29 giugno 2025
Gli abiti che hanno fatto la storia
100 abiti che sconvolsero il mondo. Ediz. a colori
Massimiliano Capella, 24 Ore Cultura, 2024, 66,50 €
Nell’età greco-romana, la moda imponeva tre capi base, ispirati alle colonne e agli ordini architettonici: il peplo, il chitóne e l’himàtion. Rigorosamente unisex, l’unica differenza era la maggior ricercatezza ed eleganza delle forme e delle decorazioni dei capi destinati alle donne.
Nell’antica Roma il chitóne greco diventa tunica, mentre l’himàtion si trasforma in mantello o toga maschile o palla femminile.
«Gli abiti del nostro cortegiano (…) amerei che non fossero estremi in alcuna parte, come talor sol esser il franseze in troppo grandezza e ’l tedesco in troppo piccolezza, ma come sono e l’uno e l’altro corretti e ridutti in miglior forma dagl’Italiani» (Baldassare Castiglione, Il libro del Cortegiano, Venezia 1528, Libro II, XXVII).
Nei primi decenni del XVI secolo – per valorizzare la virilità maschile – si diffuse in Europa la braghetta, una sacca penica messa orgogliosamente in vista.
Nella seconda metà del Cinquecento, la Controriforma, il ritorno all’ordine: il trionfo del colore nero, massima espressione della gravitas di Filippo II, re di Spagna.
Filippo II di Spagna, che diffuse in tutta Europa il primato etico del nero e della moda alla spagnola che impone un vero stravolgimento di stile, dove il corpo viene coperto e negato per assecondare la rigorosa morale cattolica. L’uomo indossa una divisa rigida, scomoda e quasi funerea, che falsa le naturali proporzioni delle membra: il farsetto è imbottito sul davanti dal collo fin sotto alla cintura (dove termina a punta), creando una sporgenza curvilinea detta a petto d’anitra o di piccione; le maniche sono lunghe e aderentissime, adornate all’attaccatura delle spalle da alette imbottite, i picadillos. La figura acquisisce nuovamente volume attorno ai fianchi, con i calzoni, in un primo tempo di foggia molto simile a quelli tedeschi, che assumono la famosa forma à gigot, completati dall’immancabile braghetta, che scompare però definitivamente dopo il 1580. Le gambe sono fasciate da una lunga calzamaglia, sempre abbinata a scarpe piatte del tutto simili a quelle tedesche, forse solo più aderenti. Immancabile è poi la cappa, mantellina corta e rotonda, portata sulle spalle e fatta roteare per metà sul davanti. Costretta all’interno di una gabbia di stoffa, anche la donna viene intrappolata in un’armatura artificiosa fatta di rigidi corpetti, identici nella forma ai farsetti maschili, aderenti e irrobustiti da un telaio di cartone e da stecche di legno, lunghe e fascianti maniche a guanto (manches closes), alcune delle quali prevedono imbottiture sferiche alle spalle (manches en maheutres), e un lungo mantello che scende fino a terra. La parte dell’abito più rigida è però la gonna, strettissima in vita e via via sempre più scampanata, sostenuta da una sottogonna montata su cerchi concentrici di vimini: il guardinfante, comparso per la prima volta intorno al 1550, una vera e propria gabbia costruita con i germogli novelli di un arbusto particolarmente flessibile e quindi facilmente modellabile. Il corpo, imprigionato e ricoperto di tessuto nero, viene ulteriormente irrigidito dall’impiego della gorgiera: collare rialzato a raggiera, pieghettato e inamidato (con farina di grano, crusca o altri cereali), realizzato con diverse metrature di mussola, trina o lino, espressione tra le più alte della posizione sociale aristocratica, perché chi lo indossa non può piegarsi e quindi sporcarsi le mani.
Durante il regno di Luigi XIV, grazie all’economista Jean-Baptiste Colbert, i dettami dell’etichetta di corte di Versailles vengono trasformati in una vera e propria fonte di guadagno, mettendo a punto una serie di fruttuose riforme indirizzate proprio a potenziare le industrie francesi dell’abbigliamento e della cosmesi. La moda diviene per la Francia espressione culturale e politica.
Modello di abito maschile a Versailles sotto il re Sole: calzette di seta bianca ben tese sul polpaccio, scarpine ricamate dal tacco quadrato e laccato di rosso (talon rouge), cappelli a tricorno e bastoni da passeggio in sostituzione ai copricapi piumati, la militaresca spada e, infine, il colletto à jabot, un cravattino di finissimo merletto bianco posto attorno al collo e portato un po’ svolazzante sotto il mento.
Gli uomini del Settecento che sostituirono gli ingombranti parrucconi alla sovrana con piccoli parrucchini incipriati di bianco o grigio, ailes de pigeon (ali di piccione), lisci sulla sommità del capo e abboccolati a livello delle orecchie, con il codino infiocchettato lungo la schiena.
Le maniche degli abiti femminili dell’Ottocento, che continuavano ad allargarsi a dismisura: venivano prosaicamente definite a coscia di montone, a prosciutto, a elefante, sostenute da un’armatura di tela di canapa o di fil di ferro
Intorno agli anni Quaranta la donna è praticamente schiacciata dalla soffocante linea «a clessidra», delineata dall’impenetrabile bustino dalla vita strettissima, ormai tornata sopra i fianchi, e dalla crinolina, la più importante e sconvolgente novità del secolo: una sottostruttura a più strati, tanto rigida e resistente da sostenere gonne e sottogonne confezionate con tessuti sontuosi, come velluti e sete marezzate.
La spagnola María Eugenia de Guzmán Montijo, moglie dell’imperatore Napoleone III, vive nel mito dell’ultima regina di Francia Maria Antonietta e dell’eleganza rococò, che fa rivivere a corte grazie all’estro e all’ingegno del sarto Charles Frederick Worth (1825- 1895), capace di ricreare quella frivolezza e pomposità tipiche del Settecento.
La paglietta, il cappello di paglia, accessorio indispensabile e principale eccellenza internazionale della moda italiana di fine Ottocento: la sua produzione conosce infatti un mercato fiorentissimo, tanto da registrare nei primi anni del XX secolo un’esportazione in tutto il mondo di circa 12 milioni e mezzo di cappelli da uomo di feltro e oltre 11 milioni in paglia o truciolo.
Lo stilista Paul Poiret, che eliminò il busto strettissimo e l’uso di sete velluti e damaschi, il vero liberatore della donna moderna.
La rivoluzionaria Coco Chanel (1883-1971), che compie un nuovo sconvolgimento estetico e formale. Chanel dichiara che avrebbe vestito le donne di nero, e così, ispirandosi un po’ al vestito monacale che aveva accompagnato la sua infanzia e un po’ al rigore della divisa della servitù, inventa il tubino nero. Nell’ottobre 1926 Vogue America pubblica per la prima volta «Il vestito che tutte le donne indosseranno», paragonato, per semplicità, eleganza misurata e diffusione alla Ford Model T.
Nel 1938 viene lanciato sul mercato il primo paio di calze in filo nylon, il cui brevetto è stato depositato l’anno precedente.
Il 12 febbraio 1947, sempre a Parigi, Christian Dior lancia la sua prima collezione – denominata «New Look» da Carmel Snow, su «Harper’s Bazaar» – fatta di un’inedita eleganza e tessuti di uno sfarzo che intende far dimenticare le sofferenze belliche.
Nel 1954 il 50% dell’esportazione totale di moda francese fa capo ancora a Christian Dior ma, in quello stesso anno, all’età di settantuno anni, Coco Chanel riapre la sua maison, chiusa durante il conflitto, pronta a dichiarare guerra al collega che ha trasformato la donna in un fiore. La prima sfilata di Chanel è un fiasco ma, con un vero colpo di genio, segue il trionfo con il lancio di quella che diventa la sua cifra stilistica – il tailleur in tweed con gonna al ginocchio, giacchino dai bottoni-gioiello e profili a contrasto, il tutto accompagnato da scarpe bicolore, spille, lunghe collane di perle, borsetta a effetto matelassé con catenella dorata. Nasce così quell’iconica uniforme che riesce finalmente a trovare un punto di contatto tra due estetiche: apprezzata e osannata tanto dalle signore europee quanto dalle ricche e facoltose donne americane.
Il 20 febbraio 1956 Giorgini sbarca a New York dal transatlantico Cristoforo Colombo con otto contesse italiane, protagoniste della celebre Fashion Cruise del Transatlantico della Moda, in cui le otto nobildonne rappresentano e vestono altrettante case di moda: Lorian Gaetani Lovatelli per Antonelli, Maria Teresa Siciliana di Rende per Schuberth, Consuelo Crespi per Fabiani, Diamante Capponi Cornaggia Medici per Veneziani, Mita Corti Colonna di Cesarò per Carosa, Kiki Brandolini d’Adda per Marucelli, Barbara Biscareti di Ruffia per Capucci, Jacqueline Borgia per Simonetta.
Lo stilista Pierre Balmain, che per il ritorno di Maria Callas alla Scala, il 7 dicembre 1960, donò al Teatro un addobbo floreale composto di seimila garofani dalle sfumature rosa.
Lo scandaloso e metropolitano Taxi Dress, lanciato nel 1932 dall’inglese Charles James: un abito così facile da indossare che poteva essere tolto e rimesso sul sedile posteriore di un taxi.
La produzione artigianale contrapposta a quella industriale, haute couture vs prêt-à-porter
Il guardaroba degli antichi Greci, composto da due capi fondamentali: il chitóne e l’himàtion. Il chitóne (o peplo) è formato da un unico pezzo di tessuto rettangolare, con una larghezza che può variare da 180 a 350 cm, viene avvolto orizzontalmente intorno al corpo, fissato sulle spalle con spilloni, fibule o borchie, segnato sotto il seno da una cintura sottile o più ampia in cuoio (zoster), rimborsato in vita (kolpos) e ricade nella parte inferiore con pieghe ispirate alle scanalature delle colonne degli ordini architettonici: rade e austere (ordine dorico) o molto fitte e decisamente più eleganti (ordine ionico). L’himàtion è composto anch’esso da un unico pezzo di tessuto rettangolare e viene drappeggiato intorno al busto come un mantello, fissato sulla spalla destra o su entrambe le spalle, avvolto intorno al corpo e utilizzato anche come cappuccio. Ai piedi vengono sfoggiati sandali con lacci ai polpacci o alle cavi- glie, con suole di cuoio, sughero o legno, mentre gli uomini possono indossare anche degli stivaletti.
La clàmide, sempre composta da un unico rettangolo di tessuto avvolto intorno alle spalle e indossata solo dagli uomini che necessitano di movimenti più ampi.
La corta veste delle amazzoni e delle donne di Sparta, che lascia le gambe nude, fissata su una sola spalla e con un’alta cinta sotto il seno (exòmide)
La moda gotica, in voga in Europa attorno alla seconda metà del XIV secolo. Alla vita, una gonnella talmente corta rispetto alle fogge precedenti da costringere l’uomo ad indossare un paio di aderentissime calze-brache in panno di lana. Sopra: la sopravveste, definita anche guarnacca o surcotte, una mantellina di mezza lunghez-za senza maniche e spesso con cappuccio dalla punta verso l’alto, portato sopra una chemise (una sottoveste bianca, leggera e del tutto simile alle precedenti tuniche), o una cotta o sotano, sempre a maniche lunghe e molto aderenti. Strascichi, copricapi e cappucci (chaperon) contribuiscono ad accentuare lo slancio della figura, allungata a dismisura anche grazie all’uso di scarpe à la poulaine, giunte dall’Oriente tramite le crociate, con punte allungate, imbottite di crine per garantirne la rigidità. Una grande rivoluzione: i nuovi abiti hanno linee più strutturate rispetto a quelle morbide e informi dei precedenti, plasmati direttamente sul corpo. Nasce una nuova figura, quella del sarto (sartor), colui che sa “sarcire”, ovvero rammendare, riparare, rappezzare.
Dalla seconda metà del XIVsecolo, per chiudere le vesti e fasciarle attorno al corpo, i sarti introducono l’uso del bottone (pomello o maspillo), che fino a quel momento era stato un puro orpello decorativo al pari di fibbie, spille e lacci, ma che ora, insieme alle asole, diventa la più rivoluzionaria novità tecnica e, di lì a poco, un mezzo per esibire il lusso. Realizzati in legno, con noccioli di frutta, in metallo – ottone, oro, argento – osso, ambra e madreperla, il loro valore può superare anche il costo dell’abito stesso. Ci sono bottoni talmente preziosi e ricercati da essere citati nei testamenti e nei corredi dei gioielli, accanto ad anelli, diademi, spille e bracciali.
La moda del Quattrocento che impone alle signore di camminare col petto, la schiena inarcata e i fianchi spinti in fuori, come se fossero incinte.
L’acconciatura «a corni», per le donne, apparsa per la prima volta nel 1410 circa, fra le più bizzarre della storia della moda, ottenuta con una leggera struttura a reticella su un supporto metallico (escoffion), così da mantenere in posizione i capelli, in una foggia che richiama la forma di due corna.
La acconciatura a scutella, per gli uomini, assai in voga nel XV secolo, con i capelli rasati, disposti seguendo l’andamento della testa.
La tendenza rinascimentale a disegnare sui vestiti motivi ornamentali. È il crevé, una moda che, secondo la leggenda, è nata a Nancy già nel 1477, quando gli svizzeri sconfiggono le truppe di Carlo il Temerario. Dopo aver saccheggiato le tende di seta del duca di Borgogna le adattano con tagli al loro abbigliamento ormai logoro
La braghetta, contenitore penico simbolo di virilità, in voga nel Cinquecento, ripresa anche nella moda contemporanea nella sconvolgente collezione F/W 2010/11 di Isabel Mastache.
Sono soprattutto tre donne che contribuiscono alla trasformazione dell’eleganza e della moda in tutta Europa nei primi tre decenni del Cinquecento: Isabella d’Este Gonzaga, Lucrezia Borgia d’Este e Elisabetta Gonzaga Montefeltro. Questa moda italiana rappresenta qualcosa di totalmente nuovo rispetto a quello che si era visto a livello internazionale fino a quel momento. La rotondità delle forme diviene caratteristica di ogni elemento vestimentario, dall’abito all’acconciatura, dalla camora alla lenza e al balzo, dal taglio delle scollature del- le vesti a quello delle camicie sottostanti, con volumi che non prevaricano e non costringono mai la linea della persona ma, anzi, la espandono.
Dopo la Controriforma sono gli spagnoli a imporre il nero come colore dominante, contrapposto alle squillanti cromie che dominano la moda italiana all’inizio del secolo. Il gentiluomo indossa ora una vera e propria uniforme, rigida, quasi funerea, che altera le naturali proporzioni del corpo: il farsetto è imbottito sul davanti dal collo fin sotto alla cintura (dove termina a punta), creando una sporgenza curvilinea detta a petto d’anitra o di piccione; le maniche sono lunghe e aderentissime, adornate all’attaccatura delle spalle con alette imbottite, i picadillos; la circonferenza della vita è tenuta piuttosto bassa e ridotta al minimo da una cinturina. La figura acquisisce nuovamente volume attorno ai fianchi. I calzoni, in un primo tempo di foggia molto simile a quelli tedeschi, assumono rapida- mente la nuova forma à gigot, comunemente detta a palloncino: cortissimi sulle cosce, a volte addirittura poco sotto il cavallo, gon- fiati dalla bambagia interna – cascami di lana, stracci, crine di cavallo o cotone – irrigiditi ai lati e completati dall’immancabile braghetta penica, che scompare definitivamente dopo il 1580. Le gambe sono fasciate da una lunga calzamaglia, sempre abbinata a scarpe piatte del tutto simili a quelle tedesche, forse solo più aderenti. Indumento tipico è poi la cappa, una corta mantellina portata sulle spalle e fatta roteare per metà sul davanti.
Il guardinfante, comparso per la prima volta intorno al 1550, una sottogonna montata su cerchi concentrici di vimini: una vera e propria gabbia costruita con i germogli novelli di un arbusto particolarmente flessibile e quindi facilmente modellabile.
I talons rouges di Luigi XIV, raffinate scarpe in raso, chiuse da una preziosa fibbia, con il caratteristico tacco in legno dipinto di rosso. Furono da modello per le scarpe Pigalle Louboutin by Christian Louboutin, ideate nel 1993, con la caratteristica suola laccata color rosso.
Il giustacuore in voga a Versailles, ribattezzato justaucorps à brevet, perché solo il Re Sole poteva autorizzarne la produzione e stabilire chi a corte potesse indossarlo.
La sacerdotessa della moda punk Vivienne Westwood rese più volte omaggio allo stile barocco francese.
Gli ampi paniers degli abiti femminili francesi del Settecento, indiscussa novità del Rococò francese, una vera architettura che sostiene l’ingombro della stoffa che avvolge la silhouette. Diventano sempre più esuberanti almeno fino alla metà del Secolo, quando iniziano a ridursi (midi-paniers), divenendo via via sempre più piccoli, fino a scomparire del tutto.
La predilezione per l’euritmia della classicità, dopo i ritrovamenti archeo- logici nei siti di Ercolano (1738) e di Pompei (1748), abbatte tutte quelle linee sartoriali che hanno reso celebre l’eleganza fastosa ed esagerata del Rococò. Il nuovo diktat è semplificare, liberare il corpo dalle ingombranti strutture architettoniche del periodo precedente e metterlo in mostra, guardando ai modelli artistici dell’antichità, in cui il corpo è principalmente nudo.
I capelli, lasciati al naturale o incipriati, ormai privi di posticce e ingombranti parrucche.
Il ritorno alla natura, tanto professato da Jean-Jacques Rousseau, è reso a livello vestimentario dall’uso di ampi e avvolgenti scialli, il nuovo accessorio imprescindibile: quadrato o rettangolare, di origine orientale, serve a coprire la nuca e le spalle nude. Dal Kashmir, confezionati fin dal XV secolo con la finissima lana della capra tibetana, gli scialli arrivano in Europa e restano di gran moda per tutta l’epoca romantica del Biedermeier, amatissimi dall’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III.
Gioacchino Murat, valoroso condottiero napoleonico e, poi, re di Napoli, portava i pantaloni infilati negli stivali, caratterizzati da un taglio particolare, dal contorno arrotondato, più alto sulla parte anteriore, smussato in quella posteriore, lasciando così libero il polpaccio per la corsa a cavallo.
Il vero oggetto di lusso dell’abbigliamento femminile all’inizio dell’Ottocento: lo scialle, tessuto con il vello delle capre selvatiche del Kashmir e portato in Francia dalle truppe napoleoniche in seguito alla vittoriosa campagna d’Egitto del 1798 (a Londra se ne vedono già nel 1786, lunghi sei braccia e larghi due). È questo l’accessorio che conferisce un tocco esotico a ogni mise e per questo motivo la richiesta è altissima. Tutte, dalla ricca cortigiana alla più umile cuoca, lo vogliono. Ma non tutte sono in grado di sfoggiarlo, perché uno scialle non si indossa, si accomoda. Ed è una vera arte saperlo drappeggiare sulla persona o deporlo sullo schienale di una poltrona. L’artista Madame Gardel coglie al volo il business legato a questo capo di moda, proponendo nelle città dell’impero la danza dello scialle, una vera e propria lezione di moda aperta al pubblico. Il commercio degli scialli in cachemire è però monopolio dell’inglese Compagnia delle Indie Orientali e Napoleone, fedele al suo modus operandi, ne blocca le importazioni stimolando una produzione locale. Ma la qualità non è certamente la stessa, così il divieto innesca una proficua attività di contrabbando per ottenere pezzi originali da oltre confine.
Il frac, diretto discendente dalla marsina. Nato in Inghilterra alla fine del Settecento come abito da campagna, più comodo e informale rispetto al suo antenato francese. Diventato scuro, soprattutto nero, a partire dagli anni Venti dell’Ottocento.
Breve storia dei jeans. «È il sarto Jacob Davis a brevettare nel 1873 i pantaloni in tela denim blu rinforzati con dei rivetti in rame nei punti di maggior usura, come le tasche, dopo che Levi Strauss ha fondato, nel 1853, a San Francisco, la Levi Strauss & Co., specializzata nella produzione di abiti da lavoro, grembiuli e pantaloni particolarmente resistenti, in tessuto denim pesante e dal caratteristico colore blu, definiti genericamente waist overalls. Utilizzati inizialmente dai cercatori d’oro e dai minatori, i moderni jeans si trasformano e arricchiscono di nuovi dettagli ma restarono confinati al guardaroba dei lavoratori fino alla fine della Seconda guerra mondiale. La struttura del jeans, nel frattempo, si è già arricchita nel 1890 del taschino per l’orologio e le monetine, nel 1905 della seconda tasca posteriore, di passanti per la cintura, nel 1922, e, nel 1926, della zip in sostituzione dei classici bottoni. Dopo che nel 1935 viene lanciato il primo modello per le signore, nel 1937 il jeans viene pubblicato per la prima volta su “Vogue”, diventando un osservato speciale della moda. Per tutti gli anni Quaranta resta però ancora un capo appannaggio dei lavoratori, e ora anche delle lavoratrici, come la leggendaria Rosie the Riveter (Rosy la Rivettatrice), che immortalata con i suoi jeans da lavoro diviene un vero e proprio simbolo americano. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento, il jeans in denim unisex, indistruttibile, diviene sinonimo di una gioventù ribelle, il capo d’abbigliamento per sovvertire ogni regola nella moda contemporanea. Grazie ai nuovi divi belli e dannati del cinema americano, da Marlon Brando a James Dean, Elvis e Marilyn, la moda del denim e t-shirt bianca spopola tra i giovani americani ed europei, contrapponendosi al rigore del tailleur, dell’abito, e alle regole dell’alta moda, diventando così il primo esempio assoluto di abbigliamento unisex globalizzato».
La crinolina, che nel 1860 aveva raggiunto la sua massima espansione raggiungendo i dieci metri all’orlo inferiore, comincia a ridursi per gradi, scomparendo del tutto già nel 1867.
Il termine francese cocotte: gallina e donna leggera.
Lo stilista Paul Poiret (1879-1944), il liberatore della donna dalle costrizioni del corpetto, fonda nel 1903 la sua maison al n. 5 di rue Auber a Parigi e inizia la sua battaglia nella moda eliminando il petticoat (la sottoveste).
Nel 1908 Poiret commissionò all’editore Paul Iribe un al- bum delle sue creazioni, illustrate in dieci tavo- le a colori, destinato ai suoi clienti: Les Robes de Paul Poiret racontées par Paul Iribe.
Il 23 aprile 1908 la sarta-artista Rosa Genoni si presenta l Primo Congresso nazionale delle donne italiane avvolta nella sua creazione Tanagra, ispirata alla città della Beozia, dove furono rinvenute all’inizio del Novecento alcune statuette di terracotta databili al IV secolo a.C., abbigliate con vesti fittamente drappeggiate. Tanagra muove dunque da un uso dinamico del panneggio e diventa l’abito manifesto della donna che fonde intelletto e femminilità. Un abito politico, un abito nel quale muoversi con libertà dopo la lunga stagione dell’uso del corsetto e, prima ancora, della crinolina.
«La veste di Fortuny che Albertine indossava quella sera mi sembrava come l’ombra tentatrice di quella Venezia invisibile» (Marcel Proust, La Prigioniera, Mondadori, Milano 1989, p. 65).
Nel 1911 Paul Poiret presentò alle sue clienti e al mondo intero la jupe culotte, dei pantaloni da donna da indossare in casa, sotto una più ampia tunica al polpaccio, che suscitarono lo sconvolgimento generale, con l’intervento anche di papa Pio X.
La divina Eleonora Duse, fedele cliente di Mariano Fortuny.
«L’umanità si vestì sempre di quiete, di paura, di cautela e d’indecisione, portò sempre il lutto, o il piviale, o il mantello. Il corpo dell’uomo fu sempre diminuito da sfumature e da tinte neutre, avvilito dal nero, soffocato da cinture, imprigionato da panneggiamenti. Fi- no ad oggi gli uomini usarono abiti di colori e forme statiche, cioè drappeggiati, solenni, gravi, incomodi e sacerdotali (…)» (Giacomo Balla, Il vestito antineutrale. Manifesto futurista, 1914. Terza edizione).
La tuta ideata dal futurista Giacomo Balla (1871-1958) per rivoluzionare l’abbigliamento degli uomini. «Gli abiti futuristi devono essere:
• Aggressivi, tali da moltiplicare il coraggio dei forti e da sconvolgere la sensibilità dei vili.
• Agilizzanti, cioè tali da aumentare la flessuosità del corpo e da favorirne lo slancio nella lotta, nel passo di corsa o di carica.
• Dinamici, pei disegni e i colori dinamici del- le stoffe, (…) che ispirino l’amore del pericolo, della velocità e dell’assalto, l’odio della pace e dell’immobilità.
• Semplici e comodi, cioè facili a mettersi e a togliersi, che ben si prestino per puntare il fucile, guadare i fiumi e lanciarsi a nuoto.
• Igienici, cioè tagliati in modo che ogni punto della pelle possa respirare nelle lunghe marcie e nelle salite faticose.
• Gioiosi. Stoffe di colori e iridescenze entusiasmanti. Impiegare i colori muscolari, violettissimi, rossissimi, turchinissimi, verdissimi, gialloni, aranciooooni, vermiglioni.
• Illuminanti. Stoffe fosforescenti, che possono accendere la temerità in un’assemblea di paurosi, spandere luce intorno quando piove, e correggere il grigiore del crepuscolo nelle vie e nei nervi.
• Volitivi. Disegni e colori violenti, imperiosi e impetuosi come comandi sul campo di battaglia.
• Asimmetrici. Per esempio, l’estremità delle maniche e il davanti della giacca saranno a destra rotondi, a sinistra quadrati. Geniali contro-attacchi di linee.
• Di breve durata, per rinnovare incessante- mente il godimento e l’animazione irruente del corpo.
• Variabili, per mezzo dei modificanti (applica- zioni di stoffa, di ampiezza, spessori e disegni diversi) da disporre (…) su qualsiasi punto del vestito, mediante bottoni pneumatici. Ognuno può così inventare ad ogni momento un nuovo vestito (…)».
I jeans femminili arrivarono solo negli anni Trenta del XX secolo.
La tuta, primo ritorno all’abito unisex dopo la differenziazione maschio-femmina imposta dalla moda gotica.
La tuta, un abito dalla linea a T comodo, pensato per gli operai. Il suo inventore Thayaht (Ernesto Michahelles, 1893-1959), profetizzò: «Tuta la gente sarà in tuta».
L’ideazione della tuta, secondo lo stesso Thayaht, avviene come una scintilla mentre passeggia a Firenze: «Un giorno passando in via Orsanmichele, vidi in una vetrina tessuti di cotone e di canapa a colori vivaci e a poco prezzo. Presi alcuni campioni e mi misi al lavoro» (La Nazione, 1958).
Nel 1922 nasce anche la versione haute couture della tuta.
È merito di Madeleine Vionnet (1876-1975) aver rivoluzionato il concetto di portabilità dell’abito. Il 15 giugno 1919 è infatti la grande stilista francese, nota per non disegnare i suoi capi, che crea direttamente su un manichino in miniatura di 80 centimetri di altezza, a brevettare l’invenzione dell’abito “in sbieco”, ovvero in diagonale di 45 gradi rispetto al verso di trama e ordito, in cui cuciture, asole, bottoni e ganci sono ridotti al minino. Il tessuto è tagliato secondo figure geometriche piane che liberano il corpo da ogni costrizione sartoriale, consentendo al tessuto di avere una caduta del tutto nuova. Prima dell’invenzione di questa personalissima tecnica è il corpo che deve adattarsi all’abito e non il contrario. Ora il tessuto si modella sulla silhouette del corpo stesso, che può essere avvolto e fasciato grazie a una nuova linea femminile, quella a sirena, che tanto sarà amata dalle dive hollywoodiane degli anni Trenta e Quaranta.
Gli Oxford bags sono larghissimi pantaloni dall’orlo che arriva a misurare tra i 56 e 110 cm.
I capelli a caschetto per le donne, adottata fin dal maggio 1917 anche dalla stessa Coco Chanel, di gran moda poi negli anni Venti.
La moda à la garçonne, alla maschietta. Con il romanzo del 1922 La garçonne, di Victor Margueritte, il termine diviene espressione di uno stile preciso, legato a un nuovo ruolo della donna nella società; così la divisa femminile ideata da Chanel assurge a simbolo di questa emancipazione: giacca dritta e morbida dalla foggia maschile, gonna e blusa coordinate cui si aggiungono gilet e cappotti sportivi ispirati alla moda inglese
Dal 1928 si afferma nella moda maschile lo spezzato: una tendenza in cui giacca e pantaloni hanno un colore complementare, ma diverso, che viene lanciata dal cancelliere tedesco Gustav Stresemann, solito indossare una giacca nera a un petto, con gilet grigio, pantaloni gessati e cravatta chiara.
Il vertice dello spezzato sono gli abiti pensato da Giorgio Armani per Richard Gere nel film American Gigolò.
America Gigolò (Paul Schrader, 1980), un incredibile trampolino di lancio per Armani, che riesce così a raggiungere il grande pubblico e, soprattutto, a entrare nei suoi armadi.
Con Marlene Dietrich, immortalata con una mise maschile che Travis Banton (1894-1958) le ha cucito addosso nel film Marocco di Josef von Sternberg (1930), ha inizio per le signore la moda seducente e carica di erotismo di indossare capi maschili.
Frida Kahlo, come Marlene, ama indossare nella vita quotidiana completi maschili, abbinati a capelli corti, anticipando così il tema del travestitismo e dello stile androgino tanto caro alla moda contemporanea.
Lo smoking femminile di Yves Saint Laurent (1966) e il tailleur pantalone di Giorgio Armani (1992).
Marlene Dietrich, che amava a tal punto il look androgino da sfoggiarlo anche fuori dalla scena.
Giorgio Armani, che elogia della Dietrich «una propensione all’androginia che non scade mai nel travestitismo».
Il Taxi Dress di Charles James, presentato nel 1932. Disegnato nel 1929, James lo considera una delle sue creazioni più importanti, sia per il successo commerciale che ottiene, sia per il suo valore tecnico e artistico: l’abito non presenta cuciture e la gonna è concepita come una spirale (foggia a portafoglio); è così facile da indossare che si può metterlo e toglierlo anche sul sedile posteriore di un taxi. Si tratta del primo vestito a essere venduto in confezioni di cellophane sigillate nel reparto accessori di un grande magazzino. Fu realizzato in due diverse taglie e venduto tra il 1933 e 1934 da Best & Co., al costo di ventidue dollari.
Il Lobster Dress di Elsa Schiaparelli, indossato da Wallis Simpson nel 1937, l’abito che trae spunto dall’opera surrealista Lobster Telephone di Salvador Dalì (1936). Grande scandalo e feroci contestazioni per l’interpretazione scandalosa che viene data al binomio Simpson-aragosta: la donna libertina che indossa con disinvoltura quello che viene interpretato come un simbolo peccaminoso.
Nonostante le restrizioni imposte dalla guerra, le riviste di moda più tenaci nei primi anni Quaranta propongono ancora un modello di eleganza composto da pellicce, abiti da ballo e da teatro. Per le strade delle città compare però una nuova moda femminile, un nuovo abito che si impone rapidamente per ragioni, principalmente, sociali ed economiche: il rigoroso tailleur, del tutto simile alle uniformi militari. Nuove esigenze di praticità e semplicità, unitamente alla scarsità delle materie prime impongono infatti nuove forme dell’abito, che si riduce in ampiezza e conferisce maggiore rigidità al corpo femminile. La donna adotta quindi una divisa composta da una giacca con le spalline imbottite, ricca di tasche per trasportare documenti e denaro, camicetta, gonna aderente con cintura che sottolinea il punto vita o pantaloni, che diventano un capo definitivamente quotidiano. Con queste nuove linee ed esigenze di praticità cambia anche il tessuto, che deve esse- re economico e resistente, preferibilmente dai colori a tinta unita, dal verde al marrone, facilmente lavabile.
Per la temutissima Diana Vreeland (1903-1989), fashion editor dal 1937 al 1962 di Harper’s Bazaar e direttrice di Vogue America dal 1963 al 1971, il bikini è «l’invenzione più importante dopo la bomba atomica».
Nascita del bikini: il 3 giugno 1946, quando debutta in passerella come naturale evoluzione dei costumi da bagno in due pezzi, nati nel 1943 in seguito al programma di razionamenti imposti dal governo degli Stati Uniti che prevede una riduzione del 10% della stoffa con cui vengono confezionati i classici costumi da bagno interi.
Il costume da bagno in due pezzi, già in uso nell’età antica, così come rivelano i celebri mosaici siciliani della villa romana del Casale (Piazza Armerina, in Sicilia).
Nel 1946 il designer Louis Réard (1897-1984) presenta a Parigi il bikini e trasforma completamente l’estetica delle donne, che ora possono scoprire la pancia in spiaggia. Réard comprende la portata rivoluzionaria e scandalosa del costume e, dopo il rifiuto delle sue modelle a indossarlo pubblicamente, è costretto a chiamare in passerella una spogliarellista del Casino de Paris, Micheline Bernardini. Nasce così “Le bikini, la première bombe anatomique”. Il nome riecheggia la forza esplosiva delle sperimentazioni nucleari effettuate sull’atollo di Bikini, nell’oceano Pacifico.
Il 5, numero fortunato di Coco Chanel.
Nel 1958 la richiesta di abiti ispirati a quelli visti sul grande schermo è tale che, in questi anni, nascono dei veri e propri reparti cinema all’in- terno dei grandi magazzini per vendere a prezzi accessibili le copie degli abiti indossati dalle nuove dive, con risultati commerciali a dir poco esaltanti. Nel 1958, ad esempio, la copia del leggendario abito bianco dal corpetto riccamente drappeggiato incrociato sul davanti disegna- to da Helen Rose per Elizabeth Taylor nel film La gatta sul tetto che scotta registra il record di vendite nei grandi magazzini americani.
L’influenza dell’abito nuziale di Grace Kelly sui modelli contemporanei, uno su tutti l’abito da sposa di Kate Middleton per le nozze con il principe William d’Inghilterra.
L’abito da sposa di Grace Kelly: un insieme raffinatissimo di pizzo di Bruxelles del XIX secolo, faille e tulle di seta, concepito in quattro parti: il corpetto di pizzo (con un sotto corpetto), la gonna in faille di seta riccamente pieghettata e sostenuta da tre sottogonne, una fascia da smoking in faille di seta plissettata e un inserto triangolare in tulle e pizzo nello strascico, impreziosito anche da eleganti fiocchi. Il tema dominante è ovviamente quello floreale, amplificato da una ghirlanda a forma di corona che sormonta il copricapo.
Dopo le nozze, Grace Kelly donò il suo vestito da sposa al museo della sua città natale, il Philadelphia Museum of Art.
Le Sorelle Fontana (Zoe, 1911-1979, Micol, 1913-2015 e Giovanna, 1915-2004) presentano a Firenze, nella primavera 1956, la nuova collezione F/W 1956/57 composta da abiti dalla linea cardinali-zia. Su tutti spicca l’abito talare Pretino, in origine denominato Preghiera del mattino. Concepito inizialmente da un giovanissimo Renato Balestra in color paonazzo, viene poi realizzato in nero con profilatura rossa, piccoli bottoni, un cappello da monsignore con nappe e un rosario di perle e metallo, ispirato agli abiti talari dei seminaristi del collegio gregoriano romano. La stampa grida allo scandalo, accusando le Sorelle Fontana di blasfemia per il richiamo esplicito e improprio di una foggia e di simboli religiosi. In realtà, l’uso del rosario viene addirittura autorizzato dal Vaticano e nel 1957 le stesse Sorelle Fontana vengono ricevute in udienza da papa Pio XII.
Tra la primavera e l’estate del 1959, quando Federico Fellini sta girando la La dolce vita, il costumista del film Piero Gherardi decide di realizzare un costume di scena ispirato all’ormai celebre Pretino per farlo indossare ad Anita Ekberg nella scena della visita in San Pietro.
Balenciaga è considerato da Chanel l’unico couturier veramente completo, l’unico capace di disegnare un abito, tagliare il tessuto e cucirlo alla perfezione.
Yves Saint Laurent, che nel 1958, per lavorare alla sua prima sfilata, si era ritirato a casa dei genitori a Oran. Rientrato a Parigi, dopo tre settimane, presentò mille disegni, dai quali ne selezionò centosettantotto. Il giorno seguente la trionfale sfilata al Grand Salon, per i giornali francesi Saint Laurent è una sorta di salvatore della patria, la nuova figura di riferimento per l’eleganza haute couture, in grado di riportare Parigi al centro del mondo. Un debutto che segna il punto di partenza della carriera di uno dei più rivoluzionari fashion designer della storia della moda.
Fino alla primavera del 1954 Maria Callas non è un modello di eleganza. Con i suoi quasi 100 chili per 1 metro e 73 di altezza, il suo aspetto fisico è spesso bersaglio di critiche feroci e sgradevoli: «Impossibile notare la differenza tra le zampe degli elefanti e quelle di Aida», si legge per esempio nella recensione di una sua performance nell’Aida nell’estate del 1953 all’Arena di Verona. Inaccettabile per chiunque, ancor di più per una donna con una forza di volontà d’acciaio come Maria Callas che, tra quell’estate e la primavera del 1954, decide di dimagrire e perde 35 chili, trasformandosi dalla grassa cantante in una donna dalle sembianze divine. Nulla sarebbe però stato possibile senza l’intervento della sarta milanese Biki (Elvira Leonardi Bouyeure, 1906-1999), detta La Biki, che fa di Maria una vera regina del fashion, riconosciuta dalle riviste di moda come la donna più elegante del mondo quando, in occasione di una cerimonia tenuta a Milano il 26 dicembre 1957, viene insignita del Golden Dress Brooch.
L’amore assoluto di Maria Callas per il verde, il nero e il blu scuro.
La parrucca indossata da Maria Callas al Lido di Parigi nel 1959 per il decimo anniversario di matrimonio con Giovanni Battista Meneghin.
Maria Callas, che nel 1959 arrivò ad avere oltre trenta pellicce, con un unicum: la pelliccia in cincillà dal valore di oltre 10 milioni di lire.
La first lady Jacqueline Kennedy, in occasione di un incontro con la principessa russa Irene Galitzine, si innamora del pigiama palazzo e decide di indossarlo, trasformandolo in un capo imprescindibile anche per le donne americane.
Le collaborazioni tra stilisti e cinema. Nel 1950 Dior disegna i costumi per Marlene Dietrich, protagonista di Paura in palcoscenico, nel 1956 Balenciaga scolpisce gli abiti indossati da Ingrid Bergman in Anastasia, mentre sul set di Sabrina, nel 1954, avviene l’incontro tra Hubert de Givenchy (1927-2018) e Audrey Hepburn.
Il vestito indossato da Marilyn in occasione della festa per il quarantacinquesimo compleanno di John F. Kennedy, la sera del 19 maggio 1962 a New York – cucito a pelle, tanto era aderente. L’abito – un velo di tulle color carne, ricoperto da piccoli cristalli per tutta la sua lunghezza – è certamente tra i più iconici del XX secolo, un mix perfetto che fonde come nessun altro Pop art, politica e amore. Una creazione assoluta e fragilissima, che non ammette abbinamenti con alcun genere di biancheria intima, letteralmente cucita e scucita addosso a Marilyn, voluta dalla stessa Monroe perché la sua entrata sul palcoscenico del Madison Square Garden fosse incredibile, al punto da risvegliare la gente. «L’idea che sta alla base di questo abito è che Marilyn fosse sostanzialmente nuda, ricoperta solo di diamanti. Era quello che aveva chiesto», ha dichiarato Bob Mackie. E così avviene!
L’abito di Marilyn, costato 12 mila dollari, viene battuto all’asta nel 1999 per la cifra di 1,26 milioni di dollari e, dopo essere stato esposto al Pierre Hotel di Manhattan, viene rimesso all’asta e venduto nel 2016 per la cifra record di 4,8 milioni di dollari.
Il monokini viene ideato come un costume da bagno topless dal designer austriaco, naturalizzato californiano, Rudi Gernreich (1922-1985). Dal più antico bikini eredita solo la parte inferiore, che si alza fino sotto il seno, lasciando invece nuda quella superiore.
Il monokini: solo nell’estate del 1964, solo a New York, ne vengono venduti oltre tremila pezzi, al costo di 24 dollari l’uno.
L’abito Mondrian, riproduce gli intrecci di linee e le campiture cromatiche rese celebri dal pittore olandese Piet Mondrian, padre del Neoplasticismo. Le stampe geometriche all’interno di campiture colorate sono create con riquadri di tessuto fissati nelle griglie nere delle cuciture e vanno a definire la linea dell’abito in lana e jersey, senza colletto e senza maniche, per garantire una silhouette essenziale
Yves Saint Laurent lanciò uno smoking femminile ispirato alla scena di Marlene Dietrich in Marocco. «Sono rimasto profondamente colpito da una fotografia di Marlene Dietrich che indossa abiti da uomo», affermò lo stilista, «perché una donna vestita da uomo deve essere all’apice della femminilità per indossare un costume che non è suo». La donna che indossa lo smoking Saint Laurent è l’emblema stesso del potere che si è conquistato, come Pierre Bergé ha detto celebrando il ricordo di Yves: «Se Chanel ha dato, come si dice, la libertà alle donne, tu hai dato loro il potere. Avevi capito perfettamente che il potere era in mano agli uomini e trasferendo gli abiti maschili sulle spalle delle donne, tu davi loro, alle donne, il potere. È quello che hai fatto: lo smoking, la sahariana, il tailleur-pantalone, il giaccone da marinaio, l’impermeabile con la cintura ne sono la dimostrazione. Senza la minima traccia di androginia» (Pierre Bergé, Lettere a Yves Saint Laurent, Archinto Editore, Milano 2012).
Il look esibito dal rapper britannico Stormzy che, durante una performance a Glastonbury nel 2019, ha indossato un gilet-arma- tura dipinto dall’artista Banksy, che ha trasformato i colori accesi della bandiera britannica in un’immagine gocciolante e monocromatica, espressione di una feroce critica sociale.
È Jacqueline Kennedy a consacrare definitivamente la Collezione Bianca di Valentino, quando sceglie per il suo matrimonio con Aristotele Onassis, celebrato il 20 ottobre 1968 sull’isola di Skorpios, un abito che ne fa parte: una blusa dal collo alto con un gioco di pizzi dai motivi floreali, con una gonna fittamente pieghettata in crêpe georgette écru.
Krizia, ideatrice degli hot pants, del reggiseno scultura, etc. e perciò soprannominata Crazy Krizia.
Vivienne Westwood (1941-2022), l’incontrastata sacerdotessa di una moda di strada, fatta di maglioni in mohair, T-shirt con grafiche provocanti, accessori e tutto un mondo che inneggiava alla cultura e filosofia punk. Al numero 430 di King’s Road a Londra, Vivienne Westwood e il compagno Malcolm McLaren, manager dei Sex Pistols, aprono nel 1971 il negozio Let It Rock, trasformato poi in Sex, Seditionaries e, negli anni Ottanta, in World’s End, il vero centro di produzione dell’estetica del movimento punk, che la Westwood traduce in chiave fashion. Dopo la prima collezione del 1970, Let It Rock, decisamente orientata alle tendenze dei teddy boys e delle rock band, dal 1976 al 1980 la Westwood si presenta con Seditionaries – Clothes for Heroes, virando decisamente verso proposte più estreme e punk. Accanto al completo Jubilee, pezzo forte di questa produzione è la T-shirt in cotone bianco con il volto trasfigurato della regina Elisabetta II (ispirato al ritratto ufficiale della sovrana, fotografata da Cecil Beaton), una vera e propria trasposizione in chiave vestimentaria del brano God Save The Queen dei Sex Pistols, che raggiunge la prima posizione nella classifica NME (New Musical Express). La spilla infilata nel labbro della Regina è un messaggio forte e chiaro: «Anche voi potete diventare punk».
Umberto Eco, che arriva a scrivere: «Chi sceglie Krizia, ha scelto un modo di pensare, di presentarsi agli altri, di essere».
Lo stilista Jean Paul Gaultier, inventore dei coni a punta applicati sul petto, indossati anche da Madonna, ha confessato di averli sperimentati fin dalla sua infanzia sul suo orsacchiotto Nana.
La moda contemporanea trae la sua ispirazione dalla tuta da ginnastica, trasformandosi in antimoda: felpe con cappuccio, sneakers, etc.
«Amo visitare i musei, preferisco andare lì che alle feste» (Gianni Versace).
Alexander McQueen, che già nella sua prima collezione, intitolata Taxi Driver, presentata nel 1993 al Ritz di Londra, stravolge le regole della portabilità di un capo base del guardaroba maschile e femminile: i pantaloni. Abbassando drasticamente il punto vita nasce la tendenza bumster, di cui McQueen è certamente l’inventore e il più grande sostenitore. Al “Guardian”, subito dopo la presentazione della collezione, dichiara che «quella parte del corpo – non tanto i glutei ma la parte inferiore della colonna vertebrale – è la parte più erotica del corpo di chiunque, uomo o donna». Più che mostrare i glutei, l’obbiettivo iniziale di McQueen è dunque quello di celebrare e allungare il corpo, stravolgendo le proporzioni naturali, con una soluzione sartoriale che trasforma dei normali pantaloni in un oggetto di provocazione.
È il 29 giugno del 1994 quando sulla BBC viene trasmesso il documentario Charles: The Private Man, the Public Role, nel qua- le il principe di Galles ammette il tradimento della moglie con la storica amante Camilla Parker-Bowles. La principessa Diana, in quel- lo stesso giorno, si presenta al party organizzato da “Vanity Fair” alla Serpentine Gallery di Londra con un abito che viene immediatamente ribattezzato dalla stampa The Revenge Dress. Disegnato qualche anno prima dalla stilista greca Christina Stambolian, ma ancora inedito nel 1994, il mini abito in seta nera e con scollatura a cuore non era mai sta- to indossato pubblicamente dalla principessa che, nella linea super slim e sexy di questa creazione, individua la sua personale replica alle parole del marito. Una vendetta senza parole, lanciata con il linguaggio della moda.
Il Meat Dress viene indossato dalla pop star Lady Gaga il 12 settembre 2010 in occasione degli MTV Video Music Awards. Concepito da Formichetti (1977) con una linea asimmetrica e rivestito principalmente con tagli di carne bovina, cuciti per garantirne la tenuta, è un abito concettuale, creato come performance artistica direttamente sul corpo della cantante, quindi non durevole. Contestato dalle associazioni ambientaliste, l’abito è stato contestualmente premiato dalla rivista “Time” come il miglior prodotto di moda del 2010 e, già nel 2012, riprodotto in una forma sintetica e nuovamente indossato da Lady Gaga nel suo tour Born This Way Ball. Tra esposizioni in mostre temporanee e repliche in forme diverse, il Meat Dress è diventato un’icona della moda, considerato in numerosi sondaggi tra gli abiti più influenti e sconvolgenti delle tendenze contemporanee. Sul significato di questa creazione-installazione si sono espressi in molti, avanzando ipotesi controverse, dall’anti-moda al decadimento morale della società, ma è la stessa Lady Gaga a chiarire sul Daily Telegraph (14 settembre 2010) che l’abito «ha molte interpretazioni. Per me questa sera è: se non difendiamo ciò in cui crediamo e se non iniziamo a lottare per i nostri diritti, presto avremo gli stessi diritti che ha la carne attaccata alle nostre ossa. E io non sono un pezzo di carne».
Lo Skeleton Dress della stilista Iris van Herpen, realizzato in nylon stampato in 3D.
La capsule collection Ha[u]te Couture lanciata da Diesel nel 2018: una collezione non statica, ma che si trasforma in una performance artistica, con i clienti che possono personalizzare i capi con i commenti più feroci di odio che hanno ricevuto sui social, questa volta esibiti senza vergogna e, in via del tutto eccezionale, trasformati in vestiti. I testimonial di questa dirompente campagna sono artisti e influencer internazionali, da Nicki Minaj a Gucci Mane, da Bella Thorne a Barbie Ferreira e Fedez. Il messaggio della campagna Diesel è molto chiaro: the more hate you wear, the less you ca-re. Le celebrities si vestono così dei peggiori commenti ricevuti negli anni, sfoggiando capi esclusivi con scritte personalizzate come «The Bad Guy» per Minaj, «Fuck you, Imposter» per Mane, «Slut» per Thorne, «Faggot» per Dorfman o «Infame» per Fedez.
La Tuxedo Gown dello stilista Christian Siriano, emblema del gender fluid, fonde la giacca di velluto con risvolti di seta e polsini arricciati dello smoking maschile con una gonna femminile da ballo.
L’affermazione del gender fluid e l’interscambiabilità tra femminile e maschile ha trovato nella moda la forma più persuasiva di racconto. Dopo l’androginia di Marlene in smoking, lo smoking femminile di YSL e l’interscambiabilità uomo-donna della giacca di Armani, la moda più contemporanea propone uno stile in grado di abbattere altre barriere, inseguendo una libertà espressiva totale.
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