corriere.it, 2 luglio 2025
Oro, diamanti, cobalto e petrolio: chi sta rubando le ricchezze dell’Africa?
L’Africa è il continente più ricco di materie prime del pianeta: il 40% delle riserve auree mondiali, il 30% di quelle minerarie, il 12% del petrolio e l’8% del gas naturale. Tanto dovrebbe bastare per garantire ai suoi 1,5 miliardi di abitanti un futuro di benessere. Dopo un secolo e mezzo di sfruttamento da parte dei governi coloniali instaurati da Francia, Gran Bretagna, Belgio, Germania, Spagna, Portogallo, 65 anni fa con l’inizio della decolonizzazione i 54 Paesi hanno preso in mano il proprio destino. Sulla carta. Nella realtà uscire da condizioni di sfruttamento secolare, dalle guerriglie fra fazioni per il controllo delle materie prime e dalla sistematica cleptocrazia dei governi, è ben più complesso.
Analizziamo le storie di 4 Stati tra i più ricchi di risorse minerarie ed energetiche: la Repubblica Democratica del Congo, leader nelle esportazioni di cobalto, coltan e rame; l’Angola e la Nigeria con i loro enormi giacimenti di petrolio e lo Zimbabwe, sottosuolo pieno di oro, diamanti e litio.
Repubblica Democratica del Congo
Con una superficie di oltre 2 milioni di km², è un Paese grande quanto l’Europa occidentale. Ottiene l’indipendenza dal Belgio nel 1960, ma il leader democratico Patrice Lumumba dura solo 3 mesi, poi è deposto e fucilato con l’appoggio della CIA. Seguono anni di caos: nel 1965 il generale Mobutu prende il potere con un colpo di Stato e trasforma il Paese in dittatura rinominandolo Zaire. In 32 anni di potere accumula un patrimonio personale tra i 5 e i 15 miliardi di dollari, pratica il culto della personalità (anche sulle banconote c’è il suo volto), costruisce nella giungla una «Versailles africana» da 400 milioni di dollari dotata di bunker nucleare e pista d’atterraggio per il suo Concorde.
Negli anni ’90 il Paese è devastato dalla crisi economica e Mobutu, malato di cancro alla prostata, scappa e muore in esilio in Marocco. Al suo posto subentra Laurent-Désiré Kabila che per finanziare l’assalto alla capitale Kinshasa chiede 20 milioni di dollari al commerciante di diamanti israeliano Dan Gertler. Come contropartita cede il monopolio su ogni diamante estratto dalle miniere del Paese. Morto Kabila senior, subentra il figlio Joseph, che continua il saccheggio e crea uno Stato parallelo i cui fondi neri servono a comprare le elezioni e a gestire vaste reti clientelari. Il Paese è devastato da guerre etniche e conflitti regionali, e la Seconda guerra del Congo (1998-2003) causa 5,4 milioni di morti. Il primo trasferimento di potere senza violenza avviene solo nel 2019, quando Felix Tshisekedi diventa presidente, confermato nel 2023. Sulle miniere che si trovano nella parte orientale c’è il controllo dei ribelli M23 o di milizie corrotte e adesso, nella partita per lo sfruttamento delle risorse finora dominata dalla Cina, sono entrati anche gli Stati Uniti di Donald Trump: in cambio della recente mediazione per la pace con il vicino Ruanda, spingono per una partnership commerciale che sa di neocolonialismo. Così nonostante la Repubblica Democratica del Congo produca il 70% del cobalto mondiale, il 36% del rame e il 30% del tantalio (metallo che si estrae dal coltan ed è utilizzato nei dispostivi elettronici come telefoni cellulari e computer) rimane uno dei Paesi più poveri al mondo. Su 100 milioni di abitanti, 5,6 milioni sono sfollati e 3 cittadini su 4 vivono con meno di 2,15 dollari al giorno. La malnutrizione causa quasi metà dei decessi infantili e il 42% dei bambini sotto i 5 anni presenta ritardi nella crescita.
Angola
L’Angola diventa indipendente nel 1975 e subito scoppia una guerra civile che dura 27 anni e provoca oltre 500.000 morti. Nel 2002 il Movimento Popolare di Liberazione (MPLA) trionfa e José Eduardo dos Santos, presidente dal 1979, instaura un regime corrotto. L’economia cresce grazie al petrolio, ma i benefici vanno solo a vantaggio della ristretta cerchia politica e militare, con una gran parte delle entrate statali indirizzate verso conti bancari privati e società offshore. È nota la scandalosa speculazione di Kilamba, un quartiere residenziale con 20 mila appartamenti moderni costruito a 30 km dalla capitale Luanda, con un prestito cinese di 3,5 miliardi di dollari. Avrebbe dovuto ospitare 500.000 abitanti, ma per anni resta un villaggio fantasma, prima che il governo, con un enorme dispendio di denaro, lo rilanci abbassando drasticamente i prezzi. Nel 2011, il Fondo monetario internazionale scopre un buco di bilancio di 32 miliardi di dollari, legati alle vendite di petrolio: la maggior parte sono stati usati dalla compagnia statale Sonangol per tangenti e spese in nero. I fondi pubblici invece vengono dirottati sugli interessi vitali del regime: nel 2013 ben il 18% della spesa pubblica è utilizzato per la difesa e l’ordine interno. Le accuse di corruzione non frenano dos Santos, che nel 2016 mette a capo della Sonangol sua figlia Isabel, nota come la «donna più ricca d’Africa» con un patrimonio da 3 miliardi di dollari, e che all’apice della carriera controlla gran parte delle società energetiche, del settore bancario e della comunicazione. Il crollo dei prezzi del petrolio e la successiva crisi economica costringono l’anziano dittatore a dimettersi nel 2017, lasciando spazio al suo vice João Lourenço, che punta sulla lotta alla corruzione prendendo di mira la famiglia dos Santos. Il patriarca muore dopo una lunga malattia a Barcellona nel 2022, mentre Isabel è costretta a fuggire prima in Portogallo e poi a Dubai. Su di lei pende un mandato di cattura internazionale. Oggi l’Angola resta un Paese non libero, con lo stesso partito al potere da 46 anni. Il reddito pro-capite è crollato da 5.000 a 2.300 dollari in dieci anni, un terzo della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno e dall’inizio di quest’anno è in corso una grave epidemia di colera. L’economia è totalmente dipendente dal petrolio (il 50% del Pil e oltre il 90% delle esportazioni) che nel 2023 ha portato nelle casse dello Stato quasi 33 miliardi di dollari. Incredibilmente, però, l’Angola importa dall’estero l’80% di benzina e altri idrocarburi raffinati.
Zimbabwe
Lo Zimbabwe, ex colonia del Regno Unito, è stato uno degli ultimi Paesi africani a raggiungere l’indipendenza. La ottiene nel 1980, dopo una lunga lotta anticoloniale contro il governo razzista bianco della Rhodesia del Sud, guidato da Ian Smith. Alle elezioni vince sorprendentemente lo ZANU, il partito estremista di Robert Mugabe, nominato primo ministro. Mugabe ha alle spalle 11 anni in prigione e due tentativi di assassinio subiti durante la campagna elettorale. All’inizio si propone come leader conciliatore, ma nel 1983 i sanguinosi massacri tra i suoi sostenitori di etnia shona e quelli della minoranza ndebele, segnano la fine dell’immagine di pacificatore. Nel 1987 cambia la Costituzione, concentra su di sé tutti i poteri ed inizia la persecuzione degli avversari politici e la censura. Alla fine degli anni ’90, di fronte a una grave crisi economica, Mugabe tenta il rilancio con l’esproprio delle fattorie dei bianchi: i terreni finiscono nelle mani della sua cerchia che gestisce anche le ricche miniere d’oro e diamanti con il supporto di compagnie straniere, soprattutto cinesi. Fame e disoccupazione raggiungono livelli drammatici, ma il dittatore, manipolando le elezioni, resta al potere. Accanto a lui c’è la seconda moglie, Grace Mugabe, che nei primi anni 2000 rastrella enormi profitti con il commercio illegale di diamanti. Soprannominata Gucci Grace per il suo amore per il lusso sfrenato: compra Rolls Royce e case ad Hong Kong, e in una sola giornata di shopping a Parigi spende 120.000 dollari. Negli anni a seguire l’inflazione raggiunge il 100.000% (una pagnotta arriva a costare 10 milioni di dollari zimbabwesi), scoppiano epidemie di colera, ma nulla smuove l’ex «compagno» Mugabe. Superati i 90 anni tenta di lasciare al potere la moglie, ma è fermato dal suo vice, Emmerson Mnangagwa «il coccodrillo», che nel 2017, con l’aiuto dell’esercito, lo costringe a dimettersi dopo 37 anni. Oggi Mnangagwa è ancora al comando, centinaia di oppositori politici sono in galera e il Paese è sempre oppresso da un enorme debito pubblico, con un’inflazione all’85% nonostante ricavi 9 miliardi di dollari all’anno dalle risorse minerarie. Val la pena rimarcare che il mercato nero vale 40 miliardi.
Nigeria
Dopo un secolo di dominazione britannica, la Nigeria diventa indipendente nel 1960. Il Paese è composto da 36 stati autonomi con quattro gruppi etnici principali, divisi in centinaia di sottogruppi che parlano 500 lingue diverse. Dagli anni ’60 in poi è un’infilata di colpi di Stato militari, oltre alla guerra civile del Biafra (1967-70) che causa almeno un milione di morti. Solo dal 1999 tornano stabilmente governi eletti dal popolo, l’ultimo è stato votato nel 2023 con al vertice il presidente Bola Ahmed Tinubu. Però le consultazioni sono spesso contestate a causa dei brogli. La Nigeria è oggi il Paese più popoloso dell’Africa (237 milioni di abitanti) ed è diviso in due macroaree: il Nord, molto povero, in larga maggioranza musulmano e afflitto dagli attacchi terroristici degli estremisti islamici affiliati a Boko Haram; e il Sud in maggioranza cristiano, più sviluppato, con enormi giacimenti di idrocarburi che fanno della Nigeria il Paese africano più ricco di petrolio. Nel 2023 ha esportato 43 miliardi di dollari di greggio. Come in altri Paesi del continente l’attività estrattiva ad opera di compagnie occidentali ha provocato enormi danni all’ambiente senza contribuire al progresso sociale, alimentando una classe dirigente cleptocratica che si è arricchita attraverso tangenti versate dalle stesse compagnie petrolifere occidentali e fondi neri. La Nigeria è uno degli Stati più corrotti al mondo, mentre il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, scarsi servizi pubblici, e tasso di violenza e criminalità molto diffuse. Nella regione del Delta del Niger, dove avviene l’80% delle estrazioni di petrolio e operano Shell, Total, Chevron, Exxon Mobile e l’italiana Eni, di solito in joint venture con il governo nigeriano, da anni imperversano bande armate legate a doppio filo a politici complici e faccendieri locali che si finanziano attraverso il commercio illegale di petrolio e il sequestro degli operai delle aziende straniere. Nelle tasche degli amministratori finiscono anche i cospicui finanziamenti elargiti per sostenere la coltivazione del cotone. Un solo dato: l’industria tessile locale, che fino a 20 anni fa dava lavoro a centinaia di migliaia di persone, con oltre 150 aziende in tutto il Paese, oggi è quasi cancellata: di autoctone ne sono rimaste 3. Le importazioni a basso costo di prodotti cinesi e la mancanza di una fornitura elettrica affidabile (in un Paese pieno di petrolio) hanno decretato il crollo del settore. «La scarsa creazione di occupazione – scrive la Banca Mondiale – soffoca l’assorbimento dei 3,5 milioni di nigeriani che ogni anno entrano nel mondo del lavoro». Lavoratori che scelgono di emigrare, come da gran parte dei Paesi africani. Destinazione preferita: l’Europa.
Non solo corruzione
Dopo la decolonizzazione la maggior parte degli Stati africani è finita sotto regimi autoritari e corrotti. Secondo Freedom House oggi solo 10 Paesi su 54 possono vantare un sistema democratico e libero.
Quelli più ricchi di risorse sono stati depredati dalla rapacità di dittatori e tiranni. La presenza di idrocarburi e pietre preziose non solo ha scatenato conflitti per la spartizione tra gruppi o etnie, ma ha anche devastato economie basate sull’agricoltura: proprio l’ingresso di tanta valuta straniera ha reso più convenienti le importazioni di beni essenziali a scapito delle produzioni nazionali. Ma non sta scritto da nessuna parte che il destino dell’Africa debba essere misero. Negli ultimi anni l’economia sta crescendo molto di più che nel resto del mondo, e al contrario del resto del mondo ha una popolazione giovane. Gli esempi di Sudafrica, Ghana e Botswana dimostrano che i Paesi democratici sanno creare uno sviluppo dignitoso del proprio popolo, togliendo le risorse dalle mani dei cleptocrati, per investirle in istruzione, sanità e tecnologia.