Il Messaggero, 28 giugno 2025
Intervista a Giuliano Sangiorgi
È diventato un grosso suonatore di racchetta e stravede per una donna chiamata Ilaria: «L’altro giorno, con la mia compagna, parlavamo dell’importanza della noia. Dei lunghi pomeriggi in cui da bambini, senza saper che fare, scavavamo dentro di noi, inventavamo mondi e mestieri e costruivamo i nostri sogni. Io ho realizzato il mio perché, molto prima della chitarra, ho imparato a suonare una racchetta da tennis. Della musica non sapevo nulla, ma ascoltavo dischi meravigliosi con i miei fratelli Luigi e Salvatore e nella mia cameretta che immaginavo come un grande palcoscenico toccavo le corde di questa racchetta sognando di essere Bono Vox. Avevo otto anni e ancora oggi, quando entro in uno stadio per suonare, fatico a credere che sia accaduto davvero».
Giuliano Sangiorgi ha conservato «lo stupore che mi permette ancora di stupirmi» e dopo vent’anni di dischi, avventure e viaggi sa che l’unico che conti davvero è quello che verrà. Lei è partito da un piccolo paese del Salento e con la sua musica è arrivato fino a San Siro.
Il successo pacifica?
«Direi che amplifica le ansie. Non sono mai riuscito a giudicarmi né a vedermi per quello che sono. Vivo una scissione continua tra l’uomo che vorrei essere e- per dirla con Francesco Piccolo – l’animale che mi porto dentro. Sono inquieto, sempre inquieto. È come se fossi costantemente in bilico, in equilibrio precario, in caduta libera».
Le dispiace?
«Per niente. La precarietà ti rende vigile e cadere è il miglior modo per sentire le cose in profondità. Senza inquietudine non avrei potuto scrivere canzoni e diffido sempre di chi si dice sereno. Mi chiedo cosa significhi e se la serenità non somigli alla narcosi».
Questa sua inquietudine ha uno scopo? Un fine?
«Se lo avesse non confinerebbe con la libertà. La parola scopo mi insospettisce, mi sembra un modo per mettere le mani avanti, un espediente furbo, una limitazione delle possibilità».
Cos’è la libertà per lei?
«La certezza di poter rischiare. Non mi interessa sopravvivere felice e contento, mi interessa vivere».
Chi è stato il primo a riconoscere il suo talento?
«Mio padre. Avevo montato degli elastici sul corpo di una sua vecchia chitarra che credevo morta, la suonai, registrai l’incisione e lui la ascoltò. Eravamo in macchina. Frenò, fece inversione di marcia e si fermò in un negozio di articoli musicali per comprarmi una chitarra nuova. Non la regalò a suo figlio, ma al talento che gli sembrò di intravedere».
Cosa è rimasto dello spirito degli inizi?
«L’idea di inseguire l’emozione. I Negramaro non hanno mai avuto aspettative, non hanno mai pensato a dove sarebbero arrivati, a cosa potessero ottenere, al pubblico da raggiungere. Eravamo una voce nel deserto, in una Puglia in cui c’erano enormi stimoli culturali e un’assoluta assenza di strutture. Per sognare bisognava farlo in grande, ma sognare in grande non significava sognare un risultato a tutti i costi. A noi bastava accarezzare l’idea di portare la nostra musica in giro come facevano gli Afterhours, i Marlene Kuntz o i Subsonica».
Ad aiutarvi nell’impresa fu Caterina Caselli.
«Ci scoprì attraverso Carlo Antonelli e poi, in breve, dopo aver visto una demo ed essersi entusiasmata ci propose un contratto per realizzare sei dischi».
Festeggiaste?
«Litigammo. Eravamo tutti a Milano, a casa di mia zia Antonella: una santa che ospitava sei bestie squattrinate che spendevano le poche lire che avevano per organizzare dei concerti a due passi da casa. A Lecce eravamo come i Pink Floyd, a nord di Brindisi degli emeriti sconosciuti che provavano, con un certo grado di velleitarismo, a fare musica. Compravamo l’attrezzatura, suonavamo e a volte in tasca non restavano neanche i soldi per una pizza e una birra».
Torniamo al litigio.
«Qualcuno di noi aveva il timore di essere ingabbiato e lo disse ad alta voce. Mia zia era incredula: “Ragazzi, ma siete impazziti? Vi rendete conto della fortuna che vi è appena capitata?”. Ci proponevano di trovare un centro e di avere una protezione: noi un centro e una protezione non volevamo averli. Per fortuna, senza perdere un’oncia della nostra libertà creativa, rinsavimmo e quel contratto lo firmammo».
“Mentre tutto scorre” ha appena compiuto vent’anni.
«Sembra ieri. Se ripenso a quel periodo ricordo soprattutto l’inconsapevolezza. Facemmo una tournée lunga novanta date e ogni tanto, mentre le tv e i giornali si occupavano del nostro fenomeno, chiamavo mia madre per chiederle di ricaricarmi la Postepay. Eravamo bambini immersi nel sogno, della vita pratica e di ciò che ci ballava intorno capivamo poco».
In cosa il successo dei Negramaro fu diverso da altri esiti felici?
«Fu un successo di periferia, ma della periferia vera, non di quella che cresceva attorno alle grandi città. C’era un fuoco che bruciava e alimentava una fiamma che ha veramente iniziato a espandersi ovunque fino ad arrivare ad essere mainstream, a cambiare il pop, le canzoni trasmesse dalle radio, la percezione collettiva. Ci sono voluti vent’anni e che qualcuno oggi lo riconosca o meno non ha importanza».
I Sud Sound System, mitologico gruppo salentino della sua adolescenza, cantavano in tempi non sospetti dell’importanza delle radici.
«Le radici contano e per noi hanno contato tantissimo. Non ho ancora capito se abbiamo fatto musica per viaggiare o per stare insieme conservando la magia del principio: arrivato a questo punto non me lo domando più».
Non ha mai pensato che dopo tanto tempo trascorso con il suo gruppo, più fratelli che amici, avrebbe potuto iniziare una carriera da solista? Non le viene mai il sospetto di aver sacrificato qualcosa in nome della fedeltà a un’idea?
«Sempre».
Anche oggi?
«Anche oggi. Sacrifico quell’ipotesi perché credo di aver capito che ho voluto far musica nella vita perché ero innamorato dell’idea di avere amici con cui sognare. Quando andai a New York e il gruppo attraversava una crisi scrissi “Amore che torni” e mi scoprii triste perché non potevo comunicare quell’emozione a chi era stato con me fin dall’inizio. A casa ho due dischi nel cassetto, due dischi da solista. Ma penso che non saranno mai pubblicati».
Perché?
«Forse per rispetto. Tra di noi non è soltanto una questione di affetto, ma di sostegno reciproco. Non è mai mancato, neanche nei momenti più neri. Forse, all’esterno, il mio peso specifico è diverso, ma all’interno della band io mi sento un sesto del gruppo. Né di più né di meno. Di essere il frontman di me stesso mi interessa poco. La nostra storia somiglia a una scultura ancora informe, ma non è finita e voglio ancora lavorarci. Rompere la pietra e magari anche le palle a qualcuno».
Continua a lavorarci perché diventi un monumento?
«Per carità. Come diceva Paolo Villaggio sui monumenti ci cagano i piccioni. No, voglio lavorarci perché penso che il gruppo possa dare ancora molto. Farò il solista solo e soltanto se mi renderò conto che abbiamo dato e detto tutto. Non è ancora il momento e magari quel momento non arriverà mai. O forse sì, ma anche se arrivasse non cambierebbe un dato incontrovertibile: io e i Negramaro siamo e saremo sempre una sola cosa».
Sente mai come un peso il tempo che è passato?
«Sicuramente, è inevitabile. Qualche scoria resta, qualche callo qui e là c’è. E allora devo raschiare via la patina, pulire i pensieri e ricominciare sempre da zero. Avere la consapevolezza degli anni che abbiamo trascorso insieme crea delle difficoltà e delle sfide. Scrivere e cantare per i Negramaro per me è molto complesso, ma altrettanto gratificante. Ho dato i miei testi a Patty Pravo, a Mina, a Celentano e a Ornella Vanoni, ma quando mi è capitato di farlo per il nostro gruppo la sensazione è stata diversa e la vibrazione, fortissima e irripetibile. La sento ancora, se è possibile ancora più intensa di quanto non la sentissi ieri».
Come mai?
«Perché ci siamo sforzati di parlare una lingua che avesse sempre una coerenza con l’epoca nella quale ci trovavamo a vivere. È cambiato tutto, ma siamo rimaste sei teste pensanti che si confrontano continuamente».
Quando hai un repertorio così vasto rinnovarsi è più difficile?
«Prima, per trovare l’ispirazione, avevamo un’autostrada. Oggi quell’autostrada si è trasformata in un tunnel da cui filtra uno spiraglio di luce che incontrare è più complesso: un po’ perché lo spazio si è ristretto e un po’ perché devi schivare i proiettili della ripetizione. E allora, per non ripeterti, devi attingere a tutte le visioni: a quella di Danilo, di Ermanno, di Lele, di Pupillo, di Andrea».
Alla sua.
«E anche alla mia, certo. Sa qual è la verità? Che per essere un gruppo non è sufficiente affermare di esserlo. Un gruppo è un gruppo: le cose si discutono, si valutano e poi si decidono insieme. Io non volevo neanche cantare. Sul palco, con il microfono, mi hanno messo gli stessi Negramaro venticinque anni fa».
Cosa avrebbe voluto fare lei?
«Suonare la chitarra e scrivere. La scrittura è quella cosa che mi tiene in vita, che alimenta il fuoco, che insieme ai miei figli e a Ilaria mi fa venire voglia di svegliarmi la mattina».
Ancora sull’ispirazione. Che cos’è?
«Tutto tranne che un esercizio a cui sottoporsi. Per me l’ispirazione è la libertà di sentirmi libero e quindi anche libero dal fatto che questa ispirazione possa esserci come non esserci. Non voglio ricercarla e non voglio inseguirla. Quando arriva però la riconosco».
In che modo?
«Mi siedo al pianoforte, capisco che sta arrivando il caos e a quel caos mi abbandono completamente».
La scrittura è una forma d’amore?
«Una forma d’amore gigantesca. Un mare aperto in cui l’unica cosa veramente importante è lasciarsi andare. L’anno scorso, per la prima volta, a quarantacinque anni, ho provato a fare surf. Ero in Portogallo e fino a quel momento non avevo mai avuto il coraggio di provare. Pigrizia, freddo, timore di non esserne capace. Poi ho deciso, mi sono alzato sulla tavola per tre secondi e mi sono sentito nei pressi di Dio».
Se la cavava?
«Sono caduto subito e mi sono rialzato: una, due, dieci volte. Quello che in fondo mi capita da sempre, da quando sono nato per essere precisi. Caddi anche la prima volta che salii sul palco, in un minuscolo stadio nei dintorni di Taranto. Il fondo era umido, scivolai, feci un volo pazzesco e atterrai sul pubblico. Gli altri continuarono a suonare. Cadere, rialzarsi, accorgersi che il mondo può fare a meno di te e che la vita continua comunque. Alla fine è tutto lì».
Per lei il passato è tenerezza, orgoglio o nostalgia?
«È un luogo da cui non mi sono mai mosso. Sono rimasto esattamente fermo all’attimo in cui il sogno si è manifestato per la prima volta e questa eterna epifania mi ha permesso di non avvertire nessuna nostalgia».
Per chi e per cosa la prova?
«Per le persone care che ho amato e che non ci sono più. Abbiamo macinato così tanta strada nel viaggio che a volte non ti ricordi neanche di chi hai perso. Qualche tempo fa se ne è andata Nicoletta, la madre di Ermanno, il nostro bassista. Nella sua cantina, due metri per due, scavata con le nostre mani, suonavamo tutti i giorni a un volume intollerabile. Eravamo ossessionati, posseduti, felici e sudati. Lei si affacciava solo per avvertirci che il pranzo era pronto. La sua scomparsa è stato un grande dolore, lenito solo dal fatto di poter legare a quell’addio un’infinità di ricordi. Quando muore qualcuno, cerchi il dolore e la memoria, se non trovi nessuna delle due cose ti senti uno stronzo. A volte mi è capitato e non si è trattato di una bella sensazione».
Con chi le è capitato?
«Con mio padre. L’ho amato come non ho mai amato nessuno e la violentissima sofferenza provata per la sua morte alla lunga mi ha anestetizzato e mi ha creato molti problemi con me stesso».
Quali problemi?
«Provo rancore e rabbia nei miei confronti perché è come se per proteggermi avessi dimenticato quel dolore che mi spezzò in due e mi fece cambiare la percezione di ogni cosa. È come se il corpo ti desse una corazza per non consentirti di ferirti a morte, ma io quella corazza la odio: non la vorrei, preferirei polverizzarla, distruggerla, eliminarla. Vorrei invece tornare a quel dolore e leggerlo perché quel dolore mi permette di sentire».
E anche di creare?
«Anche, certo. Quando sono triste scrivo, quando sono felice, come diceva Tenco, esco».
Le canzoni, anche le più malinconiche, possono produrre gioia.
«È la magia della musica, la sua forza. Può mascherare la gioia con gli abiti della disperazione e ti permette di accedere a tanti piani di comprensione. Grazie alla mia passione ho potuto dire tante cose alle persone che mi stavano intorno e quelle stesse cose, se avessi dovuto verbalizzarle, non sarei riuscito a esprimerle».
Crescendo è diventato più bravo con le parole?
«Da piccolo, in certe occasioni, il silenzio era meglio delle parole. Un giorno di tanti anni fa trovai mia madre e mio padre intorno al tavolo della cucina intenti a confezionare piccoli pacchetti. Mi dissero “oggi non andiamo a scuola e ti facciamo vedere una cosa”. Stiparono la macchina di generi alimentari e giocattoli e arrivarono in prossimità di un porto. Poi papà parcheggio e mi chiese di aiutarlo a scaricare il cibo».
A che scopo?
«Papà, che era tutt’altro che ricco, aveva deciso di spendere una parte del suo stipendio per accogliere e dare conforto ai migranti che erano sbarcati dalla nave Tirana a Brindisi. Aveva deciso di mostrarmi che il mondo poteva essere crudele. Aveva deciso di non mettermi la mano davanti agli occhi. Quel giorno, intorno all’auto, assistetti all’assalto di adulti e bambini al piccolo tesoro che custodivamo. Avevo un pacco di patatine in mano, smisi di mangiarle e le lasciai a chi ne aveva più bisogno. Quell’immagine non mi appartiene più eppure è ancora dentro di me».
Perché l’ha conservata secondo lei?
«Forse perché sono diventato padre e mi domando tutti i giorni che tipo di futuro toccherà ai miei figli in sorte».
E cosa si risponde?
«Che avranno il futuro che i loro occhi saranno in grado di guardare. Il mio compito, fino a quando sarò qui, è provare a nascondere il meno possibile. Da bambino mio padre mi fece vedere C’era una volta in America. Quell’episodio cambiò completamente e in meglio il rapporto tra noi. Non tutto è censurabile, se si vuole provare a diventare adulti. Mentre tutto scorre, a qualche punto fermo dobbiamo ancorarci».