Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  luglio 03 Giovedì calendario

La vera storia del melo che non era nell’Eden

È l’albero più coltivato al mondo e anche quello che produce i frutti più apprezzati, e tuttavia nell’Eden non c’era. La mela che Eva porge ad Adamo nelle due tavole dipinte da Dürer, ora conservate al Prado, è il risultato di una errata traduzione dell’ebraico tappuah, reso con il greco melon : “frutto rotondo”. Così consueta sulle nostre tavole, cantata da poeti come Catullo e Saffo, censita da proto-botanici come Plinio, prediletta da scrittori come Rigoni Stern e musicisti come i Beatles, la mela se ne stava acquattata migliaia e migliaia di anni fa nelle foreste del Kazakistan. Per arrivare sulle coste del Mediterraneo, e persino nel Medio Oriente, dove non era conosciuto, il melo ha dovuto attenderesecoli e l’invenzione dell’innesto, avvenuta in modo generalizzato a partire dall’epoca greca. È l’albero Malus, migrato lungo la via della seta grazie alle deiezioni animali e umane, sotto forma di rifiuti, per dare vita a un sentiero di piccoli meli che si sono ibridati gli uni con gli altri, fornendo così ai coltivatori dei secoli successivi un grande patrimonio genetico.
Nel 1929, il geniale botanico Nikolaj Vavilov, vittima delle purghe staliniane a Leningrado nel 1943, aveva scovato i suoi antenati, meravigliosi alberi della mela selvatica, alti e antichi, nelle foreste di Alma Ata, raccogliendone i preziosi semi. La propagazione del Malus è dipesa da una serie di eventi e casualità che nessuno ha mai testimoniato a pieno, salvo nel caso di John Chapman, il mitico seminatore, che su una imbarcazione di fortuna discese nel 1806 il fiume Ohio, carico di quelle promesse di alberi che ogni anno reperiva dai mucchi abbandonati dietro le fabbriche americane di sidro. La sua è la storia moderna del melo che segna la diffusione delle mele nel Nuovo mondo: la conquista del west selvaggio mediante la creazione di vivai di alberelli da cui discendono i frutti che oggi mangiamo sulle nostre tavole. Come ha spiegato Thoreau nel suo saggio in lode delle mele selvatiche, questa vicenda si incrocia con la traversata che i puritani effettuarono nel Nuovo mondo: la tradizione del Vecchio mondo a contatto con la frontiera selvaggia. La mela si americanizzò attraverso i semi che superarono l’oceano e grazie alla sua polpa zuccherina conquistò il palato umano. Il dono portato dalle mele in America fu l’alcol accessibile a chiunque avesse una pressa e un barile, scrive Michael Pollan nel suo studio su questo frutto.
Il sidro è una bevanda che ha la metà della gradazione del vino e per questo divenne un must nelle fattorie fino a che la licenza teologica concessagli fu interrotta, e i produttori di mele, timorosi di perdere il loro mercato, inventarono lo slogan salutista: «Una mela al giorno toglie il medico di torno». La storia della Delicious, la mela per eccellenza, è anch’essa una storia tutta americana. Da un alberello ostinato e caparbio, cresciuto tra i filari del frutteto di Jesse Hiatt, a Peru nello Iowa, spuntarono delle mele che l’agricoltore assaggiò nel 1890 e reputò le migliori che avesse mai mangiato. Così, tre anni dopo, le mandò a un concorso tra i vivai promosso dai fratelli Stark, commercianti abilissimi in Louisiana, Missouri. Vinse il primo premio e la mela ricevette il nome di Delicious che C.M. Stark teneva in serbo da anni per conferirlo alla migliore del mondo. La scheda di partecipazione di Hiatt si perse e occorse un anno per risalire alla sua paternità. Da un pezzo il pianeta era entrato nell’epoca del trionfo del mercato unico, per cui l’albero da cui nasceva la Golden Delicious (1891) fu conservato su una collina nel West Virginia, chiuso in una gabbia con allarme antifurto; l’aveva acquistato nel 1914 Paul Stark, fratello di C.M. per l’allora stratosferica somma di 5000 dollari.
Nella fattoria di Hiatt ora sorge un monumento di granito: entrambe sono i simboli precipui del “frutteto americano” che ha conquistato il mondo. In quel gran crogiolo di contraddizioni che è stata l’America all’inizio del Novecento, e dopo, il movimento antialcol si accanì contro il sidro e distrusse i frutteti con determinazione. Ma la storia del frutto proibito dell’Eden – probabilmente era una melagrana – continua con la creazione di nuove mele come la croccante Fuji, nata in Giappone negli anni Trenta incrociando la Red Delicious e le Virginia Ralls Genet, introdotta negli Usa, e la Gala neozelandese, granulosa e resistente agli urti, anche lei discendente dalla Golden Delicious e dalla Kidd’s Orange, arrivata negli Usa nel 1974. A Geneva, nello stato di New York, esiste la Plant Genetic Resources Unit, organizzazione governativa che cura la selezione di meli. Pollan, che l’ha visitata, stima che vi siano 2500 varietà con mele antiche e mele scomparse altrove. Il gusto nella globalizzazione si è standardizzato e milioni di questi frutti in commercio nel globo sovente provengono da impianti frigoriferi dove hanno stazionato per 12 mesi, luoghi appartati che ne disciplinano l’invecchiamento prima di raggiungere i punti vendita di fruttivendoli e supermercati. Nell’agricoltura industriale, gli alberi di mele non somigliano certo a quelli che ancora esistono nelle foreste di Alma Ata, vecchi di trecento anni, alti quindici metri, ora minacciati dall’espansione edilizia della città. I meli industriali, che modellano il paesaggio con le loro monoculture, hanno a disposizione meno di un metro per crescere e produrre, stretti tra pali di cemento e fili metallici, protetti dalle perniciose cadute di chicchi di grandine, senza siepi e senza la presenza di altri alberi a loro affini. Certo ci sono ancora le mele di nicchia, consumate localmente, prima che arrivino i produttori che le offrano al mercato mondiale o nazionale, come è accaduto decenni fa alle Annurca, le mele che vediamo raffigurate negli affreschi di Pompei; raccolte in autunno ancora verdi, le Annurca richiedono un trattamento manuale particolare per diventare rosse. Le mele si insediarono nel Mediterraneo 8000 anni dopo la nascita dell’agricoltura, mentre l’America, scrive il biologo Jared Diamond, non conosceva il frutto. Se i popoli nativi di quel continente avessero impiegato lo stesso tempo per impadronirsi della tecnica necessaria per coltivarlo, sarebbero occorsi loro 3500 anni per raggiungere il risultato. Una storia complicata in cui natura e cultura si scambiano di posto, si fondono e sovrappongono in un mondo sempre più complesso, e insieme pur sempre variegato.