la Repubblica, 29 giugno 2025
Intervista a Patrizia Marras
Si comincia da Capo Caccia, «che è quello che vedo dalla finestra di casa. Il simbolo di Alghero, il gigante che ci protegge...». Poi ci sono altri numi – anche santa Lucia, quella con gli occhi posati sul piattino – a benedire il lavoro di questa coppia Marras, fin dalla prima collezione del 1987. Si chiamava “Piano piano dolce Carlotta”, già lì si capivano molte cose. Da allora, Antonio Marras e Patrizia Sardo Marras hanno molto giocato alla moda, e ancora ci giocano, divertendosi e alzando ogni volta il tiro delle varie eleganze intelligenti che hanno proposto, anno dopo anno, da sardi audaci quali sono. Perché “la moda non è un mestiere per cuori solitari”, dice il titolo del libro di lei (per Bompiani), che ha giusto presentato l’altra sera nella piazza Sulis di Alghero, al festival letterario “Dall’altra parte del mare”.
Meglio essere in due, dunque.
«Siamo una coppia anche di lavoro, e questo nel tempo ci ha salvaguardato e portato fin qua, alle ultime sfilate, ai nuovi negozi, l’ultimo lo inauguriamo a luglio a New York. E pur avendo bioritmi sfalsati, e caratteri diversi… Poi questo è un lavoro di bottega, sa, e quindi c’è anche l’équipe. Ma insomma, si naviga pur sempre in un mondo difficile, e anche cattivo».
Che mondo è, allora?
«La moda è un gioco crudele, dove bisogna essere molto sicuri di sé, anche se penso che il dubbio è sempre un compagno prezioso. Un ambiente dove non bisogna lasciarsi intimorire, perché oggi sei un dio, ma domani non ti guardano in faccia. E sei nella mailing list dei party, magari vicino all’uscita di sicurezza, o ai bagni. Ci ridevo su prima, e ci rido ancora oggi. Ma ci sono pr che sono tutte baci e abbracci, a seconda del periodo, e magari dopo non ti guardano più, perché di colpo sei diventato trasparente».
Lei non corre questo rischio. Capace com’è di andare a fare la spesa in crinolina.
«È il mio stile personale, che non è quello di antoniomarras, come io definisco mio marito. Infatti certe volte lui mi domanda: “Ma dove stai andando, vestita così?”. E poi ognuno ha ormai gli armadi pieni e può pescare dal passato e dal contemporaneo, creando a suo gusto. A me dà gioia. E trovo noioso chi si veste per uniformarsi a uno stile. Coco Chanel diceva sempre di guardarsi allo specchio, prima di uscire, e di togliere qualcosa. Io invece aggiungo. Devo apparecchiarmi, come un albero di Natale».
E mai senza rossetto.
«Mai. La prima cosa che faccio appena alzata. Ma è perché mi vedo brutta. Comunque lo metto anche per uscire in barca».
Lei è figlia di sarta, nipote di sarta, dunque sapeva cos’è un “plissé soleil” anche prima di conoscere suo marito?
«Mani di fata e Rakam erano la Bibbia, a casa nostra».
Poi è arrivato Fiorucci.
«Mio suocero aveva un negozio di tessuti in centro ad Alghero, poi di abbigliamento. E ha introdotto i famosi jeans Fiorucci e i camperos di Peter Flowers. Venivano da tutta la Sardegna a comprarli».
E chi non si è sdraiato sul letto per infilarsi quei jeans…
«… di due taglie più piccoli. Noi ragazzi organizzavamo delle sfilate private in negozio, poi antoniomarras ha cominciato a fare le vetrine, i manichini avevano delle giacche arrotolate sulla testa. Un mago del visual. Ci conosciamo da quando avevo 14 anni, ci siamo sposati nel 1989».
Definisca lei lo stile Marras, che è cosa difficile.
«È difficile perché variegato. Eclettico, caleidoscopico. Ma è anche un classico rivisitato, che si rifà a forme già nella memoria collettiva, ma con decorazioni, applicazioni, cromie, contrasti, che poi si compongono magicamente».
Paquita Paquin, la giornalista di moda di Libération, parlò di “haute culture”. Suo marito però non li definisce abiti, ma “stracci”. È uno snob?
«No, no. Lo dice con orgoglio, perché è nato commerciante. Poi, è uno bravissimo a vendere, ma quando si arriva alla cassa, se ne va. Io invece non li venderei mai, anzi ricompro i pezzi, anche doppi. Ci tengo, sono come bambini. Non li si può mica abbandonare».
Lei è anche collezionista. Quanti vestiti ha?
«Non lo so. Migliaia. Quarant’anni di nostre collezioni, più quelli di Kenzo, quando mio marito era il direttore artistico della maison. Più quelli comprati per ricerca, e quelli miei personali, molti dei quali d’epoca. Poi ho una collezione di abiti sardi, e centinaia di accessori, borse scarpe, foulard. Tutto in un magazzino che sto giusto cominciando a schedare».
E tutta questa sarditudine, che impregna il suo libro (oltre alla famiglia, le “tzie”, gli amici, i molti cani per lo più di strada, i panorami abissali). E il profumo di ginepro.
«Ho scritto che tutte le strade portano ad Alghero, e noi abbiamo viaggiato davvero per tutto il mondo, portando in giro i nostri “stracci”. Ma Alghero è una malattia di cui entrambi soffriamo. Poi, adesso antoniomarras sta benissimo a Milano, perché ci sono i teatri, le mostre da preparare, i costumi per uno spettacolo da allestire… È un uomo imprevedibile, anzi un macigno, come diceva Lea Vergine di Enzo Mari».
Infine, c’è il “ligazzo rubio”.
«È una semplice fettuccia color rosso carminio, un oggetto simbolo che regaliamo nei nostri negozi. Riporta ai lacci che una volta legavano i pacchi e le valigie, comprese le nostre, quando siamo arrivati la prima volta a Milanovendemoda. Siamo diventati stilisti per caso, non avevamo la velleità. Poi è tutto successo, ed è stato un attimo».