Corriere della Sera, 29 giugno 2025
Grande Fratello. Trump vuole tutti i dati degli americani
Lo Stato che controlla, concentrandoli, tutti i flussi di dati disponibili nelle reti pubbliche e private: fiscali, sanitari, scolastici, professionali, bancari. E che, poi, crea profili dei singoli cittadini. Da premiare o punire secondo criteri di utilità sociale (Saldati i debiti? Pagate le tasse? Buoni risultati nel lavoro?). Ma anche da sorvegliare: un Grande Fratello capace di individuare i dissidenti.
È il Scs (Sistema di credito sociale) cinese, lontano anni luce dai sistemi politici e di intervento nel sociale dell’Occidente. Fino a ieri.
Ora un ordine presidenziale firmato tre mesi fa da Donald Trump, poco notato nel diluvio dei suoi provvedimenti esecutivi, e ulteriori interventi dei giorni scorsi sui singoli Stati dell’Unione, stanno diffondendo (in casa democratica e tra i Maga libertari) il timore che anche gli Stati Uniti si stiano dotando di un sistema centralizzato di archiviazione di tutti i dati disponibili nelle reti delle amministrazioni federali e di quelle nel territorio (città e Stati). Una rimozione dei vincoli stabiliti dal Privacy Act del 1974 (vieta a ogni ente pubblico di trasferire dati dei cittadini all’esterno senza il loro consenso) e da altre leggi, giustificata da Trump con esigenze di efficienza e lotta ad abusi e sprechi: «Basta coi dati chiusi in silos burocratici».
Il cambiamento di paradigma era iniziato col Doge di Elon Musk che aveva chiesto e ottenuto l’accesso a dati sensibili come la posizione fiscale di tutti i cittadini. Dopo l’uscita di Musk dal governo la rotta non è cambiata. Anzi, sono continui gli interventi federali nei quattro angoli del Paese. Come quello del ministero dell’Agricoltura: vuole da tutti gli Stati informazioni dettagliate (identità, residenza, data di nascita, posizione previdenziale) sui 42 milioni di poveri americani che ricevono assistenza alimentare attraverso i cosiddetti «food stamp». Alla ricerca di abusi.
Il portavoce della Casa Bianca nega intenti illiberali e sostiene che con un grande database centrale i soldi dei contribuenti verranno spesi meglio, sarà più facile colpire gli immigrati illegali e ci sarà più sicurezza.
Il colosso di Thiel
I conservatori furiosi per l’incarico a Palantir, fornitore informatico del Pentagono
I democratici chiedono da settimane il blocco di queste politiche di Trump ma in Congresso sono in minoranza. Alcuni tribunali sono intervenuti sospendendo la demolizione di qualche silos, ma dopo la sentenza della Corte Suprema di venerdì anche i freni giudiziari avranno efficacia limitata.
Le preoccupazioni, per Trump, arrivano soprattutto dal mondo Maga: i leader repubblicani per ora tacciono, ma in Rete molti attivisti e influencer trumpiani sono in rivolta. Per Donald si getterebbero nel fuoco, ma sono ideologicamente libertari: ostili all’invadenza del governo, venerano le libertà personali, soprattutto la privacy. E ora attivisti come Hodgetwins (3,3 milioni di follower), The Patriot Voice o l’estremista nazionalista Nick Fuentes gridano al tradimento. A loro basta il grande accumulo di dati per parlare di «monitoraggio invasivo», mentre per l’ex deputato Justin Amash è in arrivo uno «Stato di sorveglianza».
A farli infuriare è anche l’incarico dato alla Palantir, il gigante informatico di Peter Thiel, grande fornitore del Pentagono e dei servizi segreti Usa, di raccogliere e ordinare questa enorme mole di informazioni attraverso Foundry: la sua piattaforma intelligente, bollata da Wikileaks come organizzazione spionistica. La società respinge le accuse, ma i tradizionalisti Maga, da sempre ostili ai tecnologi trumpiani (a partire da Steve Bannon, in guerra con Musk fin da quando lui era il «best buddy» di Trump) vogliono sfruttare il caso per un regolamento di conti anche con Thiel, dopo l‘uscita di Elon dal governo. Per loro Palantir è la quintessenza di quel deep state del quale Trump si dichiara nemico giurato.
Per molti quella dei libertari è una reazione eccessiva: disporre di un’enorme mole di dati favorisce l’efficienza e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. È stato questo, fin qui, il principale vantaggio competitivo della Cina. Ma, se torniamo indietro negli anni, vediamo che nel 1974 il Congresso, prima di varare il Privacy Act, discusse se privilegiare l’efficienza o la riservatezza. Vinse la riservatezza soprattutto sotto la spinta del grande conservatore Barry Goldwater. Troppo pericoloso, per lui, un governo che sa tutto di tutti: arma micidiale nelle mani di un leader che volesse usare i poteri dello Stato in modo repressivo.
Ora, mentre, computer scientist come Paul Graham avvertono che «Palantir sta costruendo un’infrastruttura che potrà essere usata per imporre uno stato di polizia», scende in campo anche Ron Paul, vecchio totem dei repubblicani libertari: denuncia il rischio di un «surveillance state» e invita i conservatori a non farsi convincere ad accettarlo con la promessa di più sicurezza. Significherebbe ripetere l’errore di 20 anni fa col Patriot Act: doveva dare più sicurezza dopo gli attacchi di Al Qaeda, ma ha solo limitato le libertà.