il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2025
Nucleare, Banca d’Italia stronca i sogni di Meloni
Non ridurrà, ma semmai stabilizzerà, i prezzi dell’elettricità. Non eliminerà la dipendenza energetica dell’Italia dall’estero. Abbasserà invece le emissioni di gas climalteranti. A far scalpore della stroncatura della narrazione che preme per il ritorno al nucleare, ipotesi tanto cara al governo Meloni grande sponsor dell’energia atomica, più che i contenuti – che confermano tesi in circolazione da decenni – è la fonte: uno studio della Banca d’Italia. L’atomo fuggente: analisi di un possibile ritorno al nucleare in Italia, il titolo della ricerca pubblicata pochi giorni orsono da Luciano Lavecchia e Alessandra Pasquini, economisti di via Nazionale, che fa a pezzi la retorica nuclearista.
Il primo e maggior pregio dello studio è di riportare ai fatti il dibattito sul ritorno dell’Italia alla produzione di elettricità da fonti atomiche. Uno scontro che da quasi quarant’anni vede da un lato della barricata i convinti sostenitori della primazia elettronucleare sul fronte della convenienza economica e ambientale, dall’altro chi brandisce la volontà popolare espressa nel referendum del 1987 (e poi del 2011), che ha bocciato queste tecnologie dopo il disastro di Chernobyl. Nel mezzo si è infilato il governo Meloni che vuole tornare alla produzione anche tramite le nuove tecnologie condotte dalle partecipate pubbliche Eni, Enel e Ansaldo, facendosi forte della necessità di ridurre la dipendenza energetica nazionale, rischio che a cinquant’anni dalle crisi petrolifere è tornato con la guerra in Ucraina.
L’analisi riprende uno studio analogo del 2012 per valutare i possibili effetti sul prezzo dell’elettricità, sulla dipendenza energetica e sulle emissioni serra, valutando i cambiamenti degli ultimi anni. Dalla ricerca emerge che, data la struttura del mercato e della bolletta elettrica italiana, l’ipotesi di riavviare la produzione di energia nucleare non ridurrebbe significativamente i prezzi dell’elettricità. I costi medi dell’elettricità prodotta da centrali nucleari variano infatti sensibilmente con il costo del capitale, fattore economico e finanziario fondamentale vista la dimensione enorme degli investimenti necessari. Secondo le stime dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) riportate da Pasquini e Lavecchia, i prezzi dell’energia prodotta da centrali nucleari tradizionali o da nuove tecnologie (i reattori modulari di quarta generazione) sono competitivi con le migliori fonti rinnovabili, rappresentate dai grandi campi fotovoltaici con stoccaggio, solo se il costo medio ponderato del capitale investito nel nucleare fosse del 4% circa: “Una prospettiva ottimistica, considerato che la Iea lo assume generalmente all’8-9% per le tecnologie nucleari”, scrivono i due economisti. Così si finirebbe per abbassare il costo del capitale investito nel nucleare riversandone quote di costo in bolletta, come si fa oggi con le fonti rinnovabili. Ma a quel punto la variabile diventerebbe il tempo necessario a costruire nuove centrali o ad avviare la produzione in serie dei piccoli reattori di quarta generazione, attesi non prima del 2030. Il nucleare potrebbe invece ridurre la volatilità dei prezzi dell’elettricità, contribuendo a stabilizzare la spesa per i contratti a lungo termine delle imprese.
Sul fronte della dipendenza energetica dall’estero, secondo i ricercatori, la riduzione delle importazioni di idrocarburi sarebbe però compensata da una maggiore importazione di tecnologia (in gran parte oggi russa e cinese) e di combustibile nucleari. Ma l’uranio oggi è estratto e arricchito da pochi Paesi, come il Kazakistan (43% della produzione globale) che non sono affini all’Italia. Il rischio geopolitico dunque sarebbe solo traslato.
L’eventuale reintroduzione del nucleare beneficerebbe invece in modo consistente la riduzione delle emissioni di gas serra. Ma dall’analisi emerge anche un altro fattore importante di incertezza che riguarda la difficile scelta, i tempi lunghi e gli enormi investimenti necessari allo sviluppo delle nuove tecnologie nucleari, in gran parte non ancora pronte per la diffusione commerciale. “Tali incertezze rendono opportuno un approccio cauto, che predisponga e promuova anche strategie alternative”, scrivono Lavecchia e Pasquini. Con buona pace di Meloni e della lobby dell’atomo.