Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  luglio 01 Martedì calendario

New York e l’avviso di sfratto a sinistra

«Carneade! Chi era costui? ruminava tra sé don Abbondio». E mentre si faceva quella domanda «era lontano dal preveder che burrasca gli si addensasse in capo». Quello che Manzoni scrisse calza a pennello per l’intero gruppo dirigente del Partito Democratico Usa. Zohran Kwame Mamdani: chi è costui?
Mamdani ha vinto le primarie democratiche che hanno deciso il candidato del partito per le elezioni a sindaco di New York che si terranno a Novembre. Contro previsioni e sondaggi, le ha vinte avendo la meglio su Andrew Cuomo, uno degli ultimi prodotti del ceto e delle dinastie impossessatesi da lustri del partito Democratico Usa. Cuomo ha perso pur avendo ricevuto l’appoggio di personaggi come Bill Clinton (ex presidente) e Michael Bloomberg (boss della informazione economica ed ex sindaco della stessa New York) nonché una barca di milioni di dollari persino da finanziatori della recente campagna presidenziale di Donald Trump.
Questo già basterebbe a spiegare tanta sorpresa, solo che la sorpresa è stata ancora maggiore. Perché?
Perché New York è per i democratici americani una specie di quello che ai «tempi d’oro» era Padova per la Dc e Bologna per il Pci. Solo che New York non ha qualche centinaio di migliaia di abitanti, come Padova e Bologna, bensì oltre dieci milioni e con la sede dell’Onu e la borsa di Wall street è più o meno la «capitale del mondo».
Perché Cuomo (67 anni) è nato a New York e dello stato di New York è stato governatore e figlio di governatore. Padre e figlio sono stati a lungo astri della politica americana e svariate volte sul punto di correre per la Casa Bianca. L’uno e l’altro sono esponenti di spicco di quell’ala moderata e riformista del Partito Democratico che alla Casa Bianca ha portato Clinton e Obama. Ala che a New York ha casa e anima.
Perché Zohran Kwame Mamdani ha 33 anni (meno della metà di Andrew Cuomo) e non è nato a New York, ma a Kampala, in Uganda; perché Mamdani si proclama socialista che in America è una bestemmia o un insulto; perché Mamdani nel programma aveva cose come bus gratis o una catena di generi alimentari di proprietà del comune per combattere il costo della vita. La sua linea, che lui stesso dichiara di aver appreso da Trump, era: «per una città che ti puoi permettere». Perché Mamdani è musulmano, propone «la globalizzazione della intifada», e ciò nonostante ha mietuto non pochi consensi anche tra la popolazione ebrea di New York (la più grande concentrazione urbana di ebrei dopo Gerusalemme).
Mamdani ha fatto una cosa che i vecchi democratici riformisti non sanno più fare: ha portato o riportato la gente a votare, soprattutto i giovani, tantissimi. Ha mietuto consensi in tutte le direzioni. Diversamente da Cuomo, Mamdani non ha ricevuto mega donazioni, ma una valanga di micro donazioni. Ha resistito alla costosissima campagna pubblicitaria di Cuomo che (a ragione) ne metteva in risalto la assoluta inesperienza e le posizioni estremiste e utopiste. Mamdani spopola sì sui social, ma ha anche letteralmente attraversato a piedi New York alla maniera delle vecchie campagne elettorali, ha bussato ad almeno un milione di case (non è una iperbole) ed ha saputo mobilitare circa 46.000 volontari.
Naturalmente a Novembre, quando si terranno le elezioni per il sindaco, a votare saranno chiamati tutti i newyorkesi e non solo i democratici e potrebbe finire ben diversamente. Andrew Cuomo potrebbe correre come indipendente e come indipendente potrebbe correre anche l’attuale sindaco, Eric Adams anche lui democratico, ma autore di compromessi con Trump. E ci saranno pure i repubblicani, anche se qui sono piuttosto deboli. Potrebbe finire diversamente, ma anche alle primarie si credeva che sarebbe finita diversamente.
Dunque vale la pena fissare una lezione che i fatti hanno già impartito. In America la sinistra riformista non solo non ce la fa a battere la nuova destra (quella di Trump e Vance), ma non è neppure più padrona a casa propria. Innanzitutto perché in ogni senso è vecchia, ovvero adeguata ad una società e ad una cultura che non esistono più. La vecchia sinistra democratica non convince più i non democratici, di un po’ almeno dei quali per vincere dovrebbe guadagnare il voto, e non è capace di scaldare il cuore dei democratici perché innanzitutto biograficamente, ma poi anche socialmente e stilisticamente rappresenta una stagione finita e consumata, un tempo vittoriosa e ormai sconfitta.
Le trasformazioni economiche e culturali hanno eroso il centro («orizzontale» e «verticale») della società, ovvero quella parte della opinione pubblica, mai maggioritaria ma a lungo decisiva, che è disposta a votare ragionando e dunque a spostarsi di elezione in elezione sul candidato «meno peggio» e che è disposta a mixare sentimenti e argomenti.
Sempre il voto ha una componente strumentale (quella che premia il programma e l’ esperienza) ed una componente espressiva (voto per dire «chi sono» e «cosa sento»). Oggi, però, la seconda dimensione quella espressiva è nettamente prevalente rispetto alla prima, e non solo negli Usa. Questa prevalenza della componente espressiva sulla componente strumentale del voto è una caratteristica dei momenti di crisi politico-sociale, assolutamente legittima e però anche pericolosissima perché strumentalizzabile.
In questo momento è come se la maggior parte degli elettori (tanto a destra quanto a sinistra) pensassero che non gli è rimasto altro da fare che vendicarsi. Ai politici moderati che per lustri hanno tradito le promesse fatte, ora l’elettore risponde votando non chi fa proposte credibili, ma chi dà voce a proteste e rancori che dell’elettore scuotono anima e pancia (rancori e proteste rispettabili e suicidi, come Manzoni ci aveva spiegato nell’episodio del «forno delle grucce» e come i britannici hanno sperimentato con la Brexit). Vinta dalla rabbia e dalla insoddisfazione, alla maggioranza di elettori poco importa se il politico che si appropria delle loro proteste e dei loro rancori si rivelerà ancora più bugiardo dei politici di prima. In questo momento non si vota pensando al governo, si vota per dire «chi si è» e «come ci si sente», per dire «cosa si sogna». Oggi, come nei momenti delle crisi più gravi (si pensi agli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale), la politica è travolta da una domanda «non-politica»: il politico competente ed onesto ne vine spazzato via, il politico furbo sfrutta la situazione.
Naturalmente può anche capitare che, una volta al governo, chi è arrivato lì strumentalizzando le paure e la rabbia getti la maschera e cominci a fare cose ragionevoli. A quel punto, però, i margini che gli restano sono modesti. Quel politico non è libero dalle proteste che ha fatte proprie né dal personale politico che gli si è accodato. In questi giorni se ne è accorto persino Trump che quando ha visto rivoltarglisi contro una bella fetta dell’elettorato e del movimento che aveva raccolto intorno al pilastro dell’isolazionismo. Neppure dentro la Casa Bianca si è liberi dagli umori che hai accarezzato per arrivarci.
Naturalmente nulla esclude che a parlare al cuore siano capaci anche i non estremisti, e sì che di esempi del genere ne abbiamo avuti: da Churchill, a De Gasperi ad Adenauer. Solo che, di fatto, nella sinistra non solo americana di riformisti caldi e credibili o non ce ne sono o non escono allo scoperto. A sinistra, negli Usa e non solo, sembrano rimasti solo o riformisti da museo cinici e salottieri destinati a perdere contro estremisti altrettanto cinici e altrettanto salottieri. A sinistra, la terza via, quella di un riformismo empatico, credibile ed emozionante («principled» direbbero a New York), al momento è ancora deserta.