Preferirei di No - Bollettino di di Gog Edizioni, 2 luglio 2025
I nostri scrittori sono tutti bruttissimi (e la Scuola Holden non serve a niente)
Qualche giorno fa è scoppiata una timida polemica intorno alla Scuola Holden, a seguito della “confessione” di una giovane studentessa, che lamentava il clima insopportabile di competizione, piaggeria e arrivismo sfrontato tra gli alunni, il tutto a fronte di una retta annuale di 10k, che promette, dopo due anni di frequentazione dei corsi, uno scontrino firmato da Baricco in persona, un bacio a stampo da Chiara Valerio e a qualche amio la possibilità di pubblicare con la casa editrice di Cattelan junior (quello che ha deciso di fare l’editore perché “leggere è anche divertente"). In risposta la Holden ha girato un video dove intervistava i genitori degli alunni, che si dicevano contenti di aver speso tutti quei soldi: finalmente vedevano «il sorriso negli occhi dei loro figli» (praticamente una comunità di recupero). Grazie al cielo il video è stato immediatamente rimosso per violazione degli standard di imbarazzo della community, salvo scatenare un’ulteriore polemica.
La scuola Holden la conosciamo abbastanza bene. Alcuni nostri amici ci sono cascati, hanno convinto mamma e papà a versare 20k di retta per due anni di studi. Garantendosi così il lusso di procrastinare quanto basta lo schiaffo della realtà sulle proprie allucinazioni letterarie. Mentre ai genitori la retta ha assicurato una bella mano di bianco sulla coscienza, appaltando a una scuola di non sa bene cosa l’annoso problema del maledettismo adolescenziale della prole, ora messo finalmente a frutto, o almeno fuori di casa per un biennio, ammortizzando crisi familiari, dipendenze da stupefacenti e sedute dallo psicologo. Alle feste di fine Salone, con nomi falsi o escamotage indecorosi, ci siamo imbucati anche noi, per vedere cosa succedeva nel “tempio della scrittura e dello storytelling”. Ebbene c’erano tutti, ma proprio tutti, l’intera intellighenzia italiana: praticamente i più sfigati del Paese. Perché bisogna ammetterlo, i nostri scrittori sono i più brutti d’Europa [alert bodyshaming ma solo sui maschi, fa meno male]: dallo strabismo di Paolo di Paolo di Paolo alla trasandatezza di Francesco Piccolo passando per il baffetto da pornoattore di Mario Desiati e l’imperdonabile assenza di mento di Antonio Scurati, i nostrissimi non fanno sicuramente buona pubblicità al mestiere. Chi vorrebbe fare lo scrittore oggi, se il rischio è quello di finire vestiti come Paolo Cognetti, brand ambassador della sciatteria rupestre (sarà colpa sua se oggi tutti in città si mettono le Salomon)? Abbiamo nostalgia degli addominali di Pasolini, dei gessati di Moravia, delle camicie floreali di Arbasino o gli occhiali aviator cazzutissimi.
Per fortuna resiste ancora Aurelio Picca, stregone della parola, pugile della sintassi, scrive come se si battesse all’ultimo sangue, come se da quel punto e virgola dipendesse tutta la sua vita. Chi può legga i suoi libri, legga tutto di lui. Oppure cerchi su google, e vada a vedersi le sue foto. Guardategli la faccia da criminale, gli occhi da volsco dei colli albani, le basette da vampiro, guardate gli anelli che indossa – non a caso si definisce gemmologo, prima che scrittore – e poi ancora i cappotti di visone, le camicie estreme a punta di lancia, il berretto fetish, gli anfibi gotici, mezzi punk mezzi militari. Quando lo incontrammo nei pressi del lago di Nemi ci promise un libro: i mulatti. Romanzo di viaggio psichedelico e selvaggio, uscito negli anni Novanta, oggi introvabile. Un giorno lo ripubblicheremo noi – è scritto. Ma ecco Aurelio Picca è bello, bellissimo, il più bello degli autori viventi, che sono tutti morenti. Con lui vuoi andare a cena, a ballare, vuoi copiargli l’oufit, vuoi avere i suoi stessi pensieri inammissibili. Aurelio Picca è reduce di un’epoca in cui uno scrittore non doveva vergognarsi delle sue passioni e perciò delle sue ingiustizie, dei suoi odi e dei suoi amori – per le donne, per le belle macchine, per l’alta sartoria, per la ferocia dello sport, per l’oro e le pietre preziose, tutti amori che gli autori di oggi devono schivare, nascondere, peggio ancora che non devono neanche provare davvero. Camuffati di finta umiltà, solidarietà disumana e diabolica, finto servilismo civico, sembra stiano lavorando per noi questi benefattori: ci dicono come scopare, come amare, come votare, come piangere, come rivolgerci alle madri, ai figli – preti laici con una scrittura condominiale, aggrovigliati nel loro trauma intimo di fronte a cui persino una preghiera risulterebbe eccessiva, e incapaci di trasformare quel trauma in un’autentica, falsissima eccentricità, una stranezza qualsiasi che ce li renda memorabili. Leggiamo Aurelio Picca, l’ultimo – il primo! – scrittore d’Italia perché il più indifeso: la parola non lo tutela, non lo mette in sicurezza dietro la moraletta da quarta di copertina, anzi lo espone sempre al giudizio universale – la somma di tutte le prepotenze della vita. È banale dirlo ma serve una scuola di vita, non una scuola di scrittura – agli scrittori.