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 2025  giugno 30 Lunedì calendario

Intervista a Elisabetta Antonioni

«Se c’era una cosa che mio zio detestava quella era il pesce».
Il pesce?
«Sì, a causa della sua passione per le donne. Sin da ragazzino le ha sempre amate tanto. E ne ha avute tante. Fra le sue amanti c’era la moglie del pescivendolo di Ferrara. Aveva il negozio proprio qui dietro – Elisabetta Antonioni indica una via alle spalle della piazza del Comune, dove ora siamo sedute a bere un caffè e mangiare una “ricciola”, la tipica brioche dolce-salata ferrarese —. Quella volta la combinò grossa».
Nei ricordi di Elisabetta, quelli più personali, Michelangelo Antonioni è soprattutto questo: prima ancora del regista geniale e visionario, suo zio è l’uomo bellissimo, charmant e corteggiatissimo da donne «d’ogni età e d’ogni estrazione sociale», che volentieri ricambiava, combinando più di qualche pasticcio. Come quello con la moglie del pescivendolo: «Una notte che il marito della signora era uscito a pesca, mio zio andò a casa sua. Ma il pescivendolo fece rientro prima del previsto, così lei, per non farsi scoprire, chiuse Michelangelo nella cella frigorifera del negozio. Passò lì qualche ora, al freddo e con la puzza di pesce, prima che lei riuscisse a liberarlo. Da quella notte non volle mai più mangiare pesce e neppure sentirne l’odore».
Quanti anni aveva?
«Un ragazzo. Andava ancora alle superiori. Faceva la ragioneria. Anche la scelta della scuola, certo non la più adatta a uno con la testa come la sua, dipese da una donna».
Anche la scuola.
«Sì. Inizialmente si era iscritto al liceo classico, il suo posto, ma poi litigò con il preside per una questione di donne, appunto».
La prima donna per cui perse la testa?
«All’asilo. Scappò con una bimba. Li ritrovarono in un fossato. A casa ho sentito questa storia per anni».
Ma lei di queste donne ne ha solo sentito parlare in famiglia o le ha anche conosciute?
«Entrambe le cose. Ma, mi creda, non sto esagerando. A casa ho pacchi di lettere che gli scrivevano le sue corteggiatrici quando ormai si era trasferito a Roma. Donne di Ferrara, alcune anche sposate, che, non avendo l’indirizzo romano, le spedivano a casa dei suoi genitori. Il mio papà – suo fratello – e il nonno – suo padre – le hanno conservate. Ora le ho io».
Il suo più grande amore?
«Posso rispondere in base a quello che io ho visto e vissuto in prima persona. Di sicuro un grande amore è stata Monica Vitti».
Una coppia meravigliosa. Com’erano, visti da vicino?
«Lei era dolcissima con lo zio. Li ricordo al funerale del nonno, negli anni 60: mio zio che era sempre così riservato e taciturno in pubblico, quel giorno piangeva come un vitello sgozzato. Monica gli teneva la mano e lo stringeva a sé. Lo lasciò solo quando mi avvicinai io per prendergli la mano al suo posto».
Quale è il suo primo ricordo di Michelangelo?
«Ero una bimba, lui arrivò con un amico a casa nostra. Ero timida e mi nascosi dietro il divano. Seppi solo dopo, da grande, che quell’amico misterioso era Tonino Guerra».
I ricordi più belli da piccola?
«Avevo dieci anni. Lo zio arrivò con la sua Giulietta Sprint. Mi disse: “Andiamo a fare un giro”. Quando fummo in macchina aggiunse: “Ora io e te fuggiamo a Roma, non diciamo niente a Carlo Alberto – il mio papà – lo avvisiamo quando siamo arrivati”».
Lo faceste davvero?
«No! E ora me ne pento. Ero una bambina troppo seria per sparire senza dire nulla ai miei. Poi l’anello che mi ha regalato: mi portò da un antiquario qui a Ferrara, scelse un anello antico, pagò e me lo mise in mano. E io che credevo fosse per Monica».
Memorie romane?
«A 14 anni andai a Roma con i miei, lui chiese di lasciarmi lì perché Monica non c’era, gli avrei fatto compagnia. Michelangelo aveva l’attico di questa palazzina in via Tiberio, al Fleming, Monica il superattico. Mi fece dormire lassù, nell’appartamento di Monica. Ricordo la cura che ebbe per me: mi riempì la vasca da bagno e mi fece altre coccole a cui non ero abituata perché a Ferrara facevo tutto da sola. La mattina dopo mi disse: finalmente ho dormito, perché c’eri tu».
Suo zio la considerava la figlia che non aveva avuto?
«Forse, anche se non avere figli per lui fu una scelta. Di sicuro avevamo un legame speciale. Ero per lui una presenza rassicurante. Era di poche parole, si sa. Ecco, noi ci capivamo con uno sguardo».
Era di poche parole anche in famiglia?
«No, anzi. A tavola si scioglieva, si apriva. Ci raccontava della Ferrara anni 30, quella della sua giovinezza. La Ferrara di Giorgio Bassani e di Gaetano Tumiati, suoi carissimi amici dai quali apprendeva ascoltando: avendo fatto la ragioneria si sentiva inferiore a loro, così li ascoltava. Poi accadde che si innamorò della sorella di Tumiati».
Ancora una donna. E?
«Voleva sposarla. Era innamorato perso. Ma quando andò a chiederla in sposa suo padre gli rispose: “Non se ne parla proprio, non hai né arte né parte”. Prese una porta in faccia tremenda. Ma con Tumiati rimasero amici e continuarono a frequentarsi».
Veniva spesso a Ferrara?
«Finché fu in vita sua madre spesso. Un inciso».
Prego.
«La nonna morì alla fine della guerra. Lui lo seppe molti giorni dopo perché in quel periodo i telegrammi capitava che arrivassero in ritardo o si perdessero fra una parte dell’Italia liberata e un’altra ancora no. Sua madre era la donna più importante per lui, non aver potuto partecipare al suo funerale fu un dolore immenso. Dicevamo, Ferrara. Dopo venne sempre meno, ma anche perché iniziò a girare i film all’estero».
Era legato alla sua città?
«Profondamente. Diceva: chi perde la propria città le perde tutte. Infatti Ferrara c’è sempre nei suoi film. C’è anche quando non c’è. Con le atmosfere o i particolari che chi non è ferrarese non può cogliere».
Un esempio?
«Nel documentario “Chung Kuo, Cina”, a un certo punto si vede un muro di mattoni rossi con una bici da uomo appoggiata. I nostri muri, le nostre biciclette. Quell’immagine su cui la telecamera indugia è un richiamo a Ferrara».
La cosa più bizzarra che ricorda di suo zio?
«Il catalogo dei nomi strani di Ferrara».
Scusi?
«Sì, i nomi propri delle persone. I ferraresi non amavano molto la Chiesa e pur di non chiamare i propri figli come i santi davano loro nomi strambi. E lui ne aveva fatto un catalogo ragionato».

L’oggetto a cui era più affezionato?
«Gli oggetti: il suo violino e la sua racchetta».
Il suo piatto del cuore?
«Il pasticcio di maccheroni, ovviamente fatto da sua madre, le meringhe e i semi di zucca. Ne andava matto. Finché è riuscito li apriva con le sue mani, quando è stato colpito dall’ictus e non riusciva più a farlo, lo facevo io e glieli passavo. E lui con la mano mi faceva un gesto come a dire: ancora, ancora!».
Cosa ricorda dell’ictus?
«Lo ebbe in diretta al telefono con mio padre. Stavano chiacchierando e lo zio iniziò a balbettare. Papà gli disse di chiamare un medico, ma lui non lo fece. Alla sera andò a cena fuori e crollò».
Aveva un film che amava più di altri?
«Quello che stava girando».
Cosa le manca più di lui?
«Quel modo di proteggermi che aveva. Lo ha fatto finché ha potuto. Questo mi faceva sentire speciale».