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 2025  luglio 02 Mercoledì calendario

Efe Cakarel: «Ero informatico, ora grazie al web diffondo e porto in sala i film d’autore. A 12 anni vidi Nuovo cinema Paradiso, capii subito cosa avrei fatto nella vita»

La prima volta che andò a Cannes, guidato da una passione cinefila che lo aveva spinto a lasciare la sua carriera da informatico, era così intimorito da non avere il coraggio, pur avendo l’accredito, di entrare nel Palais du cinema. Quest’anno Efe Cakarel, 49 anni, nato a Izmir in Turchia, studi al Massachusetts Institute of Technology e a Stanford, un’esperienza alla Goldman Sachs, il creatore e ad della piattaforma Mubi, ci è tornato da protagonista, dopo il successo conquistato nella scorsa edizione grazie all’acquisizione di The Substance, il film che ha rilanciato Demi Moore (5 nomination agli Oscar e 83 milioni di dollari di incasso globale), con quattro titoli nella selezione ufficiale. E gli occhi di tutti gli operatori del Marché puntati sulla società con base a Londra, diventata nel giro di pochi anni attore di prima piano del settore, forte di accordi con partner internazionali, come quello con la Our films di Lorenzo Mieli e Mario Gianani, oltre alla acquisizione dei diritti mondiali di M. Il figlio del secolo. 
Sarà Mubi a occuparsi della distribuzione internazionale de La Grazia di Paolo Sorrentino. Mentre la galassia Mubi, protagonista dell’evoluzione dell’ecosistema mondiale del cinema, si allarga dallo streaming alla distribuzione, all’esercizio, all’editoria. Il tutto senza abbandonare il riserbo, anche caratteriale, del suo creatore, che si racconta per la prima volta a un giornale italiano.

La nascita di Mubi sembra la scena di un film: l’idea le venne in un bar di Tokyo, sotto la spinta della delusione per non aver trovato in nessuna videoteca «In The mood for love» di Wong Kar-Wai, uno dei suoi film del cuore. Si racconta che ideò il business plan sul volo di ritorno in Usa.
«Tutto vero. È successo 18 anni fa. Ho iniziato perché non c’era niente di simile a ciò che cercavo e ne sentivo il bisogno. La mia formazione è da informatico, non ero mai stato prima a un festival, non conoscevo nessuno nell’industria cinematografica, mi ha guidato la passione. E così ho iniziato subito a costruire il sito, lo chiamai “The auteurs”. Non c’era una sola piattaforma che si concentrasse sul cinema d’autore. È stato molto difficile. Mi ci è voluto più di un decennio per costruire la nostra proposta, dare valore al marchio. Solo di recente siamo arrivati a un punto in cui potevamo concedere licenze esclusive, prima si trattava solo di una library».
«Un servizio di streaming? Un curatore? Un editore? Un distributore? Un cinefilo?», sono le domande che accolgono chi arriva sul sito. La risposta è sempre sì. Lei come definirebbe Mubi?
«È un luogo per scoprire, guardare e parlare di grande cinema. Classico e contemporaneo. Offriamo una piattaforma ma il nostro obiettivo è portare la gente in sala, diffondere l’amore per l’opera dei registi, maestri e emergenti».
Una crescita costante ma non travolgente.
«Oggi Mubi è presente in Europa occidentale, Usa, America Latina, Turchia, India, Australia. In questi territori abbiamo fin dall’inizio costruito una comunità di persone, molto fedele, che ama il cinema. Abbiamo iniziato costruendo la piattaforma, quindi abbiamo ottenuto i diritti del film nel nostro territorio, all’epoca solo il Regno Unito. Oggi siamo attivi nella distribuzione nelle sale, parte importante della nostra missione. Il mio obiettivo è che entro i prossimi dieci anni ci sia un cinema Mubi in ogni grande città del mondo, da Milano a Tokyo a Taipei».
Ma il pubblico delle sale non è in calo?
«La nostra forza è di non essere vincolati dalla realtà commerciale, non abbiamo bisogno di riempire la sala per mostrare i nostri titoli. Saranno estensioni della nostra comunità, che per inciso ha un’età media piuttosto bassa. La dialettica tra web e sala fisica è continua, abbiamo un tipo di abbonamento, non ancora attivo in Italia, MubiG, in cui segnaliamo le migliori uscite e i nostri clienti possono entrare mostrando il Qr dell’abbonamento. L’esperienza della visione in sala è parte della valorizzazione del grande cinema. Ne fa parte. Così come la pubblicazione di libri con Mubi Editions: abbiamo iniziato in collaborazione con il Centre Pompidou. E realizziamo podcast, in diverse lingue, italiano compreso, non solo dedicati ai nostri film».
Perché allora avete voluto i diritti internazionali di «M. Il figlio del secolo»? Mubi non era interessata alla serialità.
«Ero al festival di Venezia l’anno scorso, ho visto l’opera di Joe Wright sul grande schermo: ho pensato che fosse così audace, con una qualità assoluta tra scrittura, regia, recitazione, impatto visivo, che doveva arrivare su Mubi, succederà nell’arco dell’anno. Joe Wright è un maestro, è geniale. È vero, non avevamo mostrato serie ma ormai molti grandi autori vogliono raccontare le loro storie in formati diversi. Io le chiamo serie limitate, è in linea con ciò che facciamo. La prima che abbiamo proposto, in giugno, è stata Twin Peaks di David Lynch, maestro assoluto. Ne avevamo parlato con lui prima che morisse. È un grande onore per noi. E avremo anche Blossom Shangai dell’amato Wong Kar wai.
Come collaborerete con Our films di Mieli e Gianani?
«Si tratta di un accordo di coproduzione, finanziamento e distribuzione triennale di film d’autore. Il primo regista è Pavel Pawlikowski, premio Oscar per Ida e Cold War. Noi siamo principalmente una distribuzione editoriale di programmazione, per questo ci interessano accordi con i migliori produttori, insieme possiamo produrre film meravigliosi con investimenti importanti. Siamo in sintonia, insieme abbiamo lavorato a Priscilla di Sofia Coppola. Prossimamente annunceremo altri titoli».
Piattaforma è sinonimo di algoritmo, voi insistete sul fatto che le scelte sono guidate dall’uomo. Come è possibile mantenere l’obiettivo?
«Dopo 15 anni di streaming per gli operatori è ancora difficile capire cosa piaccia al pubblico. Non è che se ami i drammi dell’Est europa ti piacerà per forza il film che l’algoritmo suggerisce. Noi difendiamo cultura del cinema, abbiamo venti persone che ogni giorno selezionano i titoli. Ricordiamoci che un algoritmo non piangerà mai e non potrà avere un poster di un film sulla parete della camera. I nostri spettatori sì».
È corretto definire Mubi un’evoluzione delle vecchie videoteche?
«Mi pare una buona descrizione. A Notting Hill dove vivevo ce n’era uno che ho frequentato per anni, mi fidavo dei consigli dei commessi anche per film e cineasti mai sentiti nominare prima. Ho scoperto molti autori grazie a loro. Lo stesso vogliamo accada a chi va su Mubi. Abbiamo dato vita anche a nostri festival in diverse città del mondo, compresa Milano. Abbiamo iniziato da Chicago, un successo insperato, si sono presentati in 15 mila per 5mila biglietti. Non abbiamo limitazioni di programmazione, la gente si fida. E si gode l’esperienza collettiva».
Che dimensioni ha l’azienda oggi?
«Non parlo mai degli abbonati, posso dire che la nostra crescita è stata costante. Nell’azienda siamo in 400. L’obiettivo è far crescere la comunità cinefila, avere partner come Our Films, finanziare completamente film come quello di Kelly Reichard, Die My Love».
È appena stato nominato il managing director di Mubi Italia, Gabriele D’Andrea. Da cosa nasce il suo legame con l’Italia?
«Il primo film che mi ha colpito al cuore è stato Nuovo cinema Paradiso, avevo 12, 13 anni mi portò mia madre. Sono rimasto a bocca aperta, è stato l’inizio della scoperta del mondo in cui poi ho scelto di vivere. A 17 ho visto Ladri di biciclette, Roma città aperta. Il mio film preferito di sempre è 8½ di Fellini. Amo le cinematografie di diversi paesi, ho gusti onnivori, il catalogo Mubi parla da sé. Ma certo, l’Italia mi ha dato un imprinting».