più militanti e ciò ha creato una polarizzazione estrema tra le ong che dicono “non toccate gli oceani” e gli interessi di chi vuole trarre profitto dalle loro risorse».
C’è una via d’uscita?
«Se riporti l’abbondanza negli oceani crei profitto: più pesca, più turismo. I mari si possono coltivare per creare una “economia blu” prospera che non distrugge l’ambiente. È l’obiettivo della fondazione che presiedo, Oceans 2050».
Un desiderio?
«Che la gente possa fare un sacco di soldi grazie all’abbondanza dei nostri oceani. Il problema è che gli oceani vivono di beneficienza oggi. Tra gli obiettivi per lo Sviluppo sostenibile dell’Onu, «La vita sott’acqua» (Obiettivo 14), è quello che finora ha ricevuto meno investimenti ed è vittima degli interessi di chi vuole sfruttare il mare senza preoccuparsi di distruggerlo».
Un esempio?
«Il presidente francese Macron è stato molto deludente nella sua dichiarazione al recente Vertice sugli oceani a Nizza. La Francia consente ancora nelle sue aree marine protette la pesca a strascico, che è una tecnica estremamente distruttiva, come dimostrano le immagini del film Ocean di David Attenborough. Soltanto la Grecia, tra i Paesi dell’Unione europea, si è impegnata a vietarla. Dobbiamo creare fontane di resilienza di vita negli oceani, aree marine protette che rigenerino l’abbondanza e contrastino il cambiamento climatico, l’acidificazione degli oceani, le migrazioni dei pesci. Ai confini, la pesca locale tornerà florida mentre il “big business” della pesca a strascico dovrà convertirsi ad altro».
Il mondo ha bisogno di un altro Jacques Cousteau?
«Il mondo ha bisogno di tanti Jacques Cousteau. Per decenni mio nonno è stato il solo a parlare di oceani in Tv, l’unico a solcare gli oceani e a raccontarli. Oggi abbiamo social, tv, milioni di media diversi. Non credo possa emergere un leader carismatico che, da solo, come fu mio nonno si siede al tavolo con i potenti e ottiene rispetto e attenzione da loro. Nessuno oggi riuscirebbe a essere amato da miliardi di persone in tutto il mondo, come lui».
E Greta Thunberg?
«Sì, Greta aveva una voce molto forte, era molto potente sul cambiamento climatico. Ma avrebbe dovuto restare focalizzata su quel tema, invece di andare a cercare altre campagne, in una direzione completamente diversa».
Cosa avrebbe pensato il nonno dei giovani del movimento FridaysForFuture?
«Li avrebbe amati. Come mio padre Philippe, che nel 1990 ha scritto “The bills of rights for future generations”, un testo che voleva fosse adottato dalle Nazioni Unite. E io sono felice di vedere oggi legioni di giovani, perlopiù donne, che sui temi ambientali influenzano le loro comunità, tutti interconnessi sui social media. Tante voci che si alzano all’unisono».