il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2025
Gli azzeccagarbugli e il comico sprint per svendere San Siro
È ormai lunga la triste storia della svendita del patrimonio immobiliare degli italiani, questa ricchezza collettiva accumulata nei secoli, e crescentemente rimessa in mani private negli ultimi decenni. La creazione della Agenzia del Demanio (1999) inaugura una stagione di saldi che nel 2008 era arrivata a cedere immobili pubblici per un controvalore di circa 25 miliardi di euro. Dopo una serie di tappe, tutte dovute a governi di centro-sinistra, l’apice della privatizzazione del patrimonio pubblico si era toccata, è noto, grazie a Giulio Tremonti, con “la costituzione, nel 2002, della Patrimonio dello Stato spa, una società per azioni che, almeno teoricamente, avrebbe potuto gestire e alienare qualunque bene della proprietà pubblica. In un colpo solo, lo Stato intero, il complesso della proprietà pubblica, si sarebbe potuta dematerializzare nella forma di azioni” (Ugo Mattei, Edoardo Reviglio, Stefano Rodotà). L’ultimo rapporto della Ragioneria dello Stato (2024) ci informa che un’altra parte di ciò che rimane (un patrimonio stimato in circa 65 miliardi di euro: Musk o Bezos lo potrebbero comprare tutto) è pronta per essere alienata (per il controvalore di circa due miliardi): facile fare i conti su quanto ci siamo impoveriti rispetto ai nostri nonni e padri, perché tutto il ricavato è stato gettato nella spesa corrente, mentre l’indebitamento sale. Insomma, in questa infinita decadenza italiana stiamo campando vendendoci a pezzi il patrimonio di famiglia.
Ultimo, clamoroso, caso: San Siro. Lo stadio milanese è un vero e proprio monumento, sia per le caratteristiche architettoniche, sia per ciò che rappresenta nella storia culturale e del costume, sia per la tribuna ovest, “‘archivio esposto” per l’affollarsi di memorie epigrafiche che ne fanno una sorta di museo a cielo aperto della storia del calcio italiano. Un monumento di fatto, ma – secondo l’amministrazione comunale milanese – non ancora un monumento di diritto: da qui la corsa contro il tempo per alienarlo prima che scatti il vincolo, che imporrebbe una autorizzazione ministeriale alla vendita e, appunto, vincolerebbe gli acquirenti, che non potrebbero a quel punto raderlo al suolo per darsi a briglia sciolta alla più ghiotta delle speculazioni edilizie disponibili a Milano.
Come è noto, è stato Dario Franceschini a regalare al mercato vent’anni di patrimonio culturale italiano, innalzando da 50 a 70 anni la soglia di tutela. E ora, in un precipizio tragicomico, ci si accapiglia sui mesi, sui giorni, e tra poco sulle ore, per capire quando scatti appunto l’odiosa tutela: come se il compito delle pubbliche autorità fosse di eluderla a ogni costo, e non semmai di assicurarla (eppure l’articolo 9 recita: “La Repubblica tutela…”; tutta la Repubblica, e dunque anche i sindaci). Il Comune di Milano, confortato da un primo parere della Soprintendenza, è convinto che la data fatidica sia quella del collaudo provvisorio, avvenuto il 10 novembre 1955: una data ripetuta a pappagallo dal ministro Giuli in Parlamento, giovedì scorso. Ma il documentatissimo ricorso al Tar presentato dalle avvocate Veronica Dini e Roberta Bertolani nell’interesse di Luigi Corbani (e di molti altri cittadini, tra cui il Comitato referendum Milano), presidente del Comitato “Sì Meazza”, sciorina fior di prove documentali che fissano l’esecuzione del 76,85 % delle opere in cemento armato all’8 giugno 1955: e del resto sappiamo che già alla fine del 1954 la struttura dello stadio era integralmente costruita, e ben riconoscibile dall’esterno. E visto che il Codice dei beni culturali chiede, come unico requisito per far scattare la tutela, che l’«esecuzione risalga ad oltre settant’anni» non c’è alcun dubbio sul fatto che, ad oggi 30 giugno 2025, lo stadio di San Siro “Giuseppe Meazza” è un bene culturale: cosa peraltro ovvia nel senso comune, visto il suo ruolo nella storia milanese e nazionale, non solo dello sport. La vicenda del Salva Milano dovrebbe aver insegnato che le regole non sono un intralcio alla crescita, ma anzi sono la garanzia che questa crescita non sia una giungla di interessi privati che sommerge diritti e spazio pubblico. Pensiamo ancora che la città sia fatta anche di storia e memoria comuni? Di spazi in cui non essere consumatori e clienti? Di edifici capaci di allacciare il legame, anche sentimentale, tra generazioni? Oppure pensiamo che l’unico valore riconoscibile sia il prezzo di ogni cosa, e che la rendita privata sia dunque l’unica bussola per una crescita senza limiti, e senza umani rispetti?
Dal nostro passato emerge un’altra visione dei rapporti sociali e generazionali: “credono infatti che la vergogna più infamante consista nell’annotare nei pubblici registri che la città, allettata da una somma di denaro, e per di più da una somma modesta, ha venduto e trasferito legalmente su altri la proprietà di oggetti ricevuti dagli antenati”. Così, secondo Cicerone, la pensavano i greci di Sicilia: con un senso del bene comune che oggi davvero ci sogniamo.