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 2025  giugno 29 Domenica calendario

Intorno al muro di Cipro agenti segreti, start up, discussioni sul velo e immobiliare selvaggio

Attraversare la Linea Verde a Ledra Street, uno dei cross-point ufficiali nell’isola divisa di Cipro, fa da principio l’effetto di un’emozione scaduta, un brivido da pacchetto all-inclusive. Se non si è in alta stagione turistica, la fila è inesistente; il controllo dei passaporti questione di minuti, una frazione minima rispetto alle attese all’aeroporto internazionale di Larnaca. Però i pochi passi nella zona cuscinetto, tra il gabbiotto dei funzionari ciprioti greci e quello della Cipro turca, e in mezzo le serrande dei negozi calate da decenni, le insegne sbiadite, danno la sensazione di camminare su una linea d’ombra.
La buffer zone, creata dalle Nazioni Unite nel 1974 per stabilizzare il cessate il fuoco dopo l’invasione dell’esercito turco, serpeggia nell’isola per 180 chilometri e taglia in due la capitale Nicosia (Lefkosia per i greci a sud, Lefkosa a nord per i turchi). La larghezza è variabile, da pochi metri o una breve passeggiata come nell’arteria di Ledra, a Nicosia – ma in altri punti della città sono giardini sezionati e abbandonati alla vegetazione spontanea, muri animati da graffiti, filo spinato sugli orli dei tetti e dei terrazzi – fino a più di 7 km che inglobano interi villaggi come Pyla, sulla costa meridionale, in una “terra di nessuno”, o meglio controllata dai caschi blu della UNFICYP (United Nations Peacekeeping Force In Cyprus), dove ciprioti greci e turchi si sono ritrovati in un vicinato coatto ma tutto sommato pacifico. In altri tratti, il terreno è ancora irto di mine anti-uomo. Capita che lungo la Green Line la vegetazione cresca selvaggia e alcune specie sono endemiche, tanto che su qualche depliant turistico si fantastica che a questo si debba l’origine del nome; la storia è più prosaica: verde era l’inchiostro della penna del funzionario britannico che tracciò la bozza della linea di separazione dopo i primi scontri tra le due comunità negli anni ’60 del secolo scorso.
I varchi sul confine di fatto, a lungo ermetico, sono stati aperti nei primi anni 2000. Oggi i malumori covano su entrambi i lati della Linea Verde, anche se per ragioni diverse da quelle che portarono alla partizione dell’isola cinquant’anni fa. Nella parte settentrionale, i ciprioti di discendenza turca, in maggioranza laici, sono preoccupati dell’islamizzazione spinta da Recep Tayyp Erdogan, a cominciare dall’educazione. Le strade della capitale si sono riempite di manifestanti a maggio durante una visita del presidente turco. La ragione delle proteste: una disposizione che permette l’uso del velo da parte delle studentesse nelle scuole. “Via le mani dalle nostre ragazze” era lo slogan più ripetuto. Nell’arcipelago di caffè che punteggiano il centro della turca Lefkosa tra la moschea di Selim, il bazaar coperto e il Buyuk Han, l’antico caravanserraglio, Erdogan è oggetto di lazzi e frecciate. «Gli farebbe bene una vacanza. Nella parte greca» scherza un ragazzo in inglese mentre trangugia un poco islamico gin tonic. Più serio il sindacalista Sener Elcil: «Se vogliamo salvarci dobbiamo continuare la lotta». La norma sul velo è vista come parte di un pacchetto progettato per trasformare la società turca originaria di Cipro, di discendenza ottomana, formata da quasi un secolo di amministrazione britannica, poi dall’impronta laica del kemalismo. Oggi il governo di Cipro nord è riconosciuto solo dalla Turchia. Erdogan sta favorendo una migrazione dall’Anatolia, soprattutto contadini, islamici e leali ad Ankara. Possibile che i turchi ciprioti comincino a guardare con nostalgia dall’altra parte della Linea Verde, dove le gru dei progetti immobiliari interrompono lo skyline, da Nicosia a Limassol, e le startup tecnologiche fioriscono insieme al turismo?
In realtà i problemi non mancano nella Repubblica di Cipro, ufficialmente riconosciuta dalla comunità internazionale e membro dell’Unione Europea, anche se culturalmente e finanziariamente incuneata in Medio Oriente. Il mondo politico è stato scosso dal libro denuncia Stato di Mafia (Mafia State, pubblicato da Alphadi) del giornalista Makarios Drousiotis, già consulente dell’ex presidente Nicos Anastasiades, che apre il sipario su uno scenario di favori e corruzione che coinvolgono quest’ultimo e il miliardario russo Dimitri Rybolovlev, noto per aver posseduto il Salvador Mundi attribuito a Leonardo. Veli che salgono e veli che calano. Phedonas Phedonos, il sindaco di Paphos, la città costiera del santuario di Afrodite, ma pure di alberghi scintillanti, condomini turistici, piscine turchesi senza soluzione di continuità, ha rivelato che Cipro è diventata un centro di riciclaggio per i cartelli della droga messicana. Team congiunti di investigatori ciprioti e dello FBI americano indagano sulle fortune nascoste degli expat russi e ucraini a Limassol, grattacieli che si alzano sul mare come a Miami e Dubai. Sotto il cielo sempre terso dell’isola di Venere le normative aiutano l’opacità; per non restare indietro la Cipro settentrionale, governo filo-Erdogan, ha all’approvazione dell’Assemblea una legge per attirare capitali grazie a controlli molto leggeri sulla provenienza, accusa l’Organized Crime and Corruption Reporting Project, piattaforma di giornalismo investigativo.
Se Limassol evoca Miami, Larnaca fa pensare all’Avana senza l’esuberanza caraibica. Un lungomare di palme sfinite, palazzoni fronte mare tirati a lucido e altri con l’intonaco mangiato dalla salsedine, fast food di hamburger e moussaka, rent a car equivoci, un castello che conserva le lastre tombali dei cavalieri crociati che arrivarono dopo la caduta di Gerusalemme. La moschea di Hala Sultan, su un lago salato dove si alzano in volo fenicotteri rosa, è più frequentata di quelle della Nicosia turca e farebbe la gioia di un orientalista dell’Ottocento. La Linea Verde è porosa e ingannevole: nella Lefkosia greca, a Fainaromenis, due signore in burka sorseggiano un tè alla menta sotto un graffito che recita Smash Patriarchy (Abbattiamo il patriarcato). A Larnaca investono israeliani e libanesi, che si guardano di traverso molto più che greci e turchi. Se la maggioranza delle startup hi-tech create sull’isola è trasparente, un nucleo consistente progetta e vende sistemi di cybersoverglianza piuttosto torbidi. La tecnologia più sofisticata viene da esperti d’intelligence israeliani. Fece notizia il famigerato Predator prodotto dalla Intellexa di Tal Dilian, colonnello riservista della IDF, già a capo dell’Unità 81 specializzata in guerra cibernetica, usato per spiare giornalisti. Dilian ha lasciato Cipro dopo lo scandalo della sottrazione di dati dagli smartphone dei passeggeri all’aeroporto di Larnaca attraverso impianti wi-fi installati da una sua compagnia.
Solo qualche anno fa si veniva a Cipro per sbirciare nel passato prossimo e remoto: l’ultimo “muro” in Europa, le rovine delle città micenee, le moschee in riva al mare, le basi militari, territorio ancora sovrano del Regno Unito, eredità coloniale. Oggi si arriva per guardare il futuro: una riviera da Paphos ad Agia Napa con uno sviluppo immobiliare selvaggio tale che potrebbe ispirare Trump per Gaza. Agenti segreti e profughi, turisti en masse e studenti universitari che arrivano dall’Europa e dall’Africa. Zone cuscinetto elastiche, come potrebbe essere in Ucraina, commerci opachi. Con l’estendersi dei conflitti in Medio Oriente, Cipro sta diventando un resort-crogiolo da retrovia e un porto franco di fatto. Guidando verso il varco di Deryneia a sud, lungo la costa, e oltre per Famagosta, dove sono le spiagge più belle, si avverte qualche brivido vero vicino alla stazione di ascolto elettronico di Agios Nikolaos, parte della base inglese di Dekhelia, capace d’intercettare segnali fino al Tigri e l’Eufrate: non ufficialmente i britannici la condividono con gli agenti della potentissima NSA americana che pagano le spese. Le spie sono tornate a Cipro. O forse non se sono mai andate.