lastampa.it, 2 luglio 2025
Tenzin Gyatso: “Avrò un successore dopo la mia morte”. Ma la Cina vuole il suo Dalai Lama
«Avrò un successore dopo la mia morte». Ora è ufficiale. Nell’atteso discorso in vista del suo 90esimo compleanno, in agenda domenica 6 luglio, il Dalai Lama ha confermato che l’istituzione guida del buddismo tibetano proseguirà anche dopo la sua scomparsa. E si prepara una dura battaglia con la Cina, che a sua volta rivendica il diritto di nomina, o quantomeno di conferma.
«Sebbene non abbia discusso pubblicamente di questo tema, negli ultimi 14 anni i leader delle tradizioni spirituali tibetane, i membri del Parlamento tibetano in esilio, i partecipanti a una riunione speciale dell’Assemblea Generale, i membri dell’Amministrazione Centrale Tibetana, le Ong, buddisti della regione himalayana, della Mongolia, delle repubbliche buddiste della Federazione Russa e buddisti dell’Asia, compresa la Cina continentale, mi hanno scritto esponendo le loro ragioni e chiedendo con fervore che l’istituzione del Dalai Lama continui», ha spiegato Tenzin Gyatso nel video messaggio trasmesso in apertura di un incontro con i massimi leader religiosi a Dharamsala, la città indiana dove si trova in esilio da oltre 60 anni. «In particolare, ho ricevuto messaggi attraverso vari canali da tibetani in Tibet che hanno fatto lo stesso appello. In accordo con tutte queste richieste, affermo che l’istituzione del Dalai Lama continuerà».
Significativa la sottolineatura sui fedeli del Tibet, la regione autonoma cinese che ora il governo di Pechino possa tornare a essere protagonista di turbolenze. Tenzin Gyatso ha mandato un altro messaggio, ancora più esplicito, alla Cina, quando ha chiarito a chi spetta individuare il suo successore. «Il processo attraverso il quale verrà riconosciuto il futuro Dalai Lama è stato chiaramente stabilito nella dichiarazione del 24 settembre 2011, secondo la quale la responsabilità di farlo spetterà esclusivamente ai membri del Gaden Phodrang Trust, l’Ufficio di Sua Santità il Dalai Lama». Secondo Tenzin Gyatso, i membri del suo ufficio «dovranno consultare i vari capi delle tradizioni buddiste tibetane e gli affidabili Protettori del Dharma legati da giuramento, che sono indissolubilmente legati al lignaggio dei Dalai Lama», non i funzionari di Pechino. Infine, «dovranno quindi svolgere le procedure di ricerca e riconoscimento in conformità con la tradizione del passato».
L’individuazione avverrà dunque dopo la sua morte, non invece per emanazione con un adulto già esistente. Un dettaglio che concede più tempo per dirimere una questione che resta assai controversa e che è destinata a creare numerose tensioni con Pechino. La nomina del prossimo Dalai Lama sarà la prima da quando esiste la Repubblica Popolare cinese, che sostiene di avere ereditato il diritto di scelta che aveva in passato la dinastia imperiale Qing. Le possibilità che emergano due Dalai Lama – uno riconosciuto dal governo cinese, l’altro dal governo tibetano in esilio – sono concrete. Il governo cinese ha ribadito che la reincarnazione deve avvenire in territorio cinese, sotto la supervisione del Partito e secondo la pratica dell’urna d’oro risalente alla dinastia Qing. Il governo tibetano in esilio ha già dichiarato che se la Cina procederà con la nomina unilaterale, ci saranno due Dalai Lama: uno fedele alla tradizione e riconosciuto dalla diaspora tibetana e da gran parte dell’Occidente; l’altro imposto da Pechino, sinizzato. Non è un caso che nelle scorse settimane il presidente Xi Jinping abbia ricevuto il Panchen Lama, la seconda carica del buddismo tibetano. Nel 1995, quando un bambino di 6 anni fu scelto come Panchen Lama, il piccolo fu preso in custodia dalle autorità cinesi che lo sostituirono con un altro candidato.
Le ripercussioni della vicenda possono essere numerose e imprevedibili, sia sui rapporti internazionali tra Cina e Stati Uniti (che negli scorsi anni hanno rafforzato in modo bipartisan l’appoggio non solo al Dalai Lama ma anche al governo tibetano in esilio), sia sulla disputa territoriale al confine tra Cina e India. Per non parlare dello stesso Tibet, che la Cina continua a sinizzare attraverso un doppio binario di sviluppo economico e assimilazione culturale.