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 2025  giugno 29 Domenica calendario

Ragazzi, andate a lezione di punk

«Signor Mitchell, come possiamo diventare punk?». È ciò che mi ha chiesto uno studente dell’Emerson College di Boston dopo una recente proiezione del mio film del 2006, Shortbus. Dove tutto è permesso, che racconta la vita bohémienne di un salotto artistico ed erotico newyorchese, fiorito prima che la maggior parte degli spettatori presenti in sala nascesse. Quando il film è stato riproposto, ho percepito che i membri di questa generazione più giovane e più critica lo adoravano, pur pensando «c’è qualcosa da cancellare!» (nel senso della cancel culture, ndt). L’anno scorso una giovane donna mi ha chiesto se la storia della protagonista di Shortbus, una donna asiatica alla ricerca dell’orgasmo, fosse «la mia storia da raccontare». Ho risposto, cercando di non sembrare sulla difensiva: «Grazie all’alchimia tra sceneggiatore e interprete, è diventata la nostra storia da raccontare». Lei ha sorriso, ma solo con le labbra.
Gli studenti di quest’anno erano diversi: più impauriti, più aperti, potenzialmente più radicali. Sanno che hanno bisogno di nuove competenze per affrontare la possibilità molto reale di un’America post- democratica. In altre parole, hanno bisogno di trovare il loro senso del punk. E io ero lì per aiutarli. Ho organizzato da solo un tour di conferenze in quattordici college per questo semestre primaverile, armato dei miei film Shortbus e Hedwig. La diva con qualcosa in più e della mia nuova sitcom podcast, Cancellation Island, in cui Holly Hunter interpreta la fondatrice di una clinica di riabilitazione per persone “cancellate”. La serie è una satira su una forma di giustizia sommaria che crolla rapidamente di fronte alla minaccia esistenziale dell’uragano Taylor, ribattezzato uragano Beyoncé. Il tour è iniziato dopo il secondo insediamento del presidente Trump e i professori che mi avevano invitato erano in preda al panico. Stavano rischiando il posto di lavoro per discutere degli arresti degli studenti che manifestano e delle minacce di tagli ai finanziamenti, ma trovavano anche difficile parlare della disunione causata da una cultura ben intenzionata che ha reso unfeticcio una purezza progressista che non esiste in natura e ha cercato di dividerci in identità sempre più specifiche, accuratamente classificate in base all’oppressione storica. Come mi ha sussurrato un professore: «Abbiamo fatto il gioco di Trump: ci siamo divisi per permettergli di conquistarci». La speranza è naturale nei giovani, ma questi studenti si sentivano vecchi. Gli schermi e i lockdown hanno dato loro una concentrazione da colibrì, una memoria frammentaria, un’ossessione per l’autodiagnosi e una predilezione per le pantofole. Non parliamo nemmeno di appuntamenti o – orrore – sesso, quando il semplice atto di guardare qualcuno negli occhi provoca ansia. Ma cosa potevano fare? Rinunciare ai loro telefoni e alla cultura basata sui like controllata dalle aziende, che è tutto ciò che hanno sempre conosciuto? È stato allora che mi sono ricordato di ciò che ho imparato. Sono arrivato a credere che l’azione collettiva fai- da- te, in particolare quella punk, potrebbe essere l’unica via d’uscita dall’oscurità.
Ho raccontato delle storie agli studenti. Il mio eroe era mio padre, generale di divisione bisessuale non dichiarato che, negli anni ’90, difendeva i gay nell’esercito ricordando alla gente che erano sempre esistiti. Sì, l’atmosfera militare può essere deprimente e machista, ma porta anche all’istinto di protezione dei propri compagni, indipendentemente dal loro sesso, orientamento sessuale o etnia. Ho parlato del tema della mia nuova opera teatrale, Claude Cahun, una surrealista ebrea francese che, insieme al suo compagno Marcel Moore, durante l’occupazione nazista irruppe in una chiesa di notte e appese uno striscione con la scritta: «Gesù è grande. Ma Hitler è più grande. Perché Gesù è morto per le persone, ma le persone muoiono per Hitler». Voilà, punk! Ho raccontato loro come ho scoperto il punk negli anni ’90 in un ambiente drag. Ho consigliato il documentario del 2012 How to Survive a Plague, che racconta una forma queer di attivismo contro l’aids che ha saputo negoziare con le grandi aziende farmaceutiche («potete odiarci, ma se ci salvate potrete guadagnare miliardi») e allo stesso tempo è scesa in strada per denunciare la loro avidità con opere d’arte accattivanti. Una volta alcuni manifestanti hanno infilato un preservativo gigante sulla casa del senatore Jesse Helms, un mostruoso omofobo, e hanno versato le ceneri dei compagni caduti sul prato della Casa Bianca. Quello sì che era punk.
«Il vostro compito è smettere di cancellarvi a vicenda, scoprire il punk e nel mentre fare sesso», ho detto loro. «Il punk non è un’acconciatura, è riunire i propri amici per creare qualcosa al di fuori dei sistemi approvati. Ed è ancora così oggi, in tutto il mondo». I Maga hanno adottato uno stile autoritario di punk che disdegna quella che Elon Musk definisce la nostra «più grande debolezza umana», l’empatia. Ma il punk originale è costruttivo e solidale. Soprattutto è una questione di comunità, assistenza legale pro bono, banchi alimentari, orti di quartiere o, a New Orleans, dove vivo principalmente, le parate a cui tutti sono invitati a partecipare. La città mantiene forti tradizioni di narrazioni condivise, ospitalità e impegno di quartiere. Quando arriva un uragano, è meglio conoscere i propri vicini! Beh, l’uragano Trump ha colpito e il presidente ci ha convinto che tutti i fatti sono sospetti tranne quelli che gli piacciono.
Quindi, come potete accedere al punk? Entrate in una stanza con altre persone. Abbracciate l’analogico, che non può essere sorvegliato dall’intelligenza artificiale. Cercate alleati inaspettati, anche problematici (io preferisco “problemagici”), con definizioni di giustizia diverse ma compatibili. Per fortuna, la gentilezza ha lo stesso aspetto per la maggior parte di noi. E mentre iniziate a creare qualcosa di utile, potreste incrociare lo sguardo della persona che lavora al vostro fianco e forse questa volta non distoglierete lo sguardo. I muri dell’identità crollano di fronte alla nostra più grande forza umana: l’empatia. Quando le luci si sono accese dopo il climax di Shortbus, che evocava la bellezza del grande blackout del 2003 nel nord-est (pensavamo che saremmo morti tutti, ma non è successo), ho intravisto più di un volto bagnato dalle lacrime. «Perché piangi?», ho chiesto. La risposta è stata: «Perché abbiamo appena visto la gioventù che non abbiamo mai avuto».
Tifo per questi ragazzi meravigliosi affinché trovino il loro punk che, nel peggiore dei casi, potrebbe farli sentire meno soli e, nel migliore dei casi, creare un vero cambiamento. Dopo la proiezione, una studentessa dell’Emerson mi si è avvicinata. Quello che mi ha detto mi ha dato la speranza che cercavo di trasmetterle: «Signor Mitchell, la prossima volta che mi vedrà, sarà orgoglioso di me».