Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  giugno 29 Domenica calendario

"Prediligo l’azione i copioni senza fronzoli i dialoghi asciutti E scrivo di notte, tutto a mano"

Non ha avuto inizi di carriera molto facili il giovane Walter Hill, diviso come era tra l’attività nel campo dell’estrazione del petrolio (una sorta di destino obbligato, visto che suo nonno aveva fatto fortuna proprio in quel settore) e lavoretti vari in campo edilizio mentre frequentava il college: «Ovviamente lo facevo per raggranellare qualche soldo, ma è stata una vera e propria scuola di vita. Lì ho capito che poter scrivere per mantenersi è una fortuna inaudita, un qualcosa che ti cambia in meglio la vita. Per scrivere bene bisogna scrivere tanto, scrivere in continuazione. E su questo devo dire che non ho mai esitato, la scrittura scandisce la mia vita dalla giovinezza».
Il regista di I guerrieri della notte, di 48 ore e di Danko, a Roma su invito del cinema Troisi, si è a lungo raccontato incontrando gli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia dove ha ricevuto un premio all’eccellenza artistica. Il suo racconto prevede puntate sul passato e improvvisi ritorni al contemporaneo. Non parla solo di se stesso, ha molto da dire anche sulle persone con le quali ha lavorato. Come aiuto regista ha iniziato con due film che rappresentano due visioni quasi opposte di cinema hollywoodiano: l’action Bullit, uno dei grandi successi di Steve McQueen, e la commedia Prendi i soldi e scappa, con Woody Allen scatenato regista di se stesso. «Ma far l’aiuto regista non è niente di esaltante, devi compilare dei fogli, trasmettere degli ordini, verificare dei tempi. Assomiglia più al ruolo di un vigilante che a quello di un artista».
La svolta nella carriera di Walter ha un nome e un cognome (Sam Peckinpah) e un titolo (Getaway). C’è di nuovo Steve McQueen, c’è Ali MacGraw mai così bella, ci sono due attori amici di John Ford (Ben Johnson e Slim Pickens). E c’è soprattutto una sceneggiatura che Peckinpah non modifica quasi per niente. «Io e Sam ci volevamo molto bene, ma non eravamo propriamente amici. Il problema è collegabile ai suoi eccessi, sia nel campo del bere sia per quanto riguarda le sostanze. Quando era fuori di sé si inventava complotti ai suoi danni, totalmente immaginari. Però è stato molto importante per me. Il film ebbe grande successo, il mio telefono iniziò a suonare».
Meno piacevole il suo rapporto con un altro grande nome che si è interessato alle sue sceneggiature: «Io quando devo scrivere un film mi documento, vedo molti film di quel genere, leggo altre storie, faccio un’immersione totale. Feci così anche con John Huston, ma L’agente speciale Mackintosh non era granché: una storia debole così come debole era la mia sceneggiatura. Mi ero quasi specializzato a lavorare con Paul Newman, ma questo rapporto non ebbe troppa fortuna visto che anche un’altra mia sceneggiatura, Detective Harper acqua alla gola, ha dato origine a un film per il quale siamo fuggiti sia io sia il regista scelto, che era Robert Mulligan. Ma queste cose a Hollywood sono all’ordine del giorno».
La regia (e il successo) arrivano subito dopo, tra il 1975 e il 1979. Tre film che diventano subito di culto, tre sguardi sulle nuove metropoli con la loro vita e la loro nuova violenza. L’eroe della strada, Driver l’imprendibile, I guerrieri della notte: film che si vedono nelle sale popolari ma anche nei circuiti d’essai, e il nome di Walter Hill diventa sinonimo di successo con stile, di autore che sa coniugare azione e regia rigorosa. Ma nonostante il grande successo, Hill deve subire un mezzo scacco. Si tratta di Alien, il film di Ridley Scott che ha ridisegnato l’idea stessa di space-opera al cinema. Hill risulta come sceneggiatore solo per Aliens – scontro finale, Alien3 e Alien – La clonazione (rispettivamente girati nel 1986, nel 1992 e nel 1997), ma è invece coinvolto anche nel progetto originario che Sigourney Weaver interpreta diventando leggenda: «E pensare che nella prima sceneggiatura, quella che io ho iniziato a scrivere nel 1975 – e quindi quattro anni prima dell’uscita del film – l’equipaggio era tutto maschile e i suoi membri avevano tutti nomi di campioni di baseball (Brett, Parker) e di football americano (Lambert) che negli anni Settanta erano veri idoli. Il mostro, poi, doveva essere una creatura con i tentacoli, una sorta di polipo gigante che si doveva vedere però pochissimo proprio come avveniva in La cosa dell’altro mondo di Howard Hawks, uno dei film che ho più amato in vita mia. Poi l’inglese Ridley Scott lo ha modificato e sicuramente ha avuto ragione visto i soldi che ha fatto e i tanti sequel che sono arrivati. Il film lo produssero gli stessi studios che nel 1977 avevano realizzato Guerre stellari di George Lucas. Sentivamo la competizione e io dissi che noi eravamo i Rolling Stones e loro i Beatles. E io non ho mai amato i Beatles. Poi i seguiti, dopo una causa, hanno visto anche la mia firma, ma non erano granché».
Sono invece molto notevoli i personaggi che Hill tratteggia nei suoi film di maggiore successo. Gli otto protagonisti di I guerrieri della notte che duellano con le bande rivali, il poliziotto integerrimo e il ladro furbacchione che si alleano inopinatamente in 48 ore, i poliziotti geneticamente diversi ma più affini di quanto possa apparire in prima vista in Danko (forse il miglior film per Arnold Schwarzenegger), i musicisti “di strada” in Strade di fuoco (praticamnente la versione musical di videoclippara di I guerrieri della notte): tutti personaggi complessi, corposi, scolpiti nel marmo, seguiti con grande attenzione in tutte le tante scene d’azione che innervano questi lavori segnati da un grande successo di pubblico. «Sono film molto diversi tra loro, questo è evidente. Hanno però un elemento in comune: sono copioni asciutti, senza fronzoli, senza troppe parole sia per quanto riguarda i dialoghi sia per le indicazioni di regia. Mi hanno anche detto che sono minimalista, ma per me l’importante è fissare nel pubblico alcune caratteristiche che rendano riconoscibili i miei personaggi e poi dare spazio all’azione. Io penso che l’azione sia quanto di più vicino al sogno ci sia, e chi va al cinema vuole soprattutto sognare. Per quanto riguarda il mio modo di lavorare, non è cambiato con il passare degli anni. Scrivo tutto a mano, con una penna stilografica, con tanti block notes che scelgo accuratamente io. Ho i miei tempi, spesso scrivo di notte. Mi trovo bene oggi così come mi trovavo bene allora, anche se oggi forse c’è meno intelligenza nell’analisi e più attenzione a fattori artificiali come il famoso algoritmo».
Insomma, uno sguardo verso il passato che non tradisce rimpianti, che non prevede amarezze: «Non voglio lamentarmi del passato. Clint Eastwood non ha voluto interpretare 48 ore, allora ci rimasi un po male ma forse è stato meglio così, la gente come poliziotto si sarebbe aspettata un nuovo Callaghan e io invece avevo scritto un personaggio molto diverso. Di Alien vi ho già detto, dei western potrei parlare ancora a lungo ma la conclusione non può essere che una e una sola: non ho mai fatto Il fiume rosso, che di tutti i western è il più grande. Ho conosciuto tante persone, alcuni dei veri e propri geni, ho lavorato con loro ridendo e litigando, mi hanno sempre pagato a volte con qualche difficoltà ma alla fine ce l’ho fatta. Di che cosa dovrei lamentarmi?».