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 2025  giugno 29 Domenica calendario

Intervista a Davide Borniggia

Basta unire i punti, magari le mollichine. C’è Renato Zero o i Pink Floyd. I Nirvana con “lui, il cantante, totalmente sbronzo”. C’è Loredana Bertè, Gianni Boncompagni e Roberto D’Agostino. Ci sono i capelloni borghesi, c’è un mondo da ribaltare, suoni da scoprire, gonne da accorciare e fucili da smantellare.
C’è sua maestà Patty Pravo a catturare il riflettore della storia (“per un po’ ha rinnegato quel periodo”) o i Rockets a catturare fiamme non gradite (“stavano andando a fuoco!”).
C’è David Bowie a registrare il suo disco.
Dietro i puntini o appresso alle mollichine si arriva al Piper di Roma, uno dei locali più iconici del Paese, sessant’anni di storia, sessant’anni di mode, tendenze, piste da ballo, jack da inserire e una generazione di ragazzi poi diventati personaggi.
Allora i guru erano Giancarlo Borniggia e Alberigo Crocetta; oggi c’è il figlio di Borniggia, Davide, e i suoi soci, a continuare la tradizione nata in via Tagliamento.
Sessant’anni…
E fino ai miei 17 non ci ho messo piede.
Proibito?
Papà andava avanti con la sua vita, a me sconosciuta: nel frattempo io ero uno studente dai risultati non brillantissimi.
Quanto sconosciuta?
Prima di allora quasi totalmente. Era anche una questione di orari: papà li aveva ribaltati rispetto al comune vivere; (pausa) poi intorno ai miei 17 anni, quindi alla fine dei Settanta, è definitivamente cambiata la società, i complessi non andavano più tanto di moda, la musica dal vivo costava moltissimo, funzionavano i grandi eventi. Quindi la dimensione del Piper non era più adatta alle esigenze del mercato.
Soluzione?
Il Piper divenne una discoteca. Io 17enne mi iniziai a occupare dei pomeriggi danzanti, dopo anni di stop.
Cioè?
Dalla fine degli anni Sessanta, a Roma, i pomeriggi erano proibiti dal questore perché, sosteneva, i ragazzi pensavano a ballare invece di studiare.

Lei prima dei 17 anni non chiedeva a suo padre di entrare al Piper?
No, provengo da una famiglia molto borghese, da un mondo diverso, di posate d’argento e l’insegnante d’inglese in casa. Insomma, per loro il Piper non era un mondo adatto.
E il mondo del Piper non entrava tra le mura?
Vedevo Patty Pravo, Rocky Roberts o i Dik Dik; ricordo benissimo i Rokes, con Shel Shapiro che un giorno si presenta con una gigantografia di Peter Pan; (sorride) Patty la vestì mia madre: fu lei a prenderla e a portarla nei negozi giusti, quelli che esponevano gli abiti che arrivavano dall’Inghilterra.
Patty Pravo è la ragazza del Piper.
Qualche anno fa è tornata per un concerto, ma per anni ha rinnegato la storia della “ragazza del Piper”; ultimamente ha capito che è stata la sua fortuna.
Da “figlio” del Piper sarà stato ambito…
(Ride) Solo ambito? Ero un idolo, avevo in mano un potere smisurato, potevo decidere chi entrava e chi no, con file lunghissime fuori dal locale; (pausa, sorride) quei ragazzi di un tempo oggi sono diventati genitori, e ancora si raccomandano, ma per i figli.
Torniamo agli inizi del Piper: suo padre a chi era legato?
Tantissimo a Renato Zero; nel 2010 torno a casa, era tardi, e abito sopra il Piper. Vedo la porta del locale semi-aperta, mi preoccupo, temo i ladri. Così entro, scendo le scale, piano piano, e vedo Renato e tutti i “paperini” degli anni Sessanta, riuniti, compresa Marcella Di Folco. Marcella, grande amica di famiglia. Insomma, stavano lì e piangevano.
Botta d’allegria.
Renato parlava al microfono, papà seduto accanto, e tutti i presenti con le lacrime agli occhi che si abbracciavano.
Lei non sapeva niente.
Macché, mio padre era così; (pausa) quel gruppo stava lì a ricordare le storie di un tempo, i protagonisti di allora.
Chi sono i protagonisti?
Penso a Loredana Bertè, bellissima, meravigliosamente folle; (ride) il direttore del tempo viveva dei contrasti con lei…
Che tipo di contrasti?
Era geloso perché tutti i ragazzi le morivano dietro. Per questo una sera l’ha chiusa in mezzo all’uscita di sicurezza. Lei batteva i pugni, ma chi la sentiva…
Renato Zero.
Per me uno zio e nei primi anni Settanta veniva costantemente preso per il culo: “Chi c’è, Renato?” “Sì…” e giù risate. Lo giudicavano ridicolo, imbarazzante, da evitare.
Bella rivincita, la sua.
Renato ha avuto un coraggio incredibile.
Di tutti questi artisti, chi l’ha emozionata?
In realtà, nessuno. Ci sono cresciuto, per me era la quotidianità.
Neanche David Bowie?
No, ed è rimasto chiuso qua dentro quattro giorni e solo per registrare il suo disco; (ci pensa) a Roma, a fine anni Ottanta, ho aperto pure il Gilda e ho visto passare di tutto: da Grace Jones – che per un mese, ogni sera, cantava, magari a petto nudo – a Mickey Rourke, che vede una ragazza bellissima seduta a cena con il fidanzato. Il fidanzato si alza, va in bagno, Rourke prende il suo posto, due chiacchiere e se ne vanno. Il fidanzato torna e, povero, comincia a cercarla ovunque. Noi non sapevamo cosa rispondere.
Il nostro Umberto Pizzi ha spesso immortalato il Gilda in quanto frequentato dalla politica.
Pieno di onorevoli, da Renato Altissimo a Gianni De Michelis.
Pagavano?
Alla fine arrivava il portaborse e saldava.
De Michelis soprannominato “avanzo di balera”.
Il più scatenato, era un personaggio, in quel contesto molto divertente; stavamo a due passi dal Parlamento, era una sorta di dopolavoro degli onorevoli, un contesto differente dal Piper.
Piper era più musica.
Noi puntavamo sugli emergenti, lì ho visto la prima Gianna Nannini, Jo Squillo, o i primissimi Nirvana, con Kurt Cobain ubriaco alle prove, noi preoccupati per le condizioni e per lo scarso sbigliettamento.
E poi?
Una delle serate di maggiori emozioni è stata per il concerto di Keith Emerson: alla fine dell’esibizione sale sul palco un ragazzo, si mette accanto a lui, inizia a strimpellare, in qualche modo artisticamente si riconoscono, e vanno avanti fino alle cinque del mattino. Quel ragazzo era Pino Daniele.
Renzo Arbore?
Sempre qui con Gianni Boncompagni; Gianni una sera organizzò un concerto dei Rockets, con i loro classici abiti argento, da marziani. Peccato che uno di loro prese fuoco. Salvo, eh.
Franco Califano.
Qui ha tenuto uno dei suoi ultimi concerti, ma era in playback.
Peccato.
Quaranta minuti, sold out, alla fine, al momento dei bis, si commosse: “Non credevo di arrivare a questa età e ricevere così tanto affetto”. Fu una sorta di rito collettivo.
Proseguiamo.
Giorgia da corista del padre e della sua band: quando toccava a lei si giravano tutti, ipnotizzati dalla voce; (ci pensa) anche il padre è sempre fortissimo, ha festeggiato con noi i sessant’anni del locale.
Come nasce il nome Piper?
Da un pranzo con gli amici, poi diventati soci. Si ritrovano a casa nostra, brindano, iniziano a buttare lì qualche ipotesi di nome. Prendono una bottiglia di champagne, quello champagne era il Piper e da lì l’illuminazione.
Com’era suo padre?
Un uomo molto impegnato, per questo ho vissuto tanti anni con mia nonna.
Sempre al Piper.
Ancora non ci rendiamo conto che questo locale ha contribuito alla rivoluzione sociale degli anni Sessanta, quando i borghesi si sono fatti crescere i capelli e magari hanno scoperto gli effetti della marijuana; (sorride, a lungo) una sera venne Paul Getty: non lo fecero entrare.
Come mai?
Troppo trasandato, nessuno lo aveva riconosciut
o, eppure era uno degli uomini più ricchi al mondo.
Era una moda.
Tutti hanno contribuito a quella rivoluzione, anche persone come Ugo Tognazzi o Vittorio Gassman. Anche loro tra i paiperini.
Suo padre se ne rendeva conto?
Dagli anni Ottanta in poi preferiva stare al Gilda, forse per una questione generazionale.
Con lei in cosa è stato presente?
Se combinavo problemi grossi: se c’era da pagare per risolvere.
È stato un birbante?
(Lo sguardo racconta, molto) Qualcosa.
La veniva a prendere a scuola?
Solo un giorno, dopo una rissa: a casa si tolse la cinta e la utilizzò su di me. È stata la prima e unica volta: aveva torto, non era colpa mia (mentre parla si guarda attorno, siamo nell’ufficio privato, un tempo del padre).
Questa stanza avrà vissuti molti segreti…
Qui papà portava le sue ragazze, mentre dentro al Piper, di sotto, c’è un altro club: Il Drago bianco.
Il club nel club.
Un posto per pochi; entravano i soci, gli artisti e qualche amico intimo: era arredato con soli cuscini a terra.
E lì?
Si chiudeva la porta e accadeva quello che tutti aspettavano. Il bello è che nessuno sapeva dell’esistenza a parte chi era ammesso.
Suo padre ci entrava?
A lui bastava l’ufficio, quella era roba di Alberigo, uomo irrefrenabile, mentre a papà interessava mantenere i conti in ordine.
I conti e le donne…
Due fissazioni.
Lei chi è?
Il supervisore di una grande storia lunga sessant’anni.