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 2025  giugno 29 Domenica calendario

«Non voglio più vedere papà» Bambini con il cuore straziato

Bambini accolti e rifiutati, maltrattati e abusati. I dati diffusi nei giorni scorsi dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza sui minori maltrattati sono la fotografia di relazioni patologiche e di una società in cui troppi riferimenti familiari appaiono sempre più faticosi, labili, sfrangiati. È certo però tra i 374mila bambini e ragazzi in carico ai servizi sociali – di cui quelli che subiscono maltrattamenti di diverso tipo sono 113mila con una crescita del 58% rispetto all’ultima indagine del 2018 – una larga percentuale è rappresentata dai piccoli coinvolti nella separazione conflittuale dei genitori. Di fronte alla famiglia che si disgrega le dinamiche che si innescano sono tante e tutte fonte di disagio e sofferenza. Come il rifiuto da parte dei bambini di incontrare uno dei due genitori che, pur avendo lasciato l’abitazione familiare, vorrebbe continuare ad esercitare il suo diritto- dovere di educare. Di fronte a un fenomeno che sta assumendo proporzioni sempre più drammatiche, gli avvocati impegnati nella tutela della famiglia e dei minori hanno sentito l’urgenza di interrogarsi e di confrontare le diverse posizioni, coinvolgendo nel dibattito magistrati minorili, psicologici, psicoterapeuti. Perché, come è facile immaginare, il tema del rifiuto intreccia questioni relazionali, giuridiche, psicologiche e pone chi, come appunto il giudice, si trova nell’urgenza di risolvere questioni mai agevoli da scandagliare ed è chiamato a prendere decisioni destinate a pesare per anni sulle sorti di quella famiglia: da dove nasce la decisione di un bambino che, dopo la separazione, dice di non voler più incontrare il papà o, in tanti altri casi, la mamma?
La giornata di studi organizzata qualche giorno fa da Aiaf Lombardia (Associazione italiana avvocati per la famiglia e per i minori) dal titolo “Figlio mio” ha offerto tante possibili risposte, alcune anche in contro-tendenza rispetto alle convinzioni più diffuse. «Dobbiamo uscire dalle contrapposizioni ideologiche secondo cui il rifiuto nasconde sempre forme di violenza o di maltrattamento oppure – osserva Alessandro Simeone, presidente di Aiaf Lombardia, oltre che curatore speciale del minore e docente di diritto di famiglia all’Università di Pavia – è frutto di una manipolazione da parte del genitore non rifiutato».
Come va superata la convinzione che ad essere rifiutati siano sempre e soltanto i padri separati. Capita, pur in proporzioni inferiori, anche alle madri. Una sottolineatura che nasce soprattutto dall’esperienza degli addetti ai lavori perché non esistono dati ufficiali. Durante il dibattito è stato ribadito che questi fenomeni si possono osservare più frequentemente nell’ambito delle separazioni giudiziali, che rappresentano circa il 15% rispetto al totale. Ma anche tra quelle consensuali (85%) non è inconsueto trovarsi di fronte a un bambino che mostra manifestazioni di rifiuto. Gli esperti – sono interventi tra gli altri le psicologhe Alessandra Bignami, Sonia Cavenaghi, Vera Acquistapace; i giudici Camilla Filauro e Valentina Maderna; lo psichiatra Giovanni Battista Camerini – hanno concordato sul fatto che spesso il rifiuto non nasconde una patologia, ma solo un comportamento poco funzionale, anche con manifestazioni di malessere fisico. «Esistono certamente situazioni in cui il rifiuto – riprende l’avvocato Simeone – ha alla base gesti di violenza, oppure tentativi di manipolazione, ma in mezzo ci sono situazioni diverse, che vanno esaminate con cura». Si può pensare per esempio che il genitore rifiutato, nelle situazioni sempre complesse e dolorose legate alle varie fasi della separazione, abbia smarrito la possibilità o la capacità di empatizzare con il figlio, di entrare in sintonia con lui.
«Abbiamo ribadito come ogni storia sia un caso a sé e che – fa notare ancora il presidente di Aiaf Lombardia – non sia corretto ricondurre tutto a categorie predefinite. Il tribunale non è un luogo di cura, ma un’istituzione per dare regole e strumenti».
Il confronto è servito anche per rimettere al posto giusto alcune caselle importanti, su cui spesso il rischio di far confusione è elevato. Quando il giudice deve chiedere aiuto allo psicologo? Quando deve affidarsi a una consulenza tecnica d’ufficio (Ctu)? «Il giudice – risponde Simeone – deve ascoltare direttamente i minori coinvolti nei casi di rifiuto genitoriale e non deve affidare il problema ai servizi sociali. Perché davanti ai servizi sociali non può intervenire l’avvocato e neppure un consulente dei genitori. Le Ctu, dove possono partecipare psicologi di parte, offrono un contesto più garantista, ma hanno un costo che non tutti possono permettersi».
Da qui la necessità di poter contare su giudici sempre più specializzati, in grado di gestire tutto l’iter della procedura, limitando il ricorso alle Ctu – è stato l’auspicio dei vari esperti – nei casi davvero complessi ed escludendo, almeno nelle situazioni ordinarie, la delega ai servizi sociali. Oggi però succede troppo spesso il contrario. Perché? «Perché è la strada più semplice, anche se sbagliata. I giudici – conclude Simone – devono riappropriarsi del loro ruolo, accertare i fatti e sulla base dei fatti accertati decidere. E farlo possibilmente in fretta. Il giorno di un bambino equivale a un mese per un adulto». Sullo sfondo la questione complessa e dibattuta della riforma Cartabia – già più volte affrontata – che qui non abbiamo lo spazio per tornare ad approfondire. Tutto è congelato fino ad ottobre e, molto probabilmente, andremo a un nuovo rinvio. Ma finché la situazione non sarà sbloccata, con l’arrivo dei fondi necessari, immaginare un sistema giuridico più efficace per minori e famiglie rimane pura utopia.