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 2025  giugno 29 Domenica calendario

Proclami atomici

Nel dichiarare la fine di una guerra che lui stesso ha battezzato «dei dodici giorni», il presidente Trump ha deciso di ricorrere, fra tutte le similitudini possibili, a quella con i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki.
Il rimando ha suscitato l’indignazione degli hibakusha, i sopravvissuti giapponesi alle bombe, e una fiammatina di sgomento da noi, subito superata da altro.
T ornare adesso sulle parole di Trump può apparire pedante, quasi infantile, come ogni tentativo di commento serio alle sue provocazioni. Ma è un sacrificio dell’orgoglio che vale ancora la pena di compiere, un esercizio a cui non dovremmo rinunciare, affinché il senso delle affermazioni non vada definitivamente perduto, proprio ciò che la retorica trumpiana desidera. Prese sul serio, infatti, le parole di Trump su Hiroshima e Nagasaki hanno un portato simbolico enorme. I bombardamenti delle due città nell’agosto del 1945 – finora gli unici attacchi atomici della storia – furono senza dubbio «risolutivi». Ma causarono un totale di vittime ancora difficile da stimare, che si aggira attorno alle trecentomila. Nella lista dei target compilata dagli americani, il criterio esplicito era proprio di massimizzare il danno civile e infrastrutturale. Le esplosioni dovevano essere spettacolari e incutere un timore senza precedenti nella popolazione. Proprio per questo fra gli obiettivi iniziali c’era in prima posizione Kyoto, la capitale storica.
Venne scartata all’ultimo momento per una coincidenza: se il segretario di guerra Stimson non l’avesse visitata e apprezzata durante il suo viaggio di nozze, oggi non avremmo granché da visitare dei suoi templi. Hiroshima fu scelta al suo posto perché ancora ben conservata. Quanto a Nagasaki, esiste oggi un accordo sostanziale sul fatto che il suo bombardamento sarebbe stato evitabile anche ai fini della conclusione della guerra. Ma si procedette comunque, c’era da testare l’altra bomba, quella al plutonio, e ormai era scappata un po’ la mano.
Guardati con le lenti del diritto contemporaneo, gli attacchi di Hiroshima e Nagasaki si configurano come crimini di guerra plateali, e verosimilmente come due immensi attacchi terroristici. Usarli come esempio di una soluzione rapida e pulita, come Trump ha fatto, non è solo una falsificazione storica ma un ritorno inquietante alla lettura di quegli eventi che una parte di occidente si era fabbricata subito per giustificarli, e che nel tempo abbiamo superato.
Il paragone ignominioso di Trump ha tuttavia almeno un merito: ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che a ottant’anni da Hiroshima siamo ancora immersi nell’era atomica, che non ne intravediamo la fine, perché forse fine non ci sarà. Di tutte le aberrazioni che l’umanità ha prodotto, la bomba atomica resta ancora la peggiore. E non è affatto, come ci siamo a lungo convinti e come si auguravano i fisici pentiti di Los Alamos, la miglior garanzia di pace possibile. Con l’invasione russa dell’Ucraina l’equilibrio basato sulla deterrenza si è tramutato nel suo contrario, in garanzia d’impunità per l’aggressore. Chi non ne era ancora convinto, adesso ha questa breve guerra Israele-Iran-Stati Uniti, dove la minaccia nucleare ha funzionato da movente ideale per scatenare un attacco.
Il proclama di un mondo d’un tratto più sicuro, che Netanyahu e Trump stanno festeggiando, è fallato. Non solo perché non è chiaro il risultato raggiunto in Iran. Ma perché qualunque proclama di pace che agita lo spettro nucleare è fallato al suo interno. Ha un cuore radioattivo, tanto per restare in metafora.
E comunque, la deterrenza nucleare come cauzione di pace non funziona di per sé. Funziona solo in combinazione con l’assennatezza dei leader, in particolare i leader dei Paesi che hanno l’atomica. Purtroppo l’impressione di una scarsa, scarsissima affidabilità dei decisori, dai singoli governi fino ai vertici sovranazionali, si sta diffondendo fra noi cittadini, proprio nel mezzo della peggior escalation militare dal secondo dopoguerra. E la strategia trumpiana dell’inaffidabilità, della contraddizione seriale – se di strategia si tratta – non ci rassicura. Magari è geniale, come ritengono alcuni, ma ci costringe a illazioni continue. Come riuscire a spiegarci perché festeggiare la neutralizzazione di un programma atomico evocando i due bombardamenti più sanguinari della storia. Perché, se non per dire che anche quell’evento può essere riscritto a piacimento, «obliterato», svuotato del suo orrore e addirittura celebrato? Perché, se non per dire che nel mondo di oggi, il mondo che Trump desidera, tutto ma proprio tutto vale, purché funzioni?